GOTTFRIED WAGNER

LA REPUBBLICA DI WEIMAR
DAI RUGGENTI ANNI VENTI AL NAZISMO

Weill e Brecht pp. 5-23


Alla base della mitizzazione degli anni Venti vi sono due fattori: una rimozione storica e una compensazione. Dopo il 1945 si trattava infatti di rimuovere uno dei più oscuri capitoli della storia tedesca: il nazionalsocialismo. Col richiamo all'epoca di Weimar si tentò perciò di scavalcare dodici anni di terrore delle Camicie Nere. E non ci fu un grosso pubblico per le analisi critiche che indagavano le origini e le connessioni di quest'epoca.
Allo sfruttamento commerciale della
Repubblica di Weimar, dapprima desiderato, poi promosso, segue, ora, dopo trent'anni, quello del fascismo (basta guardare, ad esempio, il successo enorme delle memorie di Speer). In questo caso l'interesse, piuttosto che da una responsabilità storica o dalla volontà d'illuminare il passato con una critica ideologica, viene fuori da ragioni di profitto. Una volta riconosciuta questa volontà di rimozione ci si è accorti infatti che, colmando questa lacuna, si poteva venire incontro ad un'esigenza del mercato. Tale kitsch nostalgico risveglia il desiderio verso una identità storica apparentemente perduta, il cui soddisfacimento può rapidamente portare di nuovo al caos.
La Repubblica di Weimar ebbe inizio alla fine del primo conflitto mondiale e durò fino alla presa di potere di Hitler, il 30 gennaio del 1933. Tale spazio di tempo fu caratterizzato dapprima da crisi e rivolgimenti, ma poi sempre più da un processo di decadenza. Il caos iniziale dell'immediato dopoguerra sfociò nel crollo della pretesa universalistica occidentale-cristiana, introducendo l'insorgere di un dualismo tra fascismo e bolscevismo.
Dal 1922 in poi si chiarirono a poco a poco le strade che i vari Stati europei avrebbero preso nell'ambito di questo bipolarismo. In Italia in quell'anno inizia il processo di conquista dello stato da parte del fascismo. Mussolini, percorrendo vie legali, si arroga un potere dittatoriale. In Unione Sovietica alla morte di Lenin, nel 1924, Stalin sale al potere. Sotto il suo dominio vengono burocratizzati i principi dell'Internazionale Comunista fondata nel '19 e gli stessi vengono anche svuotati di contenuti umani, in seguito alla loro imposizione dall'alto. E sullo sfondo di questo orizzonte che bisogna guardare alla fondazione della prima repubblica tedesca, quella di Weimar, che, con l'elezione a presidente di
Friedrich Ebert, nel 1919, segue la caduta dell'impero guglielmino.
Il regime imperiale aveva raggiunto l'unità politica attraverso il potere della classe dominante, una classe monolitica, che aveva diffamato l'opposizione politica, tacciandola di essere anti-tedesca e scarsamente dotata di amor patrio. Uno Stato burocratico rigidamente organizzato e l'idealizzazione dei rituali di obbedienza di stampo militarista avevano fatto sì che la borghesia tedesca introiettasse aproblematicamente il pensiero autoritario; non si era perciò assolutamente preparati alle idee liberali, anche in materia di opinione, che ora improvvisamente avevano corso.

