ALDO BELLONI

IL CAMPIELLO DI E. WOLF-FERRARI

DIECI ANNI ALLA SCALA
ED. TARANTOLA, MILANO 1946
pp. 15-18

CURIOSA coincidenza: in questa stagione scaligera ecco comparire insieme il goldoniamo Campiello e il gozziano Amore delle tre melarance, cioè la commedia verista e la satira fiabesca del più caro settecento veneziano... Gozzi aveva proprio preso di mira anche il Campiello quando ideò quell'Amore delle tre melarance che avrebbe dovuto dimostrare come fosse vero che le cose più sciocche riescono facilmente a ottenere il favore del pubblico, mentre in realtà pacque moltissimo perché era un altro gioiello come subito apparve persino a Schiller.
Si ricorderà che in difesa del Goldoni si era schierato Voltaire con una poesia in cui si esaltava l'arte: naturale delle commedie goldoniane. Difatti dove poteva essere trovata altrettanta efficacia rappresentativa d'ambiente se non di caratteri? E il Campiello è, in fatto di naturalezza ambientale, un prodigio. Per osservare fedelmente quella piazzetta - scrisse una volta Attilio Momigliano, augurandosi un'adatta veste musicale - bisognava farsi piccini come quella vita e guardare con occhi giocondi più che ironici. E Goldoni questo ha fatto: di qui l'intonazione sempre armonica della popolaresca commedia.
Su tutto ciò che vi accade, è stampata la fisonomia caratteristica dei campiello: fisonomia minuscola e leggera, amena e genuina, intima e varia.
Mario Ghisalberti ha cercato di rispettare questo colore e questo sapore nel suo adattamento per la musica, ma non tutta la naturalezza delle scene goldoniane è rimasta intatta. C'è, qua e là, del colore operettistico. E questo colore sfocia addirittura nello svisamento farsesco coll'assegnazione a uomini delle parti di Cate e di Pasqua: le due comari. Il balletto, poi, quel balletto che è stilo intruso per rompere la monotonia della scena unica fa davvero la classica figura dei cavoli a merenda e di l'impressione - guarda un po'! - d'un'iniezione gozzianissima, anche per le maschere, nel corpo goldoniano colmo dei colmi: l'esigenza d'ampiezza coreografica fa trasportare in scena vivande per mezza Venezia...
La musica? Prima di tutto va detto che il Wolf-Ferrari si è sempre dedicato al goldonianesimo, perchè da qui derivano le care ciprie e i nei della nuova partitura. Se non era possibile che l'italianissimo musicista venisse meno alla tipicità raggiunta e consolidata nel genere, era anche probabile che nulla di nuovo avesse da aggiungere. Le Donne curiose, I quattro rusteghi, sono nella mente di tutti. Dolci oasi di sorrisetti! Sorrisetti antichi ma finemente modernizzati; e con gustosa patina settecentesca sulle, stesse armenizzazioni più a noi vicine. Niente di straordinario, è vero; ma insomma ci si consolava di quella grazia, di quell'arguzia, di quella semplicità pur se in fondo c'era la melanconia del passo indietro al posto, del passo avanti. Anche Verdi disse «Torniamo all'antico», ma non intendeva che si facessero largo le esumazioni dirette o indirette. Intendeva un ritorno alle fonti essenziali della vera musica e ne diede prova col Falstaff, purissimo come il Matrimonio segreto e, nella stesso tempo, modernissimo. Già: perchè Verdi se prima si era opposto alle correnti moderne nel rossiniano timore che la natura italiana avesse a snaturarsi, aveva poi detto anche che non dovevano essere dimenticati «I trovati moderni, ma quelli buoni».
