Riflessioni in forma di conversazioni
di
Doriano Fasoli
La civiltà letteraria europea.
Conversazione con
Pietro Citati
di
Doriano Fasoli
per Riflessioni.it
– marzo 2006
S’intitola
La civiltà letteraria europea il
Meridiano Mondadori, uscito di recente in
libreria, che raccoglie gli scritti di
Pietro
Citati
“da Omero a Nabokov” (curato con fine
intelligenza da
Paolo Lagazzi).
Ma quando gli si chiede qual è l’emozione, la
reazione psicologica che si prova per questo
tipo di riconoscimenti, Citati risponde con
candore: “La mia emozione non è grande.
Pubblicare un libro nei Meridiani non assicura
affatto che i miei saggi siano buoni, e che
verranno ricordati tra dieci anni. Potrebbe
essere un colossale errore da parte della
direttrice dei Meridiani”.
Catalogo libri
di Pietro Citati
Eppure, con quelli che sono considerati
all’unanimità maestri della nostra saggistica,
lei si direbbe in buona compagnia: Cecchi,
Macchia, Praz… Con chi, tra di essi, ha
sentito maggiori affinità?
Sono stato molto amico di Cecchi, Macchia e
Praz. Quando ero giovane, andavo sempre a
trovare Cecchi, nel suo studio vicino alla
porta di casa, da dove controllava, credo,
l’andirivieni dei macellai, verdurai,
formaggiai, postini. Sentiva di abitare nel
caldo cuore vivente della casa. Credo che
avesse molta simpatia per me: molto meno
considerazione per il mio talento di critico.
Un giorno, mi disse: “il Suo articolo è
intelligente, ma non rende la cosa”.
Aveva perfettamente ragione. L’essenziale,
nella critica letteraria, è rendere la cosa.
Ora, credo di essere diventato un pochino più
bravo.
Macchia
poi abitava a poche centinaia di metri da casa
sua…
Avevamo lo stesso tabaccaio, parrucchiere,
farmacista, e dentista. Ciò creava tra noi un
rapporto strettissimo, molto più grande di
quello dato dai libri. E poi parlavamo,
parlavamo interminabilmente. Era delizioso e
spiritosissimo. Quasi sempre lo stesso tipo di
conversazione: frivola, pettegola, aneddottica,
qualche volta perfida, con rapidi scorci sui
libri.
E di Mario Praz, che ricordo conserva?
Praz
era una delle persone più buone e affettuose
che abbia mai conosciuto. Dopo tanti anni, mi
sento ancora irradiato dal suo affetto e dalla
sua gentilezza. Abbiamo lavorato insieme: ho
curato due dei suoi libri. Cecchi ha scritto,
probabilmente, i più bei saggi letterari del
Novecento. Ma, a un certo punto, ha pensato
che la letteratura è una cosa così grande che
è inutile parlarne. L’opera di Praz è la più
folta, ricca, colorata, sensuale del secolo.
Per certi aspetti, è la più tragica. Aveva il
demone dell’analogia: il dono maggiore di un
critico.
Che posto sente di occupare nella
cultura italiana?
Nessun posto.
Pensa che la posizione di “outsider”
possa essere un vantaggio dal punto di vista
intellettuale?
Non lo so. Per metà, sono un tecnico: preciso
e pedantesco; che studia le fonti e lavora sui
lessici, e per metà un assoluto dilettante.
Leggo tutto quello che mi pare, e parlo di
tutte le cose, specialmente di quelle che non
conosco. Parlare di una cosa che non si sa, ma
si immagina o si sogna, aumenta, credo,
l’intelligenza: almeno la mia.
Si è mai sentito un “outcast”, un
escluso, come molti intellettuali francesi
amano definirsi?
Uno scrittore è sempre un escluso: un
critico non ha abbastanza talento per esserlo.
Un critico è un’infima parte del grande corpo
della letteratura: una foglia o un piccolo
ramo di un’immensa pineta. Questa condizione
mi piace molto.
“Non tutti sono condannati
all’intelligenza”, disse una volta Gadda nel
corso di un’intervista. Anche lei vive
l’intelligenza come una condanna?
Per Gadda, tutto era una condanna: vivere,
respirare, lavorare, scrivere, pubblicare
libri. Senza essere propriamente religioso,
era segnato dalla colpa. Forse questo senso
della colpa era il segno che era, nel
profondo, un erede di Paolo. Non ho una grande
considerazione per l’intelligenza: so che con
l’intelligenza sola non si scrivono né
Guerra e Pace né La Recerche. Ma la
non grande intelligenza che posseggo mi rende
quasi felice. Mi piace capire: ammesso che ci
riesca.
Come spiega il grande successo di
critica e di pubblico ottenuto dal suo libro
su Kafka?
Quando pubblicai il mio libro, in Italia
Kafka
era uno scrittore amatissimo. Allora ho avuto
un incontro con gli studenti dell’Università
di Milano (di tutte le facoltà), nel quale mi
sono accorto che lo comprendevano in modo
acutissimo. Mi rivolgevano domande
straordinarie che spesso mi mettevano in
difficoltà. Vivevano in lui.
Nella vita intellettuale assumere un
atteggiamento elitario le sembra necessario? E
altrettanto, socialmente parlando?
Forse Lei pensa che io abbia un atteggiamento
elitario. Non credo di averlo. Faccio quello
che mi pare e vedo chi mi pare. Uno dei miei
migliori amici è l’antico postino di
Giuncarico, in Maremma: non certo perché
appartiene al popolo, ma perché è molto
simpatico e intelligente. Non ritengo di
appartenere alla società letteraria. Andare ad
un convegno o assistere a un premio sono, per
me, la peggiore delle condanne.
Tra gli scrittori conosciuti
personalmente, qual è quello che le ha
lasciato davvero il segno, per umanità e
profondità di spirito?
Certamente, Carlo Emilio Gadda. L’ho
frequentato moltissimo, dal 1955 alla sua
morte. Era l’unico uomo grande che abbia mai
conosciuto: era grande qualsiasi cosa facesse,
dicesse o pensasse. Ho una profonda
venerazione per lui.
Cioran si diceva sconvolto dalla quantità
di libri “che non mi dicono nulla, che non mi
riguardano, e ai quali mi è impossibile
riconoscere un valore oggettivo. So che
non avrebbero dovuto essere scritti”. Per lei
vale lo stesso discorso?
Non leggo mai i libri che non mi dicono nulla.
Lo si capisce dalle prime cinque righe.
Perché non si è dedicato interamente
alla narrativa?
Sarebbe stato un disastro. Non saprei scrivere
romanzi: mi mancano completamente i doni della
immaginazione e della visione, senza i quali
non si possono scrivere. Ho invece il dono
della costruzione. Posso raccontare – cioè
interpretare raccontando – solo cose che altri
hanno già raccontato.
Secondo Bloy, i critici sono quelle
strane persone che si ostinano a trovar
domicilio in un letto altrui. E per lei?
Bloy aveva ragione, anche se il suo letto mi
piace poco. Sainte-Beuve l’aveva detto molto
meglio. Diceva che tutti i critici hanno
qualcosa del viandante, del vagabondo,
dell’ebreo errante e soprattutto dell’attore,
che “muta ogni sera il costume, il volto, la
parte”. E aggiungeva: “Lo spirito deve essere
a casa propria soprattutto quando è fuori
di casa propria. Sempre da un’altra parte,
sempre altrove, questo è il suo motto”.
Doriano Fasoli
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