RASSEGNA STAMPA

8 SETTEMBRE 2001
GIANNI VATTIMO
Pareyson, esistenzialismo no global

Dieci anni fa moriva il grande filosofo italiano: il suo pensiero segna ancora il nuovo millenio

A dieci anni dalla scomparsa di Luigi Pareyson (nato il 4 febbraio 1918, morto il 9 settembre del 1991), si può davvero dire che, nel suo caso, il tempo è galantuomo. Solo pochi anni prima che una grave malattia lo stroncasse, il pensiero di Pareyson aveva conosciuto un'ampia risonanza anche extra-accademica; e da allora tale risonanza si è andata sempre più ampliando e approfondendo, tanto che in molti sensi si può oggi parlare di una portata anticipatrice, se non decisamente profetica, della sua filosofia.

Egli l'aveva elaborata a partire dai primi studi sull'idealismo e l'esistenzialismo già alla fine degli anni Trenta, quando giovanissimo si era fatto conoscere per il libro su Karl Jaspers e la filosofia dell'esistenza (1940), per le innovative ricerche su Fichte che proponevano una visione in molti sensi rivoluzionaria della filosofia classica tedesca, contro lo schema manualistico che la faceva culminare nel sistema hegeliano, preludio al rovesciamento di Feuerbach e di Marx. Il legame con l'idealismo tedesco rimase vivo in tutta la sua successiva carriera di pensatore, fino agli ultimi anni quando il "pensiero tragico" a cui era approdata la sua meditazione si richiamò sempre più esplicitamente alla filosofia dell'ultimo Schelling, radicalmente antihegeliana e nutrita di un intensa tematica religiosa.

Una simile descrizione sommaria dell'itinerario filosofico di Pareyson - che come professore fu per molti anni uno dei maggiori esponenti di quella "scuola di Torino" a cui appartennero pensatori come Augusto Guzzo, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Pietro Chiodi, Augusto Del Noce, per non citare che i più noti - non spiega tuttavia quella che si può chiamare l'attualità non solo specialistica del suo pensiero.

Il titolo di "pensiero tragico" che egli impiegò spesso, negli ultimi anni, per caratterizzare la propria posizione teorica, aiuta però a oltrepassare i limiti dell'orizzonte accademico, del resto sempre più problematico via via che anche i più pervicaci difensori della filosofia come scienza specialistica, custode di una tradizione di testi che andrebbero tenuti rigorosamente separati dall'attualità, e dunque anche da qualunque utilità sociale, vanno persuadendosi (magari solo per non essere del tutto emarginati dalla nuova università che le recenti riforme si sforzano di costruire) che forse bisogna ritrovare un meno evanescente rapporto con l'esistenza quotidiana, con la politica, con la religione, con i nuovi problemi etici posti dalla scienza e dalla tecnica.

Un rapporto analogo a quello che valeva appunto ai tempi delle grandi filosofie sistematiche come l'idealismo (quando i giovani Schelling, Hegel e Holderlin, nel seminario di Tubinga dove erano compagni di studi alla fine del Settecento, seguivano con entusiasmo e partecipazione le vicende della rivoluzione francese); e che valeva anche per l'esistenzialista Kierkegaard (un altro dei maestri a cui Pareyson costantemente si ispirò), autore di brucianti polemiche "di attualità" contro la Chiesa di Danimarca.

Non poca filosofia italiana ed europea di questi ultimi decenni percorre le strade che furono percorse, spesso con spirito anticipatore, da Pareyson. Penso a certi filosofi della generazione italiana più "giovane" come Massimo Cacciari, i cui libri, soprattutto l'ambizioso Dell'inizio (ora ristampato da Adelphi, dopo la prima edizione del 1990), si muovono nella stessa prospettiva; o a un altro filosofo della stessa generazione di Cacciari (anni Quaranta), Reiner Schurmann (in italiano è stato tradotto il suo Dai principi all'anarchia) il cui grande libro postumo, Des hégémonies brisées, era visibilissimo sullo scaffale alle spalle di Toni Negri nell'intervista televisiva data a Parigi prima di consegnarsi alla giustizia italiana: in termini e forme diverse, nomi come quelli di Cacciari e di Schürmann (forse anche quello di Toni Negri, oggi molto popolare negli Stati Uniti) ma poi di tanti filosofi francesi di scuola derridiana e heideggeriana (da ultimo, per esempio, Jean Luc Nancy, soprattutto con il libro L'esperienza della libertà, edito in Italia da Einaudi) testimoniano l'attualità del pensiero tragico in circoli della cultura, per lo più giovanile, di oggi, proprio quelli che, nelle università e fuori, si rivolgono sempre più spesso anche ai testi dell'ultimo Pareyson.