All'esigenza di recuperare una libera espressione del proprio pensiero, si provvide formalmente facendo in modo che ogni corrente politica e culturale potesse fondare il proprio partito; questi ultimi poi potevano tutti, dato che non vi era alcuna clausola percentuale che ne bloccasse l'ingresso al parlamento, contribuire al processo di formazione della volontà politica. Ciò ebbe un effetto fatale, dati i compiti e le difficoltà che il governo tedesco si trovò ad affrontare dopo la prima guerra mondiale.
Vi era in primo luogo una forte incertezza sulla propria identità, sul proprio valore, dopo la sconfitta, in seguito alla quale l'impero aveva perduto le colonie, un decimo della propria popolazione e un ottavo dei suoi territori. «Da un punto di vista economico - scrive W. Laqueur - le perdite furono ancora più rilevanti: il 26 per cento della produzione di carbone e il 75 per cento di quella di minerali ferrosi. L'industria pesante tedesca, che era stata nei decenni precedenti la spina dorsale del rapidissimo sviluppo commerciale del paese, ne era risultata seriamente indebolita nei confronti della concorrenza sul mercato mondiale. Il Reich aveva perduto tutte le grandi navi commerciali, la metà di quelle piccole, un quarto della flotta da pesca, un quinto delle navi fluviali, 5000 locomotive e 150.000 vagoni ferroviari [1]». A questo si aggiunsero i costi schiaccianti delle riparazioni dei danni di guerra, per un totale di 132 miliardi di marchi (che più tardi, nel 1930, vennero ridotti a 37 miliardi) che erano stati imposti alla Germania, come espiazione e pena, dalle potenze vincitrici, consce della loro superiorità morale. Da ciò però venne fuori il caos economico e l'inflazione. La genesi di tale bancarotta nazionale è stata frequentemente ricordata: «Quando la guerra scoppiò, nel 1914, il cambio ufficiale del dollaro era pari a 4,20 marchi. Durante la guerra esso si raddoppiò e nel '21 era pari a 270 marchi. Di lì in poi la svalutazione del marco proseguì con brevi interruzioni; nel '23 la febbre arrivò al delirio e a metà del mese di novembre di quell'anno il cambio ufficiale era pari a 4.200 miliardi di marchi per un dollaro. Allora la moneta venne stabilizzata - letteralmente dall'oggi al domani, e con un totale successo. Si trattò piuttosto di un problema più psicologico che economico, poiché, una volta che la pubblica opinione ebbe riconosciuto che un'ulteriore discesa del marco non era possibile, dovette essere realizzata una nuova stabilità, rispetto alla quale era indifferente che vi fosse o no una reale copertura» [2].
In tempi siffatti sarebbe stata necessaria una maggioranza di governo capace di prendere delle decisioni. E invece le diverse correnti politiche non si trovarono unite su nessun punto, poiché non solo le distanze tra destre e sinistre, nel senso classico del termine, erano notevolmente maggiori di oggi, ma la discordia all'interno dei raggruppamenti della sinistra tradizionale (per esempio SPD e USPD, poi diventata KPD) era notevolissima. Quanto si fosse ancora ben lontani dall'ideale originario di una democratica contrapposizione d'idee, lo rivela la tendenza, che si manifestò sempre più chiara, ad assassinii politici, colpi di mano e tentativi sovversivi. «Il 1920 e il '21 furono gli anni del putsch di destra di Kapp e di sollevazioni comuniste locali nella Ruhr e nella Germania centrale. Nel 1922 entrò in scena l'inflazione galoppante giunta al suo apice nel 1923, che fu anche l'anno del putsch di Hitler. Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg erano stati uccisi nel 1919 da terroristi di destra, Erzberger lo fu nell'agosto del 1921, e Walther Rathenau, ministro degli esteri della Repubblica, nel giugno del 1922» [3].
Eppure, a partire dal 1923, sembrò che le cose cominciassero lievemente a migliorare. L'inflazione poté essere arginata con la riforma monetaria e
Gustav Stresemann divenne cancelliere. La Germania contrasse molti debiti con l'estero sia per stabilizzare la moneta, che per dare impulso all'economia e poter dunque anche fare onore agli impegni delle riparazioni belliche. Quanto tutto ciò si trovasse a dipendere dallo stato generale dell'economia mondiale, lo mostrano gli effetti della crisi del '29, che proprio sulla base delle implicazioni internazionali tra marco e capitale acquistò una dimensione mondiale.
Una prima avvisaglia del fatto che l'espansione economica ipersviluppata quella in virtù della quale gli anni Venti sarebbero stati definiti come "anni ruggenti" non sarebbe durata a lungo venne dal crollo della borsa, il venerdì nero del 13 maggio '27. Due anni più tardi un crack catastrofico del mercato alla borsa di New York generò la crisi dell'economia mondiale - «si ebbe un crollo dei valori di borsa - per usare le parole di Golo Mann - quale non era mai accaduto dal '700. Si trattò della cattiva conclusione di una congiuntura economica, l'inizio di una crisi che fece precipitare nel proprio vortice, uno dopo l'altro, tutti gli Stati che non vivessero in completo isolamento reciproco. Tra questi la Germania era la più esposta alla crisi. Nel momento in cui i mercati si contraevano, i crediti a breve termine venivano revocati, né se ne potevano reperire di nuovi: svanirono così le basi della prosperità tedesca; la sua industria, iperconcentrata e razionalizzata, non seppe più dove rivolgersi. Ristrutturazioni o chiusure di fabbriche, aumento dei disoccupati e dei costi sostenuti dalle compagnie di assicurazione del Reich, diminuzione del gettito fiscale, deficit del governo, tutto era frutto di un solo identico processo, che proseguiva da solo, una volta innescato» [4].
A completare il quadro delle difficoltà economiche interne, l'America ritirò i crediti concessi alla Germania. E così, per la seconda volta in breve tempo, essa cadde in un nuovo caos economico.
Disoccupazione e miseria provocarono una notevole corsa verso i partiti estremisti di destra e di sinistra. Questo sviluppo lo si potrà rilevare facilmente dalle statistiche elettorali di quegli anni [5].

 

I partiti moderati, come la Deutsche Volkspartei (Partito popolare tedesco), avevano perso qualunque credibilità. Per superare il basso livello in cui si trovava la coscienza nazionale di fronte al nuovo insuccesso, un aiuto sembrava poter provenire solo dai nazionalisti, che, ora più che mai, si appropriarono dell'idea di Germania, idealizzandola. Essi inoltre ritenevano che la depressione tedesca fosse dovuta ai legami tra l'economia mondiale e quella della loro patria.
Una tale schizofrenia era sintomatica del clima politico della Repubblica di Weimar che stava per entrare nella fase finale. Le grandi masse avevano perso qualunque fiducia nella democrazia, il cui spirito liberale ritenevano responsabile del naufragio delle loro speranze. Esse attendevano la salvezza solo da un ''uomo forte". Costui sfruttò la crisi del capitalismo e diede al nazionalismo, che si andava risvegliando, quell'alimento che desiderava. E dunque il nuovo "pifferaio magico" condusse le masse ipnotizzate in un vicolo cieco [6].

