FERRUCCIO BUSONI

ALLA MELODIA DELL'AVVENIRE

Der Melodie die Zukunft.
H.48 (dove il titolo, benché fornito correttamente nell'indice, nel testo è dato erroneamente come «Die Melodie der ZuKunft», che potrebbe anche tradursi «La melodia dell'avvenire»). Pubbl. da Friedrich Schnapp in «Zeitschrift für Musik», Lipsia, XCVII, n. 2, febbraio 1930. Una prima versione se ne trova in una lettera di Busoni alla moglie del 15 marzo 1911.


Melodia è il grido di guerra del di-
lettante, solo domandategli quale.

Schumann

 

Al comporre bisognano tre cose, prima
la melodia, poi ancora la melodia,
la terza volta infine la melodia.

Dalle lezioni di Jadassohn [1]

 

Questo qualcosa che è più grande di noi,
che non tanto esiste quanto piuttosto tende
all'esistenza, che oscilla tra essere e non
essere, com'è meraviglioso! Ha assunto
la figura e i tratti di mille divinità diverse,
s'è cercata una forma in pietra e in avorio,
in melodie e in parole elette...

G. H. Wells, «TI nuovo Machiavelli

 

Si può dire - contraddica chi vuole - che come legge senza eccezioni la melodia è stata adoperata per la prima volta da Wagner. Ma «riconosciuta» giusta questa legge è stata sempre, anche prima di lui.
L'arte più antica trascura l'elemento melodico, e tanto più quanto è più antica.
Inconsciamente noi avvertiamo nelle opere classiche il dominio di altri criteri di valore e misuriamo con un metro ridotto.
La linea ampia del sinfonismo nuovo manca alla musica prewagneriana. Vi dominano ancora -con il respiro corto delle grandi altezze - le otto battute, e quel che le riempie è fattura più primitiva. - In Beethoven questa appare soprattutto nel suo «secondo» periodo - il meno potente dei tre -, nella Quinta, nella Waldstein-Sonate, nei tre quartetti dell'op. 59.
D'altro canto si potrebbe affermare - e mi si torni pure a contraddire - che nel primo periodo creativo di Beethoven il sentimento scoperto vince la sprovvedutezza, e nel terzo lo stesso sentimento, sgorgando dal profondo, sopraffà l'acquistata maestria.
Nel periodo di mezzo, invece, il sentimento passa in secondo piano di fronte all'espansione sinfonica e allo splendore della forma. Questo secondo periodo di Beethoven è lo sfruttamento delle potenti ispirazioni del primo. L'appassionata protervia della Patetica rimase l'idea base di tutti gli stati d'animo simili - solamente più dilatati, più adorni, più sottolineati - del periodo seguente - in prima linea della Quinta Sinfonia. Ma alla dilatazione non corrisponde la dilatabilità dell'elemento melodia, esso si perde - come dire? - in certi altipiani di un'eloquenza di modulazioni e figurazioni.
Penso per esempio allo «sviluppo» del primo tempo dell'Appassionata, dove le grandi rincorse e arresti del temperamento tengono luogo di contenuto.
È l'eloquio avvincente - la convinzione personale dell'oratore trasmessa all'ascoltatore - che agisce qui invece del suo tema, e agisce sulle grandi masse e con veemenza immediata. Il temperamento mette al pensiero e ai bollori del sentimento la maschera di una sfrenatezza corporea (cioè priva di pensiero e di sentimento).
È diventato un luogo comune permanente, nella storia della musica, quello di rimproverare ad ogni apparizione musicale nuova la mancanza di melodia. Il rimprovero colpì il Don Giovanni alla prima rappresentazione di Berlino, il Concerto per violino di Beethoven, i drammi musicali di Wagner. E ogni volta si contrappose la crescente maestria tecnica alla diminuita inventiva melodica. Sembra quasi che la maestria tecnica possa agire meglio nell'insolito, e l'espressione melodica soltanto nel familiare. In realtà però Mozart era più ricco di melodia dei suoi predecessori, Beethoven più ampio e polimorfo di Mozart, e Wagner più rigoglioso di Beethoven, seppure meno nobile, meno indipendente, più materiale, più caratterista e meno psicologo.
Appunto contro questa materialità un gruppo di compositori viventi prende a reagire.
L'immaterialità è la vera essenza della musica, e la sua conclusione sarà ricchezza e sublimità di melodia.

[1] Da Salomon Jadassohn (1831-1902), celebre didatta e trattatista di musica, Busoni prese per qualche tempo lezioni di contrappunto a Lipsia, nel 1886; probabilmente la frase qui citata proviene dai suoi ricordi perché un libro di Jadassohn intitolato Lehrstunden (Lezioni) non esiste.