FERRUCCIO BUSONI

L'OTELLO DI VERDI - STUDIO CRITICO

Verdi’s «Othello», eine kritische Studie.
In «Neue Zeitschrift für Musik», Lipsia, LIV, n. 12, 23 marzo 1887. Non più pubblicato. L’Otello era andato in scena il 5 febbraio di quell’anno, alla Scala; Busoni lo giudica, come dirà nel corso dell’articolo, esclusivamente sulla lettura dello spartito.


Avevo riflettuto a lungo su come dovevo iniziare questo studio, e non ero arrivato ad alcuna conclusione.
Di solito si comincia col descrivere e analizzare l’argomento, l’azione dell’opera che si deve recensire, e a sottoporli a una critica. Ma per l’Otello si sarebbe trattato di una vera e propria fatica di Sisifo, dunque imboccare questa strada comoda e prolissa non mi era consentito.
Altri scelgono una via anche più semplice; aprono lo spartito ed elencano tutti i pezzi, uno dopo l’altro come vengono, e per ognuno allegano una breve definizione della musica. Ne risultano delle frasi molto garbate, per esempio: «Il primo coro avvince con la sua leggiadra armonia, mentre il pezzo d’insieme si distingue per la bella disposizione delle parti. La canzone che segue l’avremmo preferita d’una espressione un po’ meno tenera», eccetera.
Finalmente credetti di aver trovato. Pensavo di far precedere il tutto da una dotta prefazione di argomento estetico, per esempio: «Se la musica sia in grado di esprimere i sentimenti, in particolare la gelosia». Volevo sviluppare questo tema con la massima ampiezza per poter poi dire alla fine: «dati i limiti di spazio, non possiamo intraprendere una trattazione esauriente del tema».
Sarei arrivato senza dubbio alla conclusione che la musica non può affatto esprimere un sentimento quale la gelosia e che perciò un’opera su Otello dev’essere considerata un errore, ma questa affermazione rivela un punto di vista talmente antiquato, che mi sarei certo reso ridicolo: in verità al giorno d’oggi nella «tecnica» musicale si sono fatti dei gran passi.
«Un’idea» sospiravo «mi venisse almeno un’idea», perché scrivere l’inizio dell’articolo mi sarebbe piaciuto davvero.
Già, proprio questo è l’unico difetto della nostra tecnica, cioè che non ci aiuta a trovare le idee; e questa verità ci colpisce con particolare evidenza nell’Otello di Verdi, il quale ah! qui avrei potuto entrare in argomento, come appunto capita. Ma procediamo con un po’ di ordine.
Boito, così si dice nei giornali italiani, si è sacrificato eroicamente, ha interrotto la composizione della sua opera Nerone, per dar modo a Verdi di esprimersi in musica ancora una volta. Ha scritto dunque il libretto dell’Otello. E questo, tagli a parte, è una traduzione, spesso fedele, della tragedia di Shakespeare, il cui testo in alcuni dialoghi è serbato tale e quale. Il primo atto, col rapimento di Desdemona, la scena al Senato e l’autodifesa di Otello di fronte all’accusa di Brabanzio, sono soppressi nell’opera, che comincia con l’approdo di Otello a Cipro e l’annuncio della disfatta dei Turchi.
È inutile negare che con l’apparire dell’Otello di Verdi ci troviamo di fronte a un avvenimento importante del teatro musicale. L’importanza di questo avvenimento non sta tanto nel valore musicale del lavoro, quanto nelle circostanze che l’hanno prodotto e accompagnato. L’Otello è forse l’ultimo lavoro del più grande compositore italiano vivente, anzi dell’unico operista vivente, perché tale è da definirsi un uomo che, come Verdi, ha vissuto e operato per tutta la vita soltanto nella musica di teatro, e che per cinquant’anni vi ha svolto la sua attività creatrice con frutto e con successo. Inoltre l’Otello è il vertice più alto di quanto è stato finora raggiunto nella musica italiana d’opera, e ciò sia detto non tanto a proposito dell’invenzione e del contenuto, quanto a proposito della forma e dell’indirizzo.
L’Otello è infatti un’opera italiana, ma non «l’opera italiana», e coloro che sono avvezzi ad accompagnare la menzione del nome di Verdi con il gesto di girare una manovella di organetto, sfogliando questo suo ultimo lavoro, si accorgerebbero con stupore che la loro profonda satira è fuori posto.
Con ciò non vogliamo d’altronde dire che Verdi si sia modificato fino a diventare irriconoscibile; ho detto appunto che il progresso che caratterizza l’Otello si riferisce soprattutto alla forma e all’indirizzo e, sebbene ciò non possa mancare di influire sul contenuto dell’opera d’arte (e infatti non ha mancato), tuttavia non è concepibile che un artista di 73 anni abbia rinnegato improvvisamente se stesso e il proprio carattere; infatti vediamo il vecchio Verdi far capolino dappertutto e ricadere qua e là nei suoi modi di fare, spesso accennare soltanto ai suoi vecchi errori, tanto che si deve dire: è lui. E non riusciamo a credere che il tono più serio, moderno, adottato qui, sia sincero; ci sembra quasi che Verdi abbia assunto la maschera di un personaggio, che abbia indossato un costume a lui estraneo e contraffatto la voce, la quale, ricadendo involontariamente nel modo di parlare consueto, nell’inflessione naturale, tradisce il mascherato e ci svela la sua personalità.
Ma ciò che soprattutto rende Verdi inconfondibile e lo mostra sempre nella luce migliore è il suo mirabile dominio della tecnica del palcoscenico, dominio che, oltre a lui, hanno avuto forse soltanto i francesi. Non mai una pausa fastidiosa, mai un vuoto nella condotta del dialogo; tutto è congegnato ineccepibilmente, tutto scorre liscio, eppure i personaggi sono differenziati fino nel minimo particolare e la forma musicale è perfettamente mantenuta.
Insisto ancora una volta sui fatto che quest’ultima opera di Verdi si distingue dalle sue precedenti per la forma.
È la forma chiusa, con trapassi di collegamento, e il dialogo in istile arioso, con intercalati periodi lirici o epici.
Gli esempi che seguono serviranno a dimostrare con quanta perizia Boito ha saputo adattarvi i suoi eccellenti versi.
Il chiasso provocato dalla lite e dall’ubriachezza di Cassio fanno accorrere Desdemona impaurita; quando tutti i presenti, ubbidendo al comando di Otello, escono di scena, egli e Desdemona rimangono soli e ne segue un duetto d’amore, il cui contenuto è tolto semplicemente dal racconto e dall’autodifesa di Otello del primo atto della tragedia di Shakespeare: nient’altro che la ricapitolazione della storia del loro amore, da Boito, come da Shakespeare, riassunto nei due versi:

«E tu m’amavi per le mie sventure
Ed io t’amavo per la tua pietà.»

Con questo duetto si chiude il primo atto.
Ho detto che nei dialoghi sono intercalati passi lirici o epici. Ecco qualche esempio:

«Jago: Temete, signor, la gelosia!»

e subito dopo, come episodio indipendente:

«È un’idra fosca, livida, cieca, col suo veleno
se stessa attosca.»

Così pure, nel terz’atto, il monologo di Otello, dopo che Desdemona, offesa, lo ha lasciato:

«Dio! mi potevi scagliar tutti i mali
della miseria, della vergogna,
far dei miei baldi trofei trionfali
una maceria, una menzogna...
e avrei portato la croce crudel
d’angosce e d’onte
con calma fronte
e rassegnato al volere del Ciel.»

Così il menzognero racconto di Jago:

«Era la notte, Cassio dormía, gli stavo accanto.»

Si veda con quale perizia, sia poetica che musicale, sono collegati in un quartetto i quattro momenti seguenti (Desdemona, che Otello ha aspramente investita, gli chiede indulgenza e gli protesta il suo amore; Otello si tormenta, fra sé, attanagliato dal dubbio; Emilia ha raccattato il fazzoletto lasciato cadere e tenta di resistere a Jago, che se lo vuol far consegnare):

«DESDEMONA:

Dammi la dolce e lieta
parola del perdono.

OTELLO:

Forse perché gl’inganni
d’arguto amor non tendo,
forse perché discendo
nella valle degli anni

JAGO:

Quel vel mi porgi.
ch’or hai raccolto.

EMILIA:

Qual frode scorgi?
Ti leggo in volto.»

eccetera

Ciò che nell’opera ricorda ancora la vecchia forma è un grande finale (del terz’atto): quella scena in cui si assiste all’arrivo degli ambasciatori di Venezia, i quali devono richiamare Otello alla capitale. È a questo punto che Otello colpisce Desdemona davanti a tutti, dopo di che comincia il grande pezzo d’insieme in cui tutti i personaggi dell’opera e i cori fanno considerazioni sull’atto orribile o sulla propria posizione ed esprimono la loro simpatia o il loro orrore. Persino questo pezzo, però, non termina nel modo tradizionale ma viene interrotto da un improvviso grido di Otello:

«Tutti fuggite Otello.»