 

Rivoluzione, reazione e rassegnazione

L'epoca guglielmina non costituì un terreno propizio per lo sviluppo artistico e culturale. I molti tabù di una prospera borghesia per la quale la parola arte aveva ancora qualcosa di equivoco, l'ininterrotta dittatura del gusto degli aristocratici, che si confermavano mecenati senza alcun senso artistico e favorivano solamente i buoni sudditi, il soffocamento di ogni spirito di opposizione e, non da ultimo, la grettezza della fedeltà all'idea nazionalista, lasciavano certo poco spazio di manovra alle forze intellettuali ed artistiche.
Con la fine della guerra, e la fondazione della Repubblica di Weimar, queste limitazioni persero valore, e venne ad aprirsi uno spazio libero per le idee, che attendeva solo di essere riempito. La possibilità di ricominciare tutto daccapo ispirò le energie creative di un'intera generazione e fece sì che in questo periodo nascesse un'attività intellettuale viva e pulsante. I contrasti che sorgevano tra correnti e stili diversi contribuivano alla nascita di idee proprie a ciascun movimento. Molti elementi stilistici delle varie arti, che già si potevano scorgere prima della guerra, vennero adesso sviluppati e portati avanti. Il presentimento di un possibile tramonto, di una fine improvvisa spronava più che mai ad esaurire l'oggi in tutte le sue potenzialità.
Il rapido sviluppo tecnologico di questo periodo, di per sé eccitante, apriva nuove strade; e proprio contemporaneamente ad esso venne sempre più alla luce quello che sarebbe stato il problema di questo secolo: il confronto tra artista e masse, nel quadro della società industriale. Lo sviluppo dei mass‑media in senso moderno (film, radio) spinse a confrontarsi con tali fenomeni. Responsabilità politiche e contrasti ideologici dovettero d'ora in poi badare anche alla loro comprensione da parte delle masse e cioè essere dimensionati alle nuove forme di ricezione, con le quali entrava in rapporto un'arte non più "auratica", ma di massa, dunque "tecnicamente riproducibile" (Benjamin), e dotata altresì di nuove forme funzionali.
«Gli stessi artisti che scorgevano prossimo il caos, il fascismo, avevano, come scopo strategico, la rivoluzione sociale (dal momento che le conquiste della rivoluzione borghese erano state progressivamente annullate) e il ristabilimento delle libertà borghesi, in primo luogo di quelle materiali, senza le barriere di classe. Nella misura in cui la rivoluzione si pone in primo luogo contro il suo principale nemico, il fascismo, essa non confida solamente, oltre che sul proletariato, sui ceti contadini poveri e sugli strati inferiori della piccola borghesia. Riguardo agli stessi ceti medi, infatti essa non si contenta solo di neutralizzarli, ma prova anzi a mobilitarli, ed intraprende, in nome della libertà e dell'umanità, una lotta senza quartiere contro il fascismo. Ma poiché quest'ultimo poi si trova a rappresentare, secondo i suoi contenuti di classe, null'altro che il formidabile monopolio dei mezzi di produzione industriali e agricoli (monopolio utilizzato come arma di terrorismo ideologico da parte degli sfruttatori), la lotta contro il fascismo si allarga allora a lotta contro il capitale monopolistico (e riesce perciò a condurre con sé la maggioranza della nazione, resa accorta dalle sconfitte ed ora divenuta realmente anticapitalista) [7]».
Ampi circoli borghesi, ma anche intellettuali e artisti di sinistra, chiusero gli occhi di fronte ai problemi che stavano per presentarsi, in maniera tale da sottovalutare il fascismo, per colmo d'ironia, proprio mentre esso si avvicinava. Armati di un generale scetticismo, che li rese incapaci di ogni azione, non seppero valutare a pieno i segnali di allarme - come ad esempio la generale decadenza della sensibilità politica - al punto tale che non fu più possibile alcun intervento e nemmeno alcuna vigilanza. Se si pone mente a come il fascismo, almeno verbalmente, avesse già acquisito una sua propria cittadinanza, e a quanto esso non fosse poi così lontano dal modo di pensare comune, si dovrà allora convenire con Bloch che: «Allorché il discorso si corrompe, o si perde, o quando esso si volge ad essere un cliché o un grimaldello per un inganno, ma anche quando esso viene sradicato dal vecchio modo di vivere, e insieme dall'ampio contesto che sinora gli apparteneva e deve allora condurre un'esistenza segregata dal mondo o del tutto estraniata: in tutti questi casi, insomma, esiste la possibilità, e nella corruzione la certezza, che un uomo, un popolo perdano il loro contenuto di verità e il mondo loro proprio» [8].
Furono gli artisti impegnati, progressisti, della Repubblica di Weimar - e in verità solo loro - a riconoscere quanto fosse necessaria, a qualunque prezzo, un'arte rispondente ai tempi, che nascesse dal sentimento di una corresponsabilità politica.
Nonostante la mancanza di una tradizione rivoluzionaria in Germania, che certo fu uno dei motivi del naufragio dei tentativi rivoluzionari del 1918-19, in questi circoli rimase un'esigenza di mutamenti radicali della società. Il fallimento di allora aveva messo solo ancora più all'erta i rivoluzionari.
Secondo Golo Mann, la rivoluzione dell'8 novembre 1919 «era stata una rivoluzione illegittima, spuria, poiché tale da abbattere solo le strutture politiche, lasciando invece intatte quelle sociali» [9].
In tal modo ad esempio, le forze impregnate di pensiero autoritario, che avevano le loro roccaforti nella giustizia e nel ceto impiegatizio, rimasero del tutto intoccate, e continuarono a credere, come in precedenza, alla «autolegittimazione dell'ordine costituito» [10].
Del tutto impreparate di fronte al fatto di aver perso la guerra, tali forze si aggrapparono al mito della "pugnalata alle spalle" [11], che già allora le aveva protette dal dovere ammettere una tale vergogna e che aveva offerto loro un capro espiatorio, da poter ora perseguitare con un odio e una diffidenza apparentemente giustificati. E in tal modo tutti i tentativi positivi del '18 vennero condannati al naufragio.
La paura che il pericolo rosso e il «caos all'Est» potessero estendersi anche in Germania spinse i governanti, sotto la pressione delle masse, ad «adoperare la forza per ristabilire l'ordine». Si tralasciò l'occasione di crearsi degli strumenti aderenti allo spirito repubblicano e si pose mano alle vecchie autorità, «lo stato maggiore, gli ufficiali e poi i volontari» [12].
Il terrore bianco che venne a questo punto ad insediarsi, fu tanto più efficace quanto più esso appariva esercitato, in modo apparentemente legale, da reparti ben organizzati. In tale spirito, dal gennaio 1933 [13], ci si occupò in maniera totalizzante dell'ordine. Gli autori di teatro che nel '18 si erano impegnati con tutte le forze nella rivoluzione videro le loro speranze svanire. Gli ideali dell'espressionismo si erano rivelati assai lontani dal reale, e bisognava dunque rivolgersi ad un nuovo stile. La maggior parte degli intellettuali non era in grado di ricavare alcuna nuova spinta dal naufragio delle loro ambizioni politiche e, rassegnati, si ritirarono dalla politica.
Una poesia di Kurt Tucholsky del 1920, scritta in occasione della messa in scena della Morte di Danton di
Romain Rolland da parte di Max Reinhardt, rispecchia appieno questa rassegnazione:

Un popolo rumoreggia: Rivoluzione!
Vogliamo conquistarci la Libertà!

Erano secoli che la volevamo!
Lasciamo che scorra il sangue dal cuore!
Rimbomba la scena. Rimbomba il teatro.
Alle nove è tutto finito.
E, rinsavito, io vedo il giorno, grigio.
Dove è rimasto il novembre?
Dov'è il popolo, che una volta giaceva sotto,
spinto dal desiderio di salire in alto?
Silenzio. Tutto finito. Non era poi gran cosa.
Un gioco, solo un gioco. [14]

Una gran parte degli autori che appartenevano alla generazione di mezzo si diedero alla ricerca di soggetti che non implicassero alcuna presa di posizione riguardo agli avvenimenti contemporanei.

Walter Hasenclever
e Paul Kornfeld si dedicarono alle commedie. Georg Kaiser scrisse una rivista. Fritz von Unruh compilò una sorta di reportage storico dal titolo Bonaparte e la commedia cinematografica Phäa. Carl Sternheim diede ad uno dei suoi ultimi pezzi - Die Schule von Uznach (La scuola di Uznach) - un sottotitolo alla moda, «ossia la nuova oggettività». Ciascuno si costruiva la propria torre d'avorio.
Ci si poteva servire, come
Carl Zuckmayer ne Der Frohlithe Weinberg (L'allegro vigneto) di temi popolari, oppure ci si procacciava un'apparente attualità con montaggi o reportage di sapore naturalistico (Der Hauptmann von Kopenick di Zuckmayer [Il capitano di Kopenickl o Die Wupper, [La Wupper], di Else Lasker-Schüler) [15]. Tutti questi autori dovettero scontare la loro cecità. Gli stessi occhi, che essi si erano tanto premurati di distogliere dalla politica e di tenere ben chiusi, vennero loro aperti, e in maniera violenta, proprio dalla politica, che in tal modo era riuscita a farsi valere quasi senza incontrare ostacoli.
Kornfeld fu assassinato, Hasenclever si tolse la vita, von Unruh, Kaiser, Zuckmayer e la Lasker-Schüler emigrarono, Sternheim morì folle,
Ernst Barlach fu proscritto.
Anche il
Brecht pre-marxista si trova in questa fase rivoluzionaria con i suoi primi pezzi, in cui egli ama rivelarsi come incubo per la borghesia, e deridere ciò che gli altri amano (l'espressionismo in Baal, la rivoluzione in Trommeln in der Nacht [Tamburi nella notte]) senza però proporre nuove alternative [16].
Il teatro visse allora un'epoca d'oro. Si continuarono a sviluppare idee già sperimentate e le si perfezionarono, ma si indicarono anche nuove strade, proprio sul terreno dell'arte di recitare e dello spazio scenico. Registi come
Brecht, Erwin Piscator, Jurgen Fehling e Leopold Jessner, scenografi come Caspar Neher e Traugott Müller si preoccupavano di realizzare un'altissima qualità delle rappresentazioni.
Si scelsero celebri opere e si diede luogo a scandali con la messa in scena di noti classici. Contrariamente a quanto accadeva con la produzione contemporanea, i migliori tra i pezzi che vennero eseguiti allora si occupavano da vicino di politica - Il lutto si addice ad Elettra di O'Neill trattava degli americani durante la guerra civile, La scarpetta di raso di Claudel dei limiti del potere umano, Turm (La torre) di Hofmannsthal di una visione del fascismo - e tuttavia in quasi tutti questi pezzi il tema principale è costituito dall'uomo e dalla sua vita interiore, nulla viene rivelato, e tanto meno analizzato, della realtà concreta e politica [17].