Il Campiello invece è proprio ancora una delle esumazioni indirette che il Wolf-Ferrari ha tanto accarezzato. C'è sempre lo spirito dell'opera buffa prerossiniana goldoniamente trasfigurato con gli ormai abusati colori etnofonici del canzonismo popolare veneziano. Ed è uno spirito che blandamente s'adagia sul passato, non lo ricrea. Perchè gli elementi antichi non vi sono complementari ma essenziali, mentre l'elemento nuovo è limitato alla ingegnosa modernizzazione delle forme; e con quelle smorfie di stile diverso che si spiano in tutti i mobili del cosidetto settecento modernizzato. Non mancano nemmeno nel Campiello amabili aderenze della musica al quadretto veneziano, ma com'erano più graziose di linee, più fresche di vernice, più ricche di specchi le sue altre operine lagunari! Qui è anche più rara l'elevazione poetica e la «causerie» musicale già tanto incline ai luoghi comuni, troppo s'impernia sopra un unico motivetto evocativo. Che su ogni scena del Campiello sovrasti la fisonornia locale si è detto. Ma parrebbe che Wolf-Ferrari abbia preso molto sul serio questa unica bussola interpretativa. Un'idea sola per tutta l'opera? E materiata canzonettisticamente? Se si pensa che i vari personaggi della commediola presentano il guaio di agire senza spicco individuale e di assomigliarsi gli uni agli altri, si intuisce come non siano rimaste al musicista altre risorse di movimento ideologico e come il Campiello si palesi in definitiva di una gaiezza smorta.
Non è valso, no, a ravvivarlo, l'allargamento dei compromessi stilistici a cui la riduzione del Ghisalberti aveva aperto il varco; e lo stesso balletto che più fa scivolare nell'operettismo la musica, non ottiene l'effetto che si riprometteva e rende anzi evidentissimo lo sbandamento della realizzazione operística del lavoro goldoníano. La meraviglia del Campiello originale sta nella naturalezza, veristica di tutte le sue scene che hanno una caricatura sola: quella di Gasparina. Il Campiello musicale tradisce questa essenzialità dilatando quasi su tutti e su tutto la caricatura: e una caricatura approssimativa, che soltanto nel terzo atto acquista tipica densità.
Il pubblico si è tuttavia sentito come rallegrare dai vispi e snelli movimenti wolf-ferrariani. Che importava se c'erano più echi che voci nei delicati disegni, nelle fuggevoli sfumature, negli intarsi 'melodici, nei temini brillanti e saltellanti? C'era almeno il conforto di un po' di sorriso e il bene di qualche, raggio di poesia tenera e sospirosa. E oggi non si può proprio dar torto al pubblico che è stufo, arcistufo d'una modernità che ha smarrito il senso teatrale. Abbiamo visto anche a Genova cosa sa fare il novecentismo malipierano. Ma basta.
In teatro occorre o il fremito o il sorriso e soprattutto il canto. il canto italianissimo. Bisognava vedere, ieri sera, come si beava il pubblico alle pur brevi e lievi e popolaresche frasette miniate dalla Favero o dalla Carosio o dalla Corradetti. Perchè si dovrebbe snaturare noi stessi? L'esecuzione del Campiello è stata magnifica. Un miracolo d'insieme come nel Matrimonio segreto sia per le voci, sia per l'azione scenica, sia per la dizione che aveva lo scoglio della pronunzia veneziana. Emerse la Favero, naturalmente, ma dolcezza e nitore di suoni profusero anche la Carosio e la Corradetti. Delicato il canto del Fort. Gustoso e colorito sempre il Baccaloni nelle epicuree vesti del Cavaliere; ottimi la Tess e l'Autori.
Un tantino ricalcati ma lodevolissimi il Nessi e il Nardi.
Tutto impegno anche la Zaccarini benchè non a posto come figura. Quanto a Marinuzzi non ci sarebbe questa volta che un elogio generale da registrare se si fosse evitato qualche squilibrio concertativo. Morbido e vivido in tutto e con squisitezze che quasi illudevano che anche nel preludietto, nell'intermezzo e nel ritornello non fosse sempre la stessa perlina che riluceva fra le argentee filagrane.