Alcune canzoni inserite (Brindisi del primo atto, la «canzone del salce» nell’ultimo) sfociano pure nel dialogo drammatico. L’ouverture, persino le sue forme più moderne di «preludio al prim’atto», sono soppresse. Il sipario si alza alla terza battuta.
Tanto sulla forma musicale esterna, dalla quale vogliamo ora passare alla vera e propria sostanza dell’opera, al contenuto musicale. All’impressione generale suscitata da questa musica ho accennato sopra. Come, nell’insieme, nessuna scena si dispiega in un vero e proprio pezzo di musica, così nessuna frase si apre in una vera e propria melodia. Frasette e motivetti e pittura di particolari, ma in nessun momento qualche cosa che avvinca per la bellezza o significazione oppure originalità. Tutto rimane in una certa cornice convenzionale, mai una sorpresa, a parte alcune affettazioni armoniche, che non fanno molto piacere al buon musicista.
Jago, il quale a quanto si dice era destinato a essere il protagonista dell’opera, è musicalmente quasi il personaggio principale. La caratterizzazione di questo mostro umano non era certo facile e Verdi ricorre, in realtà, a dei mezzi spesso molto curiosi per imprimergli sulla faccia quella che, a quanto è dato presumere, è la maschera appropriata. Per esempio, nel passo «Temete, signor, la gelosia!» appare una serie graziosissima di quinte e ottave cromatiche parallele che, solleticano piacevolissimamente l’organo uditivo. II carattere di Jago ci si presenta nella sua piena nudità in un monologo, preceduto da un tema vigoroso di energiche ottave: «Credo in un Dio crudel, che m’ha creato simile a sé, e che nell’ira io nomo». Ma più tardi compare un altro motivo, che vorrebbe avere un carattere assolutamente diabolico, ma a noi sembra soltanto goffo e che ritorna alla fine, alle parole: «È vecchia fola il Ciel». Questa alternativa di idee buone e vigorose e di trastulli vuoti e bambineschi accompagna il personaggio di Jago per tutta l’opera.
Dopo di lui, il più significativo è Otello, in cui si rivela, alle volte, uno stato d’animo profondamente sentito, ma che molto spesso non ci permette di dimenticare che egli è il tenore eroico della vecchia opera italiana. Per esempio nel passo:

«Addio, schiere fulgenti, addio vittorie,
dardi volanti e volanti corsier!
. . . . . . . . . . . . . . .

Della gloria d’Otello è questo il fin!»

e più tardi nel giuramento:

«Sì, pel Ciel marmoreo, giuro! per le attorte folgori!
per la Morte e per l’oscuro mar sterminator!»

il quale, secondo le vecchie concezioni italiane, è tanto impressionante che persino Jago, dimentico di sé, esce dalla parte e lo intona anche lui.
Il famoso ingresso di Otello nella camera di Desdemona, guardato in partitura, è qualche cosa che si potrebbe chiamare un monologo musicale, ma, in fondo, non è altro che una frase uso recitativo nei contrabbassi, interrotta periodicamente da una rapida e serrata figurazione delle viole.
Desdemona, a tratti, è una figura molto ben riuscita. È sempre molto dolce, ma non sdolcinata, e si muove su ritmi lenti. Nel duetto d’amore si avvicina leggermente a Elsa, qua e là è sfiorata da toni francesi; nell’ultimo atto le è assegnata la «canzone del salce» che, come nell’opera romantica tedesca, rappresenta il «brivido premonitore».
Ella ne rifugge e cerca protezione nella fede. Un’Ave Maria, intonata all’uopo, inizia con un mormorio liturgico e si perde allo stesso modo più tardi.
Cassio, il povero innocente Cassio, è un giovane del tutto incolore, a cui solo nel primo atto le gote si arrossano un po’, per il vino. Qui Verdi ha trovato l’occasione di sviluppare il suo senso realistico: nella sua ebrietà lo fa addirittura balbettare, interrompe senza riguardo la melodia e le parole, non solo, ma gli fa riprendere la parola sulla seconda sillaba e commettere altre sconvenienze del genere. A questo punto devo aggiungere ancora che la declamazione di Verdi, in genere, non è solo difettosa, ma addirittura offensiva. Egli sposta di preferenza gli accenti scambiando spesso l’arsi con la tesi, anche quando cade sull’ultima sillaba e, come se non bastasse, vi fa intonare dal cantante una nota acuta.
Osserverò ancora che i cori sono distribuiti nell’opera con parsimonia, eppure sembrano introdotti a forza (effetto inevitabile data la fedeltà serbata, per il resto, al testo di Shakespeare), che per il loro contenuto musicale, corrispondente al posto che prendono nel testo poetico, hanno importanza secondaria; riferirò infine, come curiosità, che uno di questi cori è accompagnato esclusivamente da mandolini e chitarre. Con ciò credo di aver esposto abbastanza compiutamente, seppure solo in breve, quanto vi è di notevole in questo lavoro; e bisogna ben limitarsi a ciò, se per giudicarlo non si dispone che di uno spartito per canto e pianoforte.
Mi sono rallegrato quando mi è stato dato l’incarico di scrivere questo piccolo studio critico sull’Otello di Verdi, poiché penso che io, in quanto italiano educato in paesi di lingua tedesca, ero più adatto di altri a questo compito e pertanto mi è stato possibile mettermi in quella posizione imparziale che è indispensabile per avere una chiara visione e mi sono sforzato di mantenerla.
È anche una soddisfazione per me poter riferire un’altra volta ancora su qualche cosa d’importante che viene dalla mia patria, e ciò è assolutamente il caso per l’Otello come credo di aver esposto nelle parole introduttive.