 

Il teatro musicale

Tra i fenomeni più appariscenti che riguardano il teatro musicale degli anni Venti, vi è da un lato il rinnovamento radicale del repertorio operistico tradizionale dal punto di vista registico, scenografico e, da Gustav Mahler in poi, anche da quello dell'interpretazione musicale, dall'altro lato vi è però anche un profluvio di opere contemporanee.
Entrambe queste correnti, scorrendo in piena autonomia una verso l'altra, tendono ad uno sviluppo già individuabile nel teatro di prosa: alla distruzione dell'effetto illusionistico, alla parodia dell'irrealismo dell'opera e del suo pubblico, che d'ora in poi si voleva porre a confronto in maniera immediata con ciò che avveniva sulla scena.
Per quanto riguarda il teatro in prosa si erano inventate a questo scopo anche nuove strutture sceniche. Accanto alla scena normale (Rahmenbuhne), alla scena a piani diversi (Etagebuhne) e al teatro su binari (Railway-theater) comparve il teatro totale di Erwin Piscator e di
Walter Gropius. Quest'ultimo sintetizzò così il suo pensiero:

Scopo di questo teatro non è l'accumulo materiale di dispositivi e trucchi tecnici tra i più raffinati, essi costituiscono tutti esclusivamente il mezzo e lo scopo, per far sì che lo spettatore sia trascinato all'interno di ciò che accade sulla scena, ne faccia parte e non possa pìù sfuggirne [18].

A quest'idea spaziale, rivoluzionaria da un punto di vista drammaturgico, si aggiunse la caratterizzazione e la classificazione del tipo di spettatori. Jean Cocteau formulò con voluta ironia la mentalità del pubblico di allora:

Quelli che difendono oggi servendosi di ieri e che hanno il presentimento di domani (1 per cento). Quelli che difendono oggi distruggendo ieri e che negheranno domani (4 per cento). Quelli che negano oggi per difendere ieri, il loro oggi (10 per cento). Quelli che immaginano che oggi è un errore e danno appuntamento per dopodomani (15 per cento). Quelli dell'altro ieri che adottano ieri per dimostrare che oggi esula dai limiti permessi (20 per cento). Quelli che non hanno ancora capito che l'arte è perenne e immaginano che l'arte si è fermata ieri per riprendere forse domani (50 per cento). Quelli che non si rendono conto né dell'altro ieri, né di ieri, né di oggi (100 per cento) [19].