A tale pensiero, Pareyson arriva radicalizzando, anche molto al di là di un classico dell'ermeneutica come Gadamer, il rapporto tra filosofia dell'interpretazione e concezione dell'essere, che era già al centro della meditazione heideggeriana. Se si riconosce, con Heidegger, che l'esperienza che facciamo del mondo è sempre interpretazione - cioè un incontro nel quale, come scrive Pareyson, "la cosa si rivela nella misura in cui la persona si esprime" - e non invece un rispecchiamento passivo dove il soggetto deve cancellarsi per riflettere fedelmente l'oggetto , bisogna pensare anche l'essere in termini che non siano più quelli della tradizione metafisica: fondamento ultimo immutabile e tutto "dato", fuori da ogni storicità autentica, giacché, come sanno i teologi che si sono accaniti sul problema della predestinazione, se l'essere (o Dio) è tutto in atto dall'eternità e per l'eternità, il divenire, la storia, la libertà umana sono pura inspiegabile finzione.

Per rendere possibile il riconoscimento che la verità è sempre interpretazione - anche quella scientifica, giacché ogni proposizione scientifica si verifica o falsifica solo nel quadro di paradigmi di cui lo scienziato deve disporre da prima, portandoli con sé dalla sua formazione, dalla sua cultura, ecc., e che dunque "esprime" nel suo lavoro sperimentale - occorre che l'essere sia pensato a sua volta come evento e non come struttura fissa data una volta per tutte.

Per Pareyson, ma anche per Schelling, per Kierkegaard, per molti esistenzialisti cristiani (o ebrei, come Lévinas), questo essere che non è l'ordine geometrico eterno e immutabile, ma sorgente dell'interpretazione e della libertà, è il Dio cristiano che è a propria volta iniziativa, atto di affermazione, positività che si impone contro una possibilità negativa. Un Dio come questo porta in sé, sia pure come preistoria che ha vinto, il male. La tragicità dell'esperienza umana, mai totalmente libera da limiti, mali, sofferenze e violenze inutili, ha la sua radice più remota qui. Che molta filosofia europea di oggi si collochi sotto il segno della tragedia non significa necessariamente che il pensiero tragico sia per tutti, anche discepoli di Pareyson, la verità della nostra condizione attuale.

C'è un altro aspetto della sua eredità filosofica che circola largamente nella riflessione di filosofi anche non tragicisti, ed è l'idea che la filosofia sia essenzialmente ermeneutica dell'esperienza religiosa - il che significa: interpretazione di miti e scritture sacre (per Pareyson, certo, della Sacra Scrittura giudeo-cristiana in modo eminente). Mentre oggi molti filosofi cristiani, o che comunque vogliono salvare la possibilità della religione, magari in nome della distinzione di Wittgenstein tra diversi "giochi linguistici", tendono a separare il discorso religioso da quello filosofico, ciascuno dotato di proprie regole e di propri criteri di validità (ma chi è che assegna le parti in commedia? Chi decide quali sono i confini dei due diversi discorsi?), Pareyson ci ha insegnato a riconoscere la continuità, e anche i possibili conflitti, tra filosofia e tradizione religiosa; che si occupano della stessa cosa, e che vivono entrambe di una "rivelazione" nella quale si nascondono, ma anche si offrono, infinite e sempre vive possibilità di interpretazione.

Se si pensa a quanto la questione della pluralità delle culture, e cioè anche delle religioni e dei miti che le fondano, sia decisiva per la società "globale" in cui ci troviamo sempre più a vivere, si dovrà dire che anche sotto questo aspetto l'eredità filosofica di Pareyson è tutt'altro che un patrimonio del passato.
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