IL PIANISTA

GISELLA SELDEN-GOTH

FERRUCCIO BUSONI

UN PROFILO

Firenze, Olschki, 1964

pp. 95-110

 

Seduto sul podio davanti alla tastiera: così vedevano Busoni per lo più i suoi contemporanei e così è rimasta la sua immagine per molti che lo ricordano.

Da quando ebbe termine il suo tirocinio che lo fece scivolare senza troppe scosse dallo stato del fanciullo prodigio in quello del pianista conosciuto e riconosciuto, si delinea sempre più il parallelismo del suo sviluppo con quello di Liszt. Ambedue giravano il mondo da virtuosi precoci, cercando ogni tanto di sostare in un luogo o nell'altro per raccogliersi, troppo presi però nel vortice della loro carriera per non lasciarsi sempre strappare nuovamente da tali possibilità. Ma un giorno, sulla soglia della maturità, nel mezzo dei più clamorosi successi, ambedue furono colti dalla sazietà di quel che avevano raggiunto; riconobbero l'inutilità di voler arrivare alla loro vera mèta artistica sulla strada fin allora battuta. Poco soddisfatti di quanto compiuto, si accorsero della necessità di impiantare la loro arte su basi nuove. Così sacrificavano lunghi mesi preziosi, rinunziando ai trionfi nelle sale di concerto per cercare nella solitudine di estrarre da se stessi fin all'ultimo quel che erano capaci di dare. Ambedue essenzialmente autodidatti potevano solo mercé il proprio meditare ed esperimentare penetrare a fondo i problemi meccanici e spirituali del loro strumento. Venne poi il tempo in cui superati gli ultimi impedimenti di corpo ed animo che ancora ostacolavano la formazione del loro stile pianistico particolare ed individuale, si sentirono arrivati non solo al posto del primo pianista, ma anche a quello del sommo rappresentante della cultura pianistica della loro epoca.

La maniera come Busoni suonava era soggettiva al massimo grado. Si rivendicava il diritto di rimanere sempre se stesso, anche nell'arte del riprodurre; era Busoni, sovrano dell'arte di far parlare dalla notazione inanime l'idea musicale all'ascoltatore. Così, come l'idea parlava quando ancora nascitura, stava spingendosi dalle tenebre di un altro spirito subcoscente alla luce. Convinto del proprio potere non acconsentiva a dover sparire dietro l'opera di un altro, non voleva esser oggettivo, nella riproduzione dell'opera nello spirito del compositore, bensì riempirla col suo, con quello di Busoni. Si difendeva contro l'obbligo di considerare legge eterna la notazione e di dovervi aderire fedelmente. Ogni notazione gli sembrava essere una trascrizione in sé e giudicava infruttuosa ogni fatica che tentasse di voler segnare esattamente sulla carta l'oscillante pensiero della musica pura.

Era convinto che toccava all'esecutore di sciogliere la rigidità della notazione fino al punto in cui poteva liberamente risorgere il significato della procreazione elementare. Nella interpretazione delle musiche i cui armonici rispondevano il più puramente a quelli della propria intonazione individuale, il pianista Busoni otteneva i suoi più grandiosi effetti: nella rianimazione della infinità monumentale delle Fantasie per organo di Bach, nella grazia mezzo-romantica dei Concerti di Mozart, nella ebrezza virtuosistica delle Variazioni Paganiniane di Liszt. Quando suonava questi pezzi sembrava aver eliminato fin all'ultimo le resistenze della materia, del legno, metallo ed avorio, dei muscoli e ligamenti; non conosceva più alcun ostacolo il torrente di suoni quale creativo originava nel cervello, per ivi tornare e godersi di quel che aveva plasmato.