Per quanto riguarda l'opera, il lavoro preparatorio pei giungere ad un confronto più diretto con il pubblico venne al solito svolto dal teatro in prosa. Impulsi essenziali provennero dal teatro rivoluzionario di Meyerhold, di Wachtangow e dal "Teatro libero" di Tairow. Si voleva rompere con il teatro tradizionale e crearne uno che fosse portatore di una critica sociale.
Poiché nell'opera le modifiche riescono a farsi valere con assai maggiore difficoltà che nel teatro in prosa, e questo a causa di un apparato lento e alquanto enfiato, ne venne fuori che il processo di rivoluzione nel repertorio operistico non si ebbe, per così dire, attraverso l'ingresso principale, ma dalla porta di servizio.
Dapprima si trattò di aprirsi un varco nel dominio della tradizione ottocentesca. A tutta prima, però, questo non poteva ancora avvenire utilizzando un linguaggio moderno che sarebbe risultato poco persuasivo, e che avrebbe incontrato un'opposizione troppo forte. Si preferì invece la riflessione su musicisti noti, ma passati in secondo piano. Si riscoprì il barocco musicale e, nel 1920, a Göttingen, venne messa in scena la
Rodelinda di Händel. Iniziò così una Händel-Renaissance, che alla fine venne a configurarsi come una forte contrapposizione al teatro wagneriano del tempo.
Le opere händeliane erano ignote alla gran parte del pubblico; in tal modo non ci si trovò a combattere contro una tradizione rappresentativa consolidata. Al contrario gli spettatori erano in questo caso pronti a delle novità. Essi infatti non erano costretti a riesaminare nessun cliché divenuto loro caro. Oltre a ciò si poteva fare affidamento sul carattere classico delle opere händeliane e si poteva soddisfare il proprio anelito culturale attraverso la loro conoscenza. Queste circostanze resero alla fine possibile nell'opera l'adozione di un linguaggio coerente con i tempi. Gli abbonati erano così presi da un Händel per loro così poco abituale, da accettare ciò che non avrebbero mai tollerato nelle opere a loro familiari del normale repertorio: per esempio il nuovo spazio scenico astratto di Hanns Niedecken-Gebhard
[1889-1954, Theaterwissenschaftler und Regisseur].
Indubbiamente da questa Händel-Renaissance trasse profitto anche la
Dreigroschenoper (Opera da tre soldi) di Brecht e Weill. Nella misura in cui la Beggar's Opera (L'opera del mendicante) di John Gay aveva rappresentato, nel 1728, una parodia dell'opera seria di Händel, così adesso l'Opera da tre soldi era una parodia della Renaissance händeliana degli anni Venti, anche se essa aveva bisogno per sé delle innovazioni unite a quelle riproposte.
Con questo ritorno ad Händel di segno progressista si riuscì agli occhi del pubblico a distruggere musicalmente il Walhalla, la reggia degli Dèi, più che attraverso la strada indicata da Jean Cocteau nella sua frase ad effetto.
Non fu soltanto la Händel-Renaissance a venire fuori da una città di provincia, ma anche il teatro musicale progressista che se ne sviluppò venne realizzato in città come Munster, Gera, Darmstadt e Würzburg, e non a Berlino. È vero che in quest'ultima città Erwin Piscator, Leopold Jessner e
Karlheinz Martin creavano il loro stile di un teatro politico radicalmente nuovo seguendo l'esempio russo, ma la Krolloper solo con la chiamata di Otto Klemperer, nel 1927, divenne una scena operistica aperta alla sperimentazione.
Tra i teatranti che provvidero a svecchiare tali scene nella provincia, bisognerà innanzitutto citare il team formato dal regista Arthur Maria
Rabenalt e dallo scenografo Wilhelm Reinking.
Uno dei principi basilari di Rabenalt era allora il seguente:

Il servizio reso all'arte inizia con il mostrare la attuale validità di essa agli uomini del nostro tempo, invece di averne cura attraverso una considerazione scrupolosa dei suoi presupposti storici [20].

Se Jessner con il suo Hamlet o Piscator con la messinscena dei Räuber (I Masnadieri) avevano frammischiato senza scrupoli maschere, costumi, scenografie e illuminazione nel gusto dei tempi, allo stesso modo anche Rabenalt aveva rinnovato dalle fondamenta il repertorio operistico classico. Suo scopo era l'abolizione del carattere borghese del melodramma - e in questo modo, nella sua realizzazione, il Wildschütz di Lortzing si trovò ad essere un'opera contemporanea.

Il mio progetto di messa in scena si muoveva nella direzione di una riproposta delle tendenze operistiche originali, sviluppando, cioè, un'azione scenica organizzata con maggiore chiarezza, la quale naturalmente poteva interessare i contemporanei da un punto di vista non storico, ma attuale. Il pretesto per quest'operazione era fornito da quel certo ceto, in qualche misura imborghesito, della società aristocratica del dopoguerra, che nei propri possedimenti conduce una vita ritirata, in un certo senso al di fuori del tempo [21].

Un grosso choc per il pubblico più conservatore dell'opera, in particolare per quello abituato a Bayreuth, fu costituito dal Lohengrin, rappresentato a Darmstadt da Renato Mordo [Scrittore; 3.8.1894, Vienna - 5.11.1955, Mainz], dove le indicazioni dell'autore erano state evidentemente calpestate. In esso infatti si rinunciò sia alla pompa dei costumi medioevali che a un décor realistico.
Si deve a
Leo Kestenberg il fatto che anche Berlino potesse seguire l'esempio della provincia. Nella sua qualità di responsabile del settore musica nel ministero prussiano per le scienze, la cultura e l'educazione popolare, egli ottenne la nomina di Otto Klemperer alla Krolloper. Inoltre rese anche possibile che quello che era stato il teatro di corte diventasse un luogo di sperimentazioni coraggiose sotto la direzione di Carl Hegemann e del pittore Ewald Dülberg, e che tale restasse, fino alla chiusura, con Tietjen, durante il regime nazista. Qui Jürgen Fehling mise in scena il suo scioccante Tannhäuser e il suo non meno strepitoso Der fliegende Hollander (L'Olandese volante), Gustav Gründgens elaborò un Figaro molto discusso. Inoltre vi ebbero la loro prima rappresentazione Erwartung (Attesa) e Die glückliche Hand (La mano felice) di Schönberg per opera di J.Turnau e l'opera di Kurt Weill Mahagonny con la regia di Walther Brugmann. E impossibile citare tutti gli importanti avvenimenti operistici di questo periodo. I titoli che abbiamo ricordato vogliono solo indicare in quale misura si lottò per un rinnovamento nell'ambito del repertorio operistico. Tale tendenza fu molto agevolata dal fatto che, fino al 1928, lo Stato e i comuni finanziarono abbondantemente i teatri, sicché gli esperimenti potevano essere condotti senza grandi preoccupazioni di danaro e in totale libertà dai condizionamenti economici.
Con la crisi economica mondiale tutto questo finì. Di nuovo non si ebbe altra risorsa che quella costituita da un pubblico ancora una volta di idee non certo progressiste, e si dovette mettere in scena il tipo di lavori che la gente desiderava, in primo luogo operette. Dal 1928 al '32 si moltiplicò il numero di rappresentazioni operettistiche sulle scene tedesche [22]. L'autonomia di sovrintendenti e registi venne fortemente limitata dal controllo dei responsabili statali per il teatro o dall'insediamento di funzionari che impedivano ciò che era troppo progressista. Tra costoro vi fu
Hans Tietjen, che nella sua epoca d'oro fu sovrintendente all'opera di Berlino, e vero e proprio capo dal Festival di Bayreuth negli anni dal '33 al '45.
Accanto alla nuova messa in scena di opere sperimentate, il rinnovamento del repertorio si ebbe anche attraverso un gran numero di nuovi melodrammi. Si trattava di lavori di tipo diverso, con vicende tratte da ambiti diversi. Così
Arthur Honegger trasse la sua Judith dalla Bibbia, Ernst Krenek si occupò di mondo antico, nella sua Das Leben des Orest (Vita di Oreste), ma si dedicò anche ad un'opera jazz, con Johnny spielt auf, che fu uno dei lavori di maggior successo di questo periodo.
Nel 1932 venne fondato il
Festival di Donaueschingen e con esso si ebbe in Germania una sorta di Forum per la musica contemporanea, che permise un intenso scambio di idee tra i compositori. Lì si incontrarono Igor Stravinskij, autore dell'Oedipus Rex, Darius Milhaud, che accanto ad alcune brevi opere aveva scritto anche un ampio affresco musicale, Cristoforo Colombo, su libretto di Paul Claudel, e, non da ultimo, Paul Hindemith, autore di Cardillac.
Tutti questi compositori s'influenzarono l'un l'altro e definirono uno stile tipico per quanto riguardava il ritmo, la melodia, la strumentazione e il gesto. Tuttavia il loro programma musicale rimase sostanzialmente diverso in ciascuno.

Musica e società nella Repubblica di Weimar

Un rivoluzionario del secolo scorso, che non era ancora naufragato sulle conseguenze dei moti del 1848, confessava un anno prima a quello che più tardi sarebbe diventato un suo nemico giurato:

Non sottovalutate la forza della riflessione; l'opera d'arte prodotta senza consapevolezza appartiene a periodi ormai lontani dal nostro; l'opera d'arte non può essere prodotta che coscientemente.

Chi professava una tale opinione era Richard Wagner, il destinatario della lettera era Hanslick [23].
Il Wagner di quest'epoca doveva avere poca comprensione per la confessione del suo rivale italiano, Giuseppe Verdi: «Torniamo all'antico e sarà un progresso». Nello stesso spirito bisognerà leggere anche l'espressione di François Joseph Fétis «L 'art neprogressepas, use réforme» [24] del 1830.
La fede utopistica nel progresso di Wagner, o il tradizionalismo di Verdi o di Fétis, influenzarono sostanzialmente la musica e anche il teatro musicale del XIX e XX secolo.
Nel Novecento si partì alla ricerca di nuovi mezzi musicali e la rinuncia più evidente a quelli consueti è rappresentata dalla tendenza verso la atonalità. Nella molteplicità di possibilità espressive in campo musicale recentemente scoperte, venne innanzitutto trascurata la possibilità di comunicare dei contenuti, a favore di una sorta di "gioco" con i materiali. Molti compositori e teorici musicali di fama condividevano l'opinione secondo cui «la musica non può esporre articoli di fede. Può tuttavia dare forza all'espressione di una fede, rendendola più accentuata e persuasiva» [25]. Tale convincimento ha tuttora molti seguaci. Esso trova la sua più tipica, anche se paradossale, espressione, nella frase di Schonberg:

Se si tratta di arte, allora non è per le masse! E se è creata per le masse, allora non si tratta di arte! [26].

Lo stesso sostiene anche Carl Dahlhaus:

Il compositore che, con i mezzi della sua arte, tenta di fare politica, si trova di fronte ad un'infelice alternativa: da un lato egli dovrà, per amore del fine politico, lasciare da parte quei mezzi che non risultino generalmente comprensibili. Ma questo conduce, in ultima analisi, alla rinuncia ad ogni ambizione compositiva individuale, alla "macchia" estetica del banale. Dall'altro lato egli, in maniera totalmente antitetica, non rinuncerà alle esigenze dell'arte, ma allora le implicazioni politiche non si realizzeranno per nulla nei fenomeni musicali, ed esse resteranno solo allo stato di nobili intenzioni» [27].

