GIULIO COGNI

ERMANNO WOLF-FERRARI UOMO

INTRODUZIONE BIOGRAFICA


E. WOLF-FERRARI

CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA MUSICA

In Italia la vera personalità di Ermanno Wolf-Ferrari è ancora da comprendere. Il concetto che si è presentato più vicino alla mente di tutti è quello di un maestro ricco di vena, autore di pagine piacevoli ricavate sulle filigrane veneziane di Carlo Goldoni: un maestro dell'eleganza, della raffinatezza e del piacevole bel suono, derivato dal verismo con un bagno germanico di Mozart.
Solo chi lo conosce più intimamente, e chi lo conosce attraverso la Germania - dove per certi ordini di idee c'è più consenso - arriva facilmente a intenderne il segreto, che giace assai più profondo di quello che la gente pensi.
Wolf-Ferrari è un nemico della musica intesa come pura ricerca sonora. Non solo non lo interessano, anzi, per suo temperamento, gli ripugnano i moderni chimismi sonori, ma egli è avversario giurato di ogni chimismo in generale.
Un giorno ci diceva: anch'io riconosco a posteriori qualcosa di argentino nella mia musica; ma questo è un effetto che è venuto da sè, come conclusione di un'ispirazione: non che io l'abbia cercato.
In uno di questi suoi pensieri il maestro veneziano esprime un'idea pitagorica. Prima di insegnare ad un allievo l'armonia dei suoni, è della sua interna armonia che io mi preoccupo.
I suoni cercati per fare buon effetto sugli ascoltatori non sono il suo problema. La leggerezza dei temi che egli tocca, l'elegante parsimonia con la quale egli diffonde le sue tenui armonie e melodie per le partiture, hanno tratto tutta la critica e buona parte del pubblico in inganno.
Con questi criteri si usa spesso fare una musica leggera, che solletica l'orecchio. Anche quando una melodia, ritenuta leggera, arriva ad imprimersi nell'animo e a destarvi ripetute volte nuvole di nostalgie e di luci e ombre care, v'è certamente qualcosa di più della semplice grazia sonora o del puro piacevole in essa: v'è, segreto, un inizio di pitagoriche armonie.
Senonchè la musica di Wolf-Ferrari riempie tutto il giro dell'animo di quest'interiore armonia. Or non è molto, diceva un ascoltatore a una prova del Campiello a Roma: Quanta pace dà questa musica!
Quanta pace! è l'espressione esatta. Il pubblico si allieta in essa come calamitato di desiderio, perchè cerca sempre qualcosa che pasca interamente il suo animo e lo porti via dalle cure del giorno.
Quando le armonie non son buone e non sono pure, subentra un fastidio interiore, come per cose che non stanno insieme.
Quando la melodia musicale è soltanto una cosa piacevole, allora il godimento è grasso, e, nonostante la piacevolezza, nell'anima non c'è alcuna pace nè armonia.
Questa armonia interiore, lieve e semplice quanto volete, la musica del Wolf-Ferrari la dà invece interamente. Sussurra giù per le chiostre dell'anima, che crede talvolta di intenderla senza attenzione, come cosa leggera e fuggevole; ma ecco che ci si trova avvolti nel suo spazio sonoro e canoro, come se tutto il teatro cantasse e ne godesse. Due ore di Wolf-Ferrari sono due ore di pace, di armonioso paradiso e oblio delle cure.
Questo non accade spesso. Avviene soltanto quando l'ampia ala del genio avvolge la melodia del cantore.
Se voi avete la pazienza, essendo musicisti, di analizzare fino in fondo questa musica, che vi è sembrata - più per informazione che per diretta audizione - composta nell'intento della piacevolezza, vedrete che non v'è una nota, nè sopra nè sotto, che non stia esattamente al suo posto.
A differenza di qualche altro musicista moderno, persino grande, la cui melodia si dispiega magnifica e canora, ma il resto è semplice accompagnamento, non privo di gusto e proprietà, ma messo insieme alla meglio; nella musica di Wolf-Ferrari - sentita in orchestra o letta in partitura - se prestate attenzione, vedrete che ogni voce ha una linea: ogni suono si collega pei tramiti melodici agli altri suoni che lo precedono o lo conseguono o lo continuano sopra e sotto: per modo che niente nasce a caso, ma ogni elemento vi è come pietra preziosa, che riluce luminosità vicine e lontane. Il miracolo delle perfette armonie è in questa logica, onde nessun suono è collocato a caso o per riempitivo, ma la sapienza del movimento delle parti è sovrana.
«Ogni parte deve cantare!» - scriveva a noi un giorno il maestro in un consiglio di composizione. E aggiungeva che egli, prima di licenziare una partitura, usa rileggersi singolarmente ogni voce, per vedere se di per se stessa canti: «perchè ogni singolo strumentista deve suonare con piacere la sua parte».
A pensarci bene, quale sapienza in queste parole, il cui concetto è sembrato per lungo tempo da quasi tutti dimenticato! Esso rimonta alla segreta saggezza dell'antica polifonia, e parve coi tempi ragionevolmente sepolto con essa.
Eppure, se è vero che con l'orchestra moderna tutto può farsi, e ogni genere di complesso sonoro può suscitarsi, nel quale ogni singolo strumento si perde come l'onda nel mare, in realtà ogni singola voce strumentale che dentro vi canta è una forza che di per sè si leva a volo per gli spazi dell'aria, e mette la sua nota nel grande concento. E se questa forza s'accende e si spegne a caso come un camminatore che non fa bene i suoi passi, o, pur osservando una sua linea, non ha in se quelle pitagoriche armonie fra le note del suo concento, che gli antichi Greci intendevano - quei rapporti onde melodia e armonia sono una cosa, e fra nota e nota corrono mirabili proporzioni di numeri - se queste chiostre di canti e controcanti non consuonano nelle singole voci, come consuonerà poi l'insieme?
Ora questa interiore rispondenza altro non è, contata sulla carta, che l'aspetto esteriore dell'interiore pace e armonia della chiostra dell'anima e un congiungimento, pei tramiti dell'etere, alle grandi armonie cosmiche.
L'anima del singolo cantore china la testa, ascoltando le voci che vengono fuori come una filiazione innumerevole, voce da voce, canto da canto.
Allora avviene che anche le cose più lievi e gioconde divengono note dell'eterna armonia: e non sempre occorre inforcare il caval di Rolando per varcare gli spazi: i celesti tramiti sono sopratutto di chi ad essi s'adegua, umilmente, placidamente.
Se ora voi considerate la forza di questo, che siamo venuti dicendo, comprenderete anche quel che fin qui a voi e a tutti è sembrato forse impossibile: come il lieto e giocondo Wolf-Ferrari, che non mostra musicalmente problemi cosmici, sia tanto interiormente visitato e tormentato da problemi metafisici nella sua vita reale, e tanto si accosti ai libri di filosofia.
Egli ha tentato due volte, anche nella musica, di dar sfogo alle sue interiori riflessioni e emozioni sui problemi ultimi del mondo, che tanto lo occupano. Una volta, giovanissimo, nei suoi commenti orchestrali alla Vita Nova, ove espresse il sacro tremore davanti allo sbigottimento della morte. Un'altra, nell'opera Das Himmelskleid (La veste di cielo), scritta da lui stesso in lingua tedesca, e rappresentata in Germania. Una storia fantastica, di carattere fra l'indiano e il nordico, in cui si pongono equivalenze cosmiche fra macrocosmo e microcosmo, al fondo delle quali la cercata veste celeste, che deve dare la felicità alla povera, creatura, altro non è che quel vestito interminabile che tessono, con le loro forze vergini, la luna, il sole e le stelle.
Wolf-Ferrari è un nostalgico della natura e della sua ingenuità incontaminata. Tutto ciò che viene dall'uomo - - dall'uomo moderno, attuale - gli sembra viziato dal malo consiglio, dalla frode dell'intelletto, dall'egoismo prevaricatore, che spegne, com'egli dice in una sua pagina felice, il bambino che è in noi dalla nascita.
Restare nell'ingenuità dei contatti cosmici, senza spezzarli col buio sguardo dell'egoismo, che adopera l'astuzia dell'intelletto a suoi fini pravi, è per lui il principio e la fine di ogni sapienza e filosofia. L'essenza del genio è il bambino, che in esso ritorna alle origini.
Anche quando meno sembra, anche quando l'uomo, battendosi il petto con ostentazione, si ammanta di scienza, di sapere e di nozioni, di forze spirituali e di sapienza, è per lo più di nuovo, sotto una forma o sotto un'altra, questo satanico egoismo che taglia le radici, e attraverso l'opera dell'intelletto, si impossessa di lui. È in fondo un crampo: vale a dire una contrazione, la quale interrompe d'un tratto la pace dell'armonia cosmica, e getta l'uomo per sempre nella battaglia delle contrastanti opinioni e interessi, che non trovano più il verso di ritornare insieme, anche se l'uomo, preso ormai nel gorgo, cerchi tuttavia di districarsene con onesta e fedele tenacia.
Ora, il genio è invece appunto il miracolo del ritorno all'armonia per forza d'amore. In questo principio vive il Wolf-Ferrari e con questa fede traccia le armonie mirabili delle sue note gioconde. Il maestro usa perciò dire e ripetere che il «genio è un dovere».
Per noi, che abbiamo ricercato, come meglio potevamo, l'essenza profonda e fondamentale del genio nel nostro Segreto del Genio, è argomento d'orgoglio il sapere che egli ha fatto a questa nostra fatica l'onore di leggerla sette volte. Ciò significa, se non erriamo, che noi possiamo intendere anche l'anima del maestro assai meglio di qualche altro.
L'argomento giocondo e borghese delle sue commedie musicali trae in inganno, come per Mozart, la mente del pubblico, abituato per lo più a un concetto crasso, secondo il quale la vita e l'intenzione interiore dell'arte con il suo contenuto materialmente inteso, debbono coincidere.
Pochi intendono come questo ricorrere alla giocondità spensierata della commedia sia in me un motivo romantico! - ci diceva un giorno il dolce maestro, alludendo al suo volgersi ad argomenti giocosi proprio in uno dei momenti più gravi della vita europea. In quelle materie il maestro trova appunto la fuga e la consolazione dal tormento discordante della vita reale. E ciò vale non solo pei contatti suoi con la realtà circostante, ma più ancora pel suoi rapporti con tutta la vita in generale.
L'esistenza è per lui - come in fondo per tutte le anime grandi - un urto. Quindi, un tormento: detto nel modo più chiaro e preciso, una collisione quasi continua delle armonie interiori, che susurrano nella solitudine del grande spirito, contro gli spigoli delle disarmonie del mondo.
In questo processo l'animo superiore finisce sempre per chiudersi in una posizione di difesa. «Un sacro egoismo» diceva egli un giorno.
Chi conosce il suo volto, in fondo molto triste, pensoso, e, nella sua sana e vegeta bontà, dolcemente accigliato - i suoi occhi singolarmente fosforescenti sotto l'ampia fronte ti guardano demonicamente fissi dal fondo delle occhiaie - intende facilmente il conflitto della sua anima. Nessuna fotografia (salvo forse il quadro di Ettore Tito, nella realtà, non nella riproduzione fotografica) rende questa paziente fissità del suo sguardo, che scorge sempre altri orizzonti dietro e avanti a sè, oltre quello, distratto, che gli è per caso davanti.
Anch'egli è, come tutti i grandi, un eterno distratto, e sempre nelle nuvole delle sue più vere visioni interne, mentre tutti credono che sia con loro.
Ma in realtà non è mai se non con se stesso.
E solo attraverso questa sua interiore conciliazione è in reale rapporto d'amore con tutto il mondo.
Queste parole - non sono un compiacimento letterario, onde tracciare un quadro romantico del nostro eroe: ma corrispondono, anche troppo minuziosamente forse, alla sua realtà più quotidiana e fotografica.
Il suo volto è, nonostante la tensione interiore, dolcissimo, e pieno di quell'armonioso silenzio, che sta dietro l'occhio di coloro che hanno una intensa vita interna e sono tuttavia in pace con se stessi.
La sua bonomia, che non è mai crassa, ha anch'essa sempre il tratto armonioso del sano uomo della natura, fondamentalmente e interamente onesto, che dice, con se stesso e con gli altri, sempre ed esclusivamente ciò che pensa, sia questo cosa piacevole o spiacevole; è dotato di un'ottima educazione, ma non conosce affatto il complimento per il complimento, nè nessuna di quelle forme, anche se minime, di accento o d'inflessione compiacente, che sono generalmente proprie d'ognuno.
La sua persona, modesta, un po' chiusa e timida, respira un'assoluta ma dolce sincerità.
È una bontà ritrosa, che Guarnieri definì un giorno «bontà inesorabile», aggiungendo che essa fa involontariamente sentire ai mediocri il peso della loro mediocrità.
Dietro i suoi occhiali egli guarda l'interlocutore bonario, come un nonno i suoi nipoti.
In questa sua ritrosa bonomia v'è un elemento che interamente la soffonde, e le pone continuamente dolci impedimenti: è la timidezza. Essa è la più assidua e affettuosa compagna del suo silenzio interiore.
Dolce e affezionato com'è, te lo vedi venire incontro a volte balbettante, che stenta e non trova per alcuni secondi i suoni delle parole; e ti guarda quasi come a chiedere venia, mentre cerca, tentando, di istituire il contatto. E se ciò non riesce subito, ti dice alcune parole, che sono buone nell'intenzione, ma, non esternando interamente il suo pensiero, ti suonano aspre e mai volute: pezzi tronchi di idee interiori, che non si sono ancora intonate all'interlocutore. E una volta ti può anche succedere di domandarti, in quei secondi inquieti, se egli intenda degnarti della sua benevola conversazione, o tu non gli abbia per caso disturbata la quiete personale.
Ma poi tutto si schiarisce e ci si accorge ancora una volta della grande bontà del pacifico orso; il quale ha i suoi sogni interiori, e non puo subito rivelarti quel che pensa, ma comincia, senza volerlo, a mettertene a parte, in una conversazione lenta, monotona di bonarie inflessioni veneziane, di vocaboli tentati e non detti, di timida semplicità, ma ricca sempre, più che in moltissimi altri grandi, di problemi, di soluzioni impensate, di mezze confessioni interiori, di un continuo slittare al di là delle realtà quotidiane nei mondi del sentimento e dello spirito. Le parole, pronunziate quasi sempre a mezza voce, intercalate di silenzi, sembrano dover deporre spesso le loro spoglie realistiche, per dir cose che egli intravede ma non sa dire con sole parole. Che queste sono un mezzo d'espressione del pensiero fattosi concetto e cosa, e il pensiero deve faticare, per ritirarle verso i silenzi interiori. Ne nasce quella calda intimità, un po' timida, un po' contenuta, al di là degli schemi, delle leggi e delle bravure della conversazione comune, che è propria di molti grandi.
Per il Wolf-Ferrari giuoca un ruolo non indifferente anche il suo venezianismo, complicato dal suo vivere continuo in Germania e dal poco uso quotidiano della lingua italiana.
Dove vive Wolf-Ferrari? È una domanda che ci siamo sentiti fare da quasi tutti, anche dai più colti musicisti. Egli ha una vita così ritirata, che, nonostante il suo nome famoso, nessuno sa dove abiti. I più credono le stia a Venezia. E scambiano per suo figlio l'altro Ermanno Wolf-Ferrari, direttore d'orchestra e ottimo allievo di Guarnieri, che ne è invece il nipote, figlio di Cesare Wolf-Ferrari, già professore di arpa al Conservatorio di Venezia; quando non si arriva addirittura a credere che il maestro usi qua e là salire egli stesso il podio.
Il podio crediamo invece che non l'abbia mai salito. Egli è un compositore puro, e non ha mai accompagnato la sua attività con quella dell'esecutore.
L'unica sua attività diversa fu quella di Direttore del Conservatorio Marcello di Venezia, ufficio che egli ottenne giovanissimo e occupò per sette anni, insegnandovi anche l'alta composizione: ove ebbe fra gli altri allievo Adriano Lualdi.
Ma questa cattedra la lasciò presto, perchè gli sottraeva troppo tempo.
Solo oggi, dopo tanti anni di vita interamente privata, ha accettato, in seguito a nomina del Führer, la cattedra di professore di composizione al Mozarteum di Salisburgo.
Vive attualmente a Planegg presso Monaco. Planegg è un villaggio situato nei dintorni della capitale bavarese. Non abita proprio dentro il villaggio, tna a distanza di qualche chilometro, sopra un'altura, in un meraviglioso parco di sua proprietà, tagliato in mezzo ad una foresta, ove egli possiede una grande, silenziosa e ritiratissima villa.
In quel silenzio passa tutto l'anno, solo, con la gentile signora e la sua solitudine. Infrangono il silenzio le urla frequenti di quattro immensi e feroci cani di razza, che assalgono letteralmente il visitatore che vi capita, non risparmiandogli, se il maestro e la signora non sono pronti ad allontanarli, un certo fuggevole spavento.
Là, in quella solitudine meravigliosamente verde, il maestro sogna e compone.
Per il parco immenso cantano gli uccelli in primavera e in estate. Una frescura vi si distende ampia e riposante. Uno spirito eroico di meditazione, di eremo, di riflessione metafisica v'è sospeso, grave e mesto.
Lì nascono le gioconde trovate veneziane del maestro, che sul primo mattino, quando l'aria è più vergine e argentina, e il silenzio è ancora soffuso sul mondo, apre le sue finestre e incomincia la sana opera d'artigiano al bruno pianoforte, sù, al piano superiore, dove egli ha una stanza sotto il tetto sempre chiusa a chiave, ancora più lontana dagli ultimi rumori del mondo, tutta per sè, interamente nuda, con solo qualche seggiola e poltrona di vimini oltre l'istrumento. Sull'istrumento sono le sue note più fresche, di ieri, di ieri l'altro.
Sulla tastiera, fissata ai lati, corre una tavola di legno grezzo. Così il maestro, che non ha bisogno dell'istrumento per comporre, può tuttavia suonare e scrivere nello stesso tempo, tenendo le mani quasi sullo stesso piano.
Nello studio c'è un'altra scoperta, che trasmettiamo qui al lettore, senza assicurarlo se esista o no una patente di privativa. Si tratta di un procedimento curioso per lavorare a tavolino seduti in una bella e soffice poltrona: è una tavola di legno con solo due gambe mobili all'estremità di uno dei lati: le due gambe vanno in terra, e il maestro appoggia il lato opposto della tavola contro i bracci della poltrona, inclinando l'angolo secondo il comodo. Possiede inoltre, per una migliore riuscita del ritrovato, una poltrona con i braccioli scanalati come la chitarra: ma anche senza questo accorgimento il dispositivo funziona benissimo.
Al piano inferiore c'è invece, oltre le altre stanze, una grande sala, dalle cui pareti sorridono bei quadri del padre del maestro, Augusto Wolf, che fu ottimo e apprezzatissimo pittore badense del secolo passato, specializzato in copie dei quadri italiani per le grandi gallerie di Germania; il quale appunto in uno dei suoi lunghissimi soggiorni veneziani sposò Emilia Ferrari del buon popolo della laguna. Nel centro della sala campeggia, a lato del grande pianoforte, un enorme getto della testa del David di Michelangelo in grandezza originale.
Dalla pace nascono le sue musiche: e pace portano all'anima degli uomini.
Lassù vive il mite maestro in solitudine e ritiro la gran parte dell'anno. I ricordi lo aiutano a combinar le sue molte note, che molciscono l'animo con aria italiana mossa da movimenti mozartiani e viennesi.
Usa comporre lunghissimi brani di musica e persino atti interi valendosi della sua prodigiosa memoria, senza segnare una nota: tuttavia non suona mai a memoria nè cose sue nè d'altri.
***
Che cosa medita e che cosa fa il maestro in quell'alta solitudine, ove egli si sente così bene? Musica non si può far sempre: lo dice egli stesso. E allora, quando non fa musica, si volge a quei pensieri che sono più affini allo spirito della musica, perchè anch'essi meno si richiamano alla realtà oggettiva e concettuale del mondo. Le meditazioni filosofiche permettono di salire verso le zone più astratte e universali dell'essere, cioè verso la sua musicalità generalissima, senza passare attraverso quelle cose e quegli oggetti, da cui i concetti bensì nascono, ma poi prendono il volo verso le solitudini che assemprano le cose nell'universalità finale.
Ora il Wolf-Ferrari è l'uomo più inadatto della terra alle realtà terrestri.
«Fino a 40 anni (cioè fino allo scoppio dell'altra guerra) ho vissuto come un bambino» - confessa egli stesso.
È necessario sapere quel che ciò vuol dire per lui. Chè in lui vive quell'eterno fanciullino, che è di tutte le anime che ritornano, nella creazione, ai primi mattini della vita. Non è forse l'armonia poetica il ritorno delle cose, e quindi dell'amma in cui vivono, all'estrema loro freschezza prirnordiale?
«Ritornerò giovane a 60 anni, come ritornai fanciullo a 26» - dichiarò Wolf-Ferrari, quando stava per comporre a Roma, in un piccolo appartamentino, e rimanendo quasi sempre disteso per una lunga malattia di cuore, il Campiello.
Il genio vive una più volte rinnovata giovinezza - diceva il Goethe, che di ciò sapeva assai.
Senonchè il Wolf-Ferrari appartiene a quella più esigua schiera di umani, che sono veramente e per intero nati fanciulli: e che nella loro vita diurna e e normale non si domandano di solito nè donde sono, né di dove le cose vengono a loro.
In una beata pigrizia, che lo difese dalla rottura dell'armonia, il Wolf-Ferrari riconosce di aver vissuto per molti anni cullato da questo e da quello, senza pensare nè al dove nè al quando, nè agli infiniti problemi pratici della vita. «Qualsiasi cosa, anche una valigia, mi veniva porta, se io la chiedevo!» Perchè tutti provavano piacere a favorirlo in questo suo stato di beatitudine, e insieme, confessa, a insegnargli qualche cosa.
Ma anche oggi - non sappiamo come fosse precisamente ieri - è un fatto che il maestro fa quest'impressione di fanciullo. Anch'egli sembra, a chi lo conosce, (se non fosse qualche lato più sordo e pessimistico della sua anima, smagata cogli anni dagli innumerevoli incontri ingrati) non avere ancora spento in sè quel bambino, di cui parla ripetutamente nei suoi pensieri.
Chè in lui non c'è vestigio di furbizia: neanche un segno che ne guizzi dall'occhio o dal gesto. Egli è un uomo perfettamente ingenuo. La furbizia, gli avvertimenti e le avvedutezze necessarie nella comune vita pratica gli fanno a volte tanto male, che ne soffre per giorni: e ci ragiona sopra, traendone deduzioni metafisiche, come se si trattasse di cose ricche di gravissime conseguenze per i destini del mondo.
E lo sono infatti, ma per tramiti lontanissimi, come sa la coscienza cristiana e qualche sparsa anima solitaria.
Sulla casa e sugli affari del maestro veglia, reggendone tutta la compagine, la fedele compagna, una forte e aitante bavarese, nei cui occhi bruni brilla un'intelligenza eccezionalmente penetrante e perspicace.
Questa bruna donna germanica, sportiva, esuberante di energia e di forza vitale, pronta a cogliere, nello sport e nella vita, l'immediatezza della situazione, è la perfetta antitesi del maestro, che perciò le si affida, come a nessun'altro. Essa lo difende, lo guida, lo cura, e tiene nelle sue mani tutta l'amministrazione.
Si racconta che il maestro non porta mai con sè che pochi centesimi; e quando ha bisogno di qualcosa, la chiede a lei. Fenomeno tuttavia non rarissimo presso gli artisti di Germania.
Ma con questo egli può dar dietro indisturbato alle sue meditazioni e alla sua filosofia. Sembra difficile che l'ingenuità del fanciullo si accordi con l'estrema accortezza della logica filosofica. Ma anche di filosofie ve ne sono di più specie: ed è noto al volgo, che, quantunque i filosofi siano i maestri del ragionamento, la loro realtà effettiva è in molti casi così ingenua, che essi passano per astratti, impratici e acchiappanuvole.
La filosofia infatti delle anime mistiche, assetate di veri universali, conduce, sul filo del ragionare, in remotissime zone, dove non s'ode più alcun rumore del mondo. Ed è quella che cerca l'artista Wolf-Ferrari. Egli non cerca la filosofia per il piacere della tecnica filosofica: ma per argomento di meditazione e libro di preghiera.
Si ripercuote in lui così una disposizione di lunghe generazioni di antenati. I quali furono tutti, fino a suo padre, pastori evangelici -in vari paesi e terre della Germania. Il capostipite si chiamava Sebastiano, nacque l'anno di Bach, e aveva una spiccatissima rassomiglianza fisica col grande di Eisenach. Questa somiglianza, che consiste sopratutto in una mossa e taglio del volto, si è perpetuata fino al maestro: e con essa per certo una austera e, per così dire, bachiana disposizione interiore. È dal preludio e fuga in mi bemolle del clavicembalo ben temperato che il giovanetto Ermanno ebbe la definitiva rivelazione della sua vocazione musicale. Da quel giorno. che, verso il calante crepuscolo, se lo suonò e risuonò come in estasi, abbandonò ogni amicizia e ogni altra passione, fu i in solitudine, egli dice, come se fosse andato a farsi frate, e giurò di diventare musicista per la vita. Urtò così nella volontà del padre, il quale, pittore, aveva e mantenne fino alla morte la singolare idea che con la pittura si facessero dei soldi, ma con la musica si morisse di fame: e scrisse al fuggitivo Ermanno: «avevo sognato che tu divenissi un pittore ricco, e invece finirai musicista pallido!»
In questa bachiana austerità di vita e di pensiero, soffusa tuttavia di una continua bonomia, il Wolf-Ferrari ha, come più fedeli compagni, accanto a Bach e ai maestri viennesi, i filosofi.
Di Bach egli possiede l'opera completa edita dalla Bach-Gesellschaft: e da quest'opera immane trae la sorgente più profonda della sua vena. Una sorpresa per molti italiani che reputano leggera la sua musica: non per i tedeschi, che ne sanno ormai concordemente la siderale purezza. Ma i tedeschi hanno il grande esempio di Mozart, e intendono quanto la musica del Wolf-Ferrari sia ingenua - cioè sommamente geniale - anziché facile e leggera.
Altro suo venerato nume è Riccardo Wagner. Nuova sorpresa: ma non più tanto, se si pensa quanto egli, nella sua pura ingenuità, adori le cime, cerchi ovunque, con religione, la vicinanza dell'istinto e dell'istintiva natura, e la ritrovi con adorazione sopratutto in quelle anime grandi, che hanno un senso assolutamente religioso della vita e dell'esistenza.
Un'anima religiosa, come il nostro, adora, attraverso i più differenti stili, tutte le più religiose e oneste anime del mondo, vicine a Dio: da Wagner, a Michelangelo, a Bach, a Bruckner.
Ed ecco il ponte che lo conduce alla filosofia.
Ignota a quasi tutti - che conoscono soltanto la sua musica - la passione per i filosofi lo ha accompagnato durante tutta la vita.
Schopenhauer e Nietzsche furono i fedeli compagni della sua giovinezza: da essi apprese il senso divino dell'esistenza, e i divini sensi della musica.
Per coloro che reputano la sua arte frutto di anima più superficiale di quelle che gonfiano per le orchestre del mondo trombe e tromboni, valga questo episodio, che il maestro racconta.
Un giorno Giacomo Puccini domandò a Wolf-Ferrari perchè scrivesse sempre commedie musicali, e indugiasse a misurarsi col dramma. «Perchè il dramma mi fa troppo duramente soffrire: e io non so soffrirci dentro!» rispose timido il maestro. E il lucchese bonariamente di rimando: «Col tempo ci si abitua!»
Per uscire dall'esistenza, che è dolore, il Wolf-Ferrari non ha, schopenhaueriamente, che la musica e la filosofia.
Domandarsi a quale corrente filosofica egli appartenga, sarebbe porre su di lui un problema tecnico e intellettualistico, da cui egli per natura rifugge.
Egli è nemico di ogni scuola, separazione, partito preso e intelletto separante.
Ama la filosofia per quanto di serenità dà al suo animo; serenità che non dànno, anche nella filosofia, se non i grandi filosofi, i vasti spiriti solitari.
È seguace naturalmente degli indirizzi platonici e idealistici, poichè non si può