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La visione radicale di Giuseppe Sinopoli, archeologo dell'assoluto
Giuseppe Sinopoli
Lo
scorso 21 aprile Giuseppe Sinopoli è morto dirigendo l’Aida alla Deutsche
Oper di Berlino. Lo ricorda per “il Giornale della Musica” Sergio Sablich,
che aveva condiviso con lui, tra il 1998 e il 1999, il progetto di rilancio
inernazionale del Teatro dell’Opera di Roma.
La
brama, la tremenda brama parsifaliana. Questo avrebbe comunque ucciso un
giorno Giuseppe Sinopoli. Con lui ho condiviso fraternamente l’esperienza
più amara della mia vita, e forse anche della sua, poco avvezza alle sconfitte:
il fallimento all’Opera di Roma. Die Wunde, la ferita, la chiamavamo scherzosamente
tra noi. Anche se si credeva Parsifal, portava insanabile in sé la piaga
di Amfortas: una visione radicale dell’esistenza, senza compromessi, senza
condizioni, senza pietà per gli altri, ancor meno per se stesso. Era un impuro
folle, ma tutt’altro che inconsapevole di sé, per intelligenza e cultura.
Personaggio difficile, ispido, contraddittorio, curioso e a volte pauroso
miscuglio di acribia razionale e di violenza istintiva, di energia positiva
e di distruttiva negatività, Sinopoli si distingueva non soltanto per la
sua statura intellettuale ma anche per la sua capacità di vedere in ogni
cosa un simbolo, in ogni compito, anche il più insignificante, una meta superiore.
Questa intransigenza, questa determinazione, questo affrontare sempre le
cose come se si trattasse di una questione di vita o di morte, costituivano
il suo fascino e la sua scomodità, la sua forza e la sua debolezza. Per scelta
o per destino, Sinopoli ha vissuto tutta la vita agli estremi confini spirituali
con la morte. E per questo lo abbiamo sentito vicino e gli abbiamo voluto
bene, sempre. In lui il sapere era immenso, ed esteso non solo
alla musica, ma non rappresentava la qualità fondamentale della sua persona:
contavano di più l’emozione, il grado di partecipazione e di immedesimazione
in ciò che amava e faceva. Anche come direttore è stato un caso atipico,
più grande nelle intenzioni che nella realtà. Il suo carattere non stava
nel comunicare e nel realizzare, ma nell’indicare, nel suscitare reazioni
con l’esempio. E ciò spiega perché da alcuni fosse amato, da altri detestato.
Quando dirigeva, sembrava voler cercare oltre le note, per cogliere un’essenza
fatta di associazioni remote, stratificate nel tempo e nello spazio, tendenti
idealmente a ricostituire una totalità scomparsa: in questo, anche come compositore,
aveva veramente lo spirito dell’archeologo, del ricercatore, dell’analista.
Si capisce che elettivamente fosse a suo agio nelle albe e nei crepuscoli,
e che inconsciamente rimpiangesse la luce piena del giorno. Elaborare la
perdita era il suo motto preferito. La città del sole il suo miraggio. Nel
suo strenuo impegno, nella disciplina mostruosa, nel suo fanatismo contagioso
verso l’assoluto si metteva continuamente in gioco, fingeva cinismo e disprezzo,
ma sapeva che in fondo ogni pienezza, se esiste, è vanità e affanno. E se,
come dice il Poeta, la vita è solo un’illusione, che cosa di più può essere
la morte?
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