Entrambe le osservazioni sono di discutibile presunzione ed eludono consapevolmente il confronto contemporaneo con la cultura di massa, benché il problema venga evocato, pur se in maniera vaga; altrimenti senza dubbio non si sarebbe arrivati a tali asserzioni.
Tibor Kneif [musicologo e sociologo tedesco, nato nel 1932; libero docente universitario] e Theodor W. Adorno sono giunti alla conclusione che la musica non si trova, e non deve trovarsi, in uno spazio vuoto, in un mondo irreale senza opinioni proprie.
Nel suo saggio intitolato Widerspiegelung (Rispecchiamenti) Tibor Kneif approfondisce così questo problema:

La funzione della musica appare almeno in parte consistere soprattutto in questo, nel fatto che essa si pone in contrasto con la società, al pari delle altre arti. La sua specificità, per così dire il suo stesso compito sociale, si realizza spesso nella tendenza a non conformarsi a ciò che la circonda, ma a negarlo, a rispecchiarlo in senso negativo. In ciò la musica ha qualcosa in comune con una figura rebus: essa si modella cioè sui contorni di ciò che appare in primo piano da un punto di vista sociale, ma tuttavia non viene a trovarsi realmente lì dove lo sguardo cade inizialmente [28].

Lo stesso concetto è espresso da Adorno in quest'altro modo: «Essa [la musica] adempie alla sua funzione sociale,

[...] allorché, con i suoi propri materiali e nelle forme a lei proprie, perviene a rappresentare i problemi della società, che essa contiene dentro di sé fin nel nucleo più interno della sua tecnica. La funzione della musica in quanto arte si trova, così, in una certa analogia con la teoria sociale [29].

Quanto possano essere unite la musica e la politica, lo dimostra il movimento musicale dei lavoratori. Esso apparve in Germania verso il 1860-70 e nello Stato bismarckiano fortemente controllato, dove l'opposizione (specie di sinistra) era combattuta (legislazione antisocialista) poté porre in essere un'azione politica celata sotto le spoglie di un'organizzazione culturale. Nacque così il Lied a tesi. Con esso, come scrive Hanns Eisler, non si definì alcuna nuova tendenza musicale, ma venne affidata alla musica una nuova funzione, un nuovo contenuto, e

la storia ci insegna che ogni stile musicale nuovo non viene fuori da un nuovo punto di vista estetico, [...] ma che il mutamento viene condizionato soprattutto da un cambiamento, storicamente necessario, della funzione della musica nella società [30].

Gyorgy Lukács fa coincidere la fine dell'ascesa della classe borghese nell'Ottocento con l'inizio della sua decadenza artistica, il che appare discutibile.
I primi decenni del XX secolo segnano un'epoca di trasformazione, di passaggio. Non per questo bisogna stimare meno l'arte e gli artisti di questo periodo e darsi alla fuga nel passato del classicismo canonico. Nelle epoche di passaggio, di trasformazione, l'arte ha una sua specifica funzione, poiché essa già contiene in sé il nuovo, ciò che ancora deve arrivare.

Perciò - come scrive Bloch - chi è amico dell'arte propone che il presente venga osservato e preso in considerazione in tutte le sue opere di transizione [...]. L'interrelazione tra osservazione critica della realtà, e accettazione dell'eredità del passato, resa produttiva in quest'ottica, assume un ruolo decisivo [31].

Nell'ambito musicale, i compositori della Germania di Weimar con un più deciso orientamento a sinistra, come Karl Rankl, Josef Schmidt, Vladimir Vogel, Karl Vollmer, Ernst Maier [corretto: Meyer] e soprattutto Hanns Eisler, si occuparono delle questioni del presente. Per costoro, come per quelli che avevano le stesse loro idee nel campo del teatro o della letteratura, il naufragio della Rivoluzione del 1919 aveva rappresentato la fine di ogni speranza. E tuttavia gli studi musicologici non dicono nulla su questo difficile momento.
È di nuovo Hanns Eisler a riconoscere i pericoli di una disaffezione per la politica e a rivolgersi ai propri colleghi mettendoli in guardia.

Il musicista moderno è favorevole a qualunque conquista tecnica dei nostri tempi. Egli le utilizza. Ama le metropoli, il loro rumore, è innamorato del ritmo preciso delle macchine. Solo gli uomini, cui tutte queste cose devono servire, non lo interessano. E nella sua arte tende al più alto grado di inespressività, di oggettivazione [...]. Il musicista borghese ricerca il contenuto dell'arte e, poiché non ne trova nessuno, va propagandando l'assenza ditale contenuto quale senso e scopo ultimo della sua arte. Incapace di comprendere la situazione sociale, egli scrive una musica che si sente superiore a tutto ciò che è umano [32].

Eisler incita i compositori a lasciare dietro di sé la loro tendenza all'isolamento, a uscire fuori e ad interessarsi al pubblico, alle larghe masse e ai loro conflitti. Sono i loro problemi e quelli dell'epoca in cui vivono a fornire il materiale per le composizioni, e non un individualismo di eletti spiriti nella loro torre d'avorio.
Questo appello ad una coscienza politica ben desta non costituì nulla di nuovo per un giovane compositore, di nome Kurt Weill. Certo non fu un caso se questi, nel 1927, prese contatto con Brecht - incontro dal quale sarebbe più tardi nato il Songspiel Mahagonny. Nel 1927 Weill presentò anche, con Georg Kaiser, il lavoro Der Zar lässt sich photographieren (Lo zar si fa fotografare); lo stesso anno fu inoltre quello del venerdì nero, del crack della borsa.

Busoni nei ricordi di Leo Kestenberg [scheda in italiano]


NOTE



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