Dopo Liszt, Busoni è stato il primo ad allargare i confini del pianismo e a porre nuovi compiti alla mano e alle dita del pianista. Liszt aveva tentato di trasferire sul pianoforte la tecnica dell'arco di Paganini: i salti estesi, i glissandi delle doppie corde, le ottave martellate in scale di toni e semitoni sulla tastiera; Busoni continuava a costruire sopra questo fondamento. Inventò un impego interamente nuovo del pedale, divisioni finora sconosciute della linea melodica fra le due mani, possibilità aumentata del suonare polifonico mercé l'uso uguale delle dieci dita, lo sfruttamento delle sfere le più alte e le più basse della tastiera, producendo sfumature di tocco che ricordaaflo certi effetti strettamente orchestrali. Una specialità caratteristica della interpretazione busoniana era la infinita varietà di queste sfumature e la loro indicazione precisa usata nelle sue composizioni e trascrizioni, come «pauroso», «pallido», «opaco», oppure «sommessamente». Aveva anche riconosciuto che il concetto di un vero «legato» era contrario alla essenza degli strumenti a tastiera e quindi rinunziò a volerlo ottenere; invece scolpiva ogni suono singolarmente, basando il legato della cantilena esclusivamente sopra l'uso accuratamente escogitato del pedale. Questo suonare «non legato» impregnava i temi delle grandi fughe «Allegro» di Bach di una plasticità ferrea; allo stesso «non legato» Busoni attribuiva il segreto del cosidetto «perlato», dovuto ad assoluta uguaglianza, precisione e distacco. Questa maniera di suonare è talmente caratteristica che durante i loro corsi di studio si potevano riconoscere per il suo uso tutti i discepoli del Maestro. Questo attinse altri effetti singolari con l'aiuto delle sue non specialmente grandi ma oltremodo elastiche mani che gli permettevano di prendere accordi a cinque parti nella estensione di una decima senza arpeggiare e di raggiungere l'indipendenza completa fra di loro dei gruppi di dita più alti e più bassi. Molti passaggi nelle sue elaborazioni delle opere bachiane per organo sembrano scritte per le sue proprie mani e risultano quasi ineseguibili per altre di formazione diversa.

In queste trascrizioni egli ritiene inammissibile l'uso dell'arpeggio; solo l'attacco simultaneo di tutte le note di un accordo riesce a rendere approssimativamente il vero carattere dell'organo sul pianoforte. Nello stesso tempo altre combinazioni tecniche la cui notazione trova appena posto su tre pentagrammi - come sono sopratutto da notarsi negli «Allegri» del suo grande Concerto - sorprendono colui che si dedica alloro intenso studio, con la raffinatezza con la quale viene assegnato ad ogni nota il dito disponibile. Anche diverse sue ultime composizioni sono comprensibili solo in base della sua propria maniera di suonare; sono scritte in uno stile nuovo che per essere trasmesso e schiarito fin alle radici, esigeva l'interpretazione del compositore stesso ed esigerà un'interpretazione approfondita delle sue intenzioni da parte di una nuova generazione di pianisti che vorranno occuparsene. In mancanza di tale accettazione di uno stile particolare, accoppiato anche ad una tecnica particolare, un pezzo di relativamente facile esecuzione, come per esempio la «Sonatina in Diem Nativitatis Christi», di lineatura semplice e delicata, rivela il suo incanto solo quando eseguita con le speciali gradazioni di tocco, come l'autore intendeva che fosse resa. D'altra parte molti passaggi irti di difficoltà tecniche, a prima vista non dimostrando altro che un conglomerato di effetti pianistici, apparentemente combinati solo per esibizione di speciali difficoltà incastonate in armonie strane - pensiamo qui alle cadenze rapsodiche della «Fantasia Indiana» - venivano resi da lui con una sonorità incomparabile.

Qui si può citare quel che Busoni dice nella Introduzione all'Edizione critica della «Fantasia Don Juan» di Liszt: «Quel che alla lettura o anche al suonare superficiale pare eccessiva sfioritura, per Liszt era un facile giuoco che egli superava con grazia e semplicità».

La combinazione «pianoforte e orchestra» come Busoni l'intendeva, merita un accenno speciale. Si aveva sempre l'impressione che, chiunque si trovasse sul podio del direttore, l'opera venisse diretta dal pianoforte. Da solista Busoni voleva riunire tutto l'organismo strumentale di un «Concerto» nella sua propria mano, mentre suonava, i suoi occhi glrovagavano continuamente da un leggio all'altro, intenti ad intercettare ogni attacco, quasi facendo musica da gruppi di strumenti senza mai smettere di ascoltare attetmente la fusione tonale del pianoforte con l'orchestra. Prima di provare anche le, composizioni più conosciute e usuali, teneva interminabili discussioni con il direttore per stabilire l'esecuzione di ogni battuta fin all’ultimo dettaglio, senza lasciar sorgere il rischio di una divergenza di vista durante l'esecuzione. Tali discussioni fecero sempre trasparire un certo nascosto rammarico da parte di Busoni di non poter riunire in sé le due funzioni; ed oggi dobbiamo meravigliarci che non abbia mai tentato, mentre sonava la parte solistica, di dirigere egli stesso dal pianoforte, come fanno talvolta attualmente direttori che si sono anche perfezionati nel pianoforte, per esempio Bruno Walter e Mitropoulos. Le sue proprie composizioni per piano ed orchestra certamente giunsero ad una più autentica e convincente riproduzione quando vennero dirette da lui stesso, mentre la parte solistica era affidata ad uno dei suoi insigni allievi. Così egli poteva dominare assolutamente tutto il complesso musicale, assicurando a fondo l'unità perfetta della esecuzione.

L'esame dei programmi di Busoni pianista, imponente mole raccolta durante più di quarant'anni, dà l'occasione per formarsi un interessante prospetto non solo della vita musicale intorno alla volta del secolo e dei grandi cambiamenti nei gusti del pubblico europeo-americano da decennio in decennio, ma anche per seguire da vicino la formazione dell'artista, il cui sviluppo esteriore venne guidato passo a passo da quello interiore. Fra Mosca e Boston, fra Helsingfors e Roma, Busoni ha dato molte centinaia di concerti, e sembra naturale che durante questo tempo si sia costruito un repertorio enorme di tutti i generi della letteratura del pianoforte. In possesso di una formidabile memoria che gli faceva intraprendere lunghi viaggi di concerti senza portarsi dietro nel suo bagaglio un solo quaderno di musica, suonava e risuonava migliaia di composizioni, spesso fino a farsele venire a noia. Colla eccezione di certi lavori (per i quali nutriva da principio una spiccata antipatia - è curioso che fra questi si trovasse per esempio il «Carneval» di Schumann! - si può dire che suonasse addirittura tutto, e le dimensioni dei suoi programmi, esagerati almeno per quei tempi, contribuivano non poco per attirare su di essi l'attenzione del pubblico. Fu il primo che ebbe il coraggio di presentare tutti i 24 Préludes di Chopin in una sola volta; atto di bravura per quel tempo, che egli si poteva permettere in grazia dei suoi grandi successi iniziali a Berlino. Un'altra sua specialità era l'energico appoggio delle trascurate composizioni originali di Liszt; ma anche destava spesso sorpresa col presentare le Parafrasi su melodie operistiche dello stesso Maestro, opere che i pianisti tedeschi avevano da molto discreditate come superficiali impasti. Ebbe sempre simpatia per la musica dei francesi e per qualche tempo si compiacque nella esecuzione dei difficili «Studi di Concerto» dell'Alkan; egualmente favoriva Saint-Säens, dal cui temperamento fine, vivace e spiritoso si sentiva altrettanto attratto quanto dalla logica architettonica e dal sentimento sovrano della proporzione di César Franck.

Riteneva effeminata, vaga e limitata nei suoi mezzi di espressione, la musica di Debussy e non la includeva quasi mai nei suoi programmi; in generale i lavori prodotti dalla sua propria generazione non lo animavano a studiarli, li criticava come «musica poco saputa», e non trovava gusto negli esperimenti intrapresi senza approfondita tecnica della materia. Unica eccezione fece per Schönberg, minore di lui di otto anni; i «Klavierstücke» op. 11 avevano attirato la sua attenzione, li suonò varie volte, anzi, cercava migliorarne il timbro, al suo parere poco pianistico, mercé una propria edizione del n. 2 «per interpretazione concertistica». «Questa composizione richiede al pianista la più raffinata padronanza del tocco e del pedale; una interpretazione intima, quasi improvvisata, una affettuosa meditazione del contenuto - di cui poter esser espositore solo da trascrittore - si ascrive a grande onore. F. B.» scrisse alla Universal Edition, Casa Editrice del lavoro. Il contenuto spirituale di questi abbozzi espressionistici gli sembrava meritare di esser riveduto ed emendato, nell'intento di smorzare il suono della sua asprezza atonale, poca accessibile per esser resa coi mezzi del pianoforte. È interessante osservare come lo studio di questa musica, col suo aspetto tipografico tanto complesso - terra sconosciuta nell'anno 1910, quando appena stava per sorgere la prima alba dei sistemi atonali e dodecafonici! - diede l'idea a Busoni di tentare una semplificazione del sistema di notazione usato dalle origini della musica occidentale quale fino ad oggi la conosciamo. Persino a lui, infallibile ed espertissimo lettore a prima vista, riusciva arduo decifrare il labirinto della polifonia schönberghiana. (Problema che egli divideva con un altro coetaneo, certamente non meno abile ed esperto lettore delle phi stipate pagine di musica, con Gustav Mahler, che disse allo Schönberg: «Sono abituato ad orizzontarmi senz'altro negli spartiti di trenta pentagrammi, ma i quattro del suo Quartetto mi danno più fastidio»). Da questa difficoltà nacque il «Tentativo di una notazione organica per il pianoforte», saggio pubblicato più tardi nel settimo ed ultimo volume della grande edizione di Bach-Busoni. L'autore aveva giudicato sproporzionata l'enorme qauntità di accidenti cui doveva esser provvista ciascuna delle note, e la loro compressione sui due pentagrammi; gli pareva impossibile il presentare l'immagine plastica di una nuova e tanto compatta polifonia nella vecchia maniera. Così escogitò una regola che doveva assegnare a ciascuno dei dodici suoni della scala cromatica il suo distinto e preciso posto su linea o interlinea, sistema che doveva rendere al lettore più facile il seguire il decorso melodico e la costruzione degli accordi. Ma benché Busoni pubblicasse come saggio illustrativo una revisione della «Fantasia Cromatica», stampata secondo i nuovi criteri, l'esperimento incontrò altrettanto poco consenso come altri dello stesso genere che ogni tanto vengono proposti. Insuccesso identico ebbe anche Schönberg che si struggeva a quell'epoca di introdurre una «partitura unificata» nel mondo musicale.

Man mano che si modellava più acutamente il profilo di Busoni compositore e teoretico, diventava più selettiva anche la lista delle opere che riteneva degne di interpretazione pubblica. Nell'ultimo decennio si compiacque di limitarsi ai lavori dei maestri a lui piú cari e congeniali. Non esitò a confessare che si stava alienando da Beethoven, dichiarazione che gli valse giudizi piuttosto contrari da parte dei tradizionalisti specialmente per quel che riguardava le sonate del primi periodi che giudicava inferiori a quelle di Haydn e Mozart. Posto davanti alla necessità di eseguire pure queste Sonate, si concentrava sulle ultime cinque, specialmente sull'opera 106, la cui «Fuga» ammirava nella sua grandiosità labirintica altrettanto quanto l'«Introduzione» della medesima, con il presentimento di una musica «completamente assoluta». Non aveva nessuna comprensione per il «Lied» tedesco, che qualificava da «curiosa figura atrofizzata nel busto del ritmo, della sostanza e dell'atmosfera della poesia musicata.» [Lettera all'autrice del 23 novembre 1918.] Col tempo tutte le opere dello Schubert e Schumann erano sparite dai suoi programmi, come anche quelle dello Chopin, meno gli Studi e i Preludi. Dopo essere stato da giovane alquanto influenzato dallo stile di Brahms, presto gli voltò radicalmente le spalle; lo trovava troppo «tedesco», pesante, formalista, dottrinario, fino al punto che con la intransigenza sviluppata nel suo carattere, gli negava ogni importanza per la storia della musica; altro giudizio esagerato che attirava su di lui molti commenti sfavorevoli. Immutata, anzi sempre in aumento, rimaneva l'adorazione per Liszt.

«In fin dei conti deriviamo tutti quanti da lui ed abbiamo a ringraziarlo del poco che sappiamo», scrisse ad  un critico il quale si era permesso di prendere alla leggera la figura idolatrata. Con la presentazione di programmi strettamente personali, limitati ormai a pochi nomi, Busoni cercava di esercitare una influenza educativa; tali programmi furono imitati dai suoi allievi quasi subcoscienti e svelavano manifestamente la loro origine. È significativo che questo aspetto di formare programmi rimanga riconoscibile anche oggi presso pianisti che, senza averlo mai sentito o visto perché troppo giovani, ancora subiscono l'influenza personale di lui, attraverso l'ammirazione intensa delle profonde tracce lasciate dalla sua scomparsa arte di suonare. Le pietre fondamentali dei programmi di Busoni nella sua vecchiaia rimanevano la monumentalità di Bach e la bravura di Liszt. Gli piaceva l’«unità» delle serate di concerti: quelle limitate e sole opere di Bach, una serie di sei concerti dedicati solo a Liszt, un'altra a sei Concerti di Mozart, un ciclo che mostrava lo sviluppo del concerto per pianoforte e orchestra. Qualche volta un capriccio gli fece tirare fuori dalla polvere composizioni dimenticate di maestri non più moderni, pezzi virtuosistici, di Hummel, Weber e Mendelssohn; e lo divertiva documentare quanta vita una interpretazione moderna ed amorevole potesse ancora iniettare a questi. Invece non suonava che di rado le sue composizioni; temeva il contrasto fra l'entusiasmo frenetico del pubblico che lo acclamava davanti al pianoforte, urlando «Campanella» «bis», mentre si ritirava freddo e sospettoso di fronte al lavoro nato alla sua scrivania.

Era sempre difficile determinare quali fossero i rapporti di Busoni con il suo strumento «diffamato, indispensabile e comprensivo» come lo chiamava egli stesso. L'amava con fervore ed anche per lui come per Liszt era l'Ego, il linguaggio, la vita fino al momento in cui si trovò da­vanti alla barriera oltre la quale non c'era più nessuna cima da essere raggiunta. Avrebbe voluto essere la forza originaria che faceva nascere una nuova letteratura, che animava i costruttori di pianoforti a inventare nuovi strumenti, forza che sarebbe stata unica nella sua epoca, destinata a servire da stimolo alle nuove generazioni. «Dove va diretto il timone del pianismo?» domandava amaramente in una lettera al suo amico, il compositore svizzero Hans Huber. «Se dovesse battere nuove strade, ci vorrebbero una nuova letteratura ed uno strumento arricchito. Mentre gli organari provvedono quasi ogni loro lavoro di innovazioni e perfezionamenti tecnici, il pianoforte non ha fatto un passo avanti da cinquant'anni. Tutte le mie proposte in relazione sono state rifiutate dai costruttori». (Briefe Busonis au Hans Huber, Zürich 1939).

Certo non si poteva dire che egli fosse stato affetto da modestia esagerata; quando dopo un'assenza di sei anni di guerra suonò per la prima volta a Berlino, domandava in tono sarcastico ad un entusiasta «che forse avreste dimenticato qui, cosa vuol dire suonare il pianoforte?». E poiché sapeva che non gli rimaneva nulla da perfezionare oltre al raggiunto, la sua arte gli dava noie e la risentiva come catena indegna, e provava vergogna di dover fare a cinquant'anni la stessa cosa che faceva a venti. «Devo fare uno sforzo su me stesso per studiare il pianoforte, e pure non se ne può fare a meno» scrisse alla moglie nel 1907. «È come una bestia a cui ricrescono le teste per quante se ne tagliano. Il comporre è invece come una strada ora bella, ora difficile, di cui si percorrono tratti sempre più lunghi, vi si raggiunge e sorpassa un numero sempre maggiore di tappe, ma la sua mèta resta sconosciuta e irraggiungibile». Da parole come queste si può rilevare quanto Busoni risentisse di esser continuamente sviato dal suo vero compito. Ancora si impone il tragico confronto colla sorte di Liszt, egualmente travagliato dalla scissura fra produrre e riprodurre, ma Busoni soffriva di più, perché dei due egli era l'uomo più pensieroso, meditativo, e consapevole di se stesso. Fra la sua fantasia creativa e l'ascoltatore con cui voleva comunicare c'era sempre di mezzo il vecchio virtuosismo.

Eppure coloro che ricordano i suoi concerti non riescono a dimenticare la calda ebrezza che emanava dalla alta, snella, incanutita figura davanti al pianoforte Seduto come inchiodato sulla sua panca, la sua faccia sembrava trasfigurata nella beata immobilità di chi sa di aver raggiunto la perfezione. Indimenticabili le mani elastiche e nervose che scorrevano, volavano, cantavano sulla tastiera, indimenticabile il fluido estatico che dal podio si diffondeva sopra le moltitudini affascinate. Chi lo ascoltava doveva sentire prima o poi il brivido freddo corrergli lungo la spina; indovinare che lassù, dietro quel pianista formidabile, c'era il grande individuo umano, uno che parlava a loro attraverso accordi rimbombanti ed arabesche lucenti di un'arte la cui veridicità è eterna come il firmamento.

Fra quegli ascoltatori vedevo sempre molti pianisti giovani, rannicchiati ai loro posti con spartiti e matite, ardenti e desiderosi di annotare ogni diteggiatura, ogni crescendo, ogni «una corda». A tratti uno faceva cadere la testa fra le mani, con un gesto scoraggiato che sembrava dire: «A che cosa serve a noialtri suonare il pianoforte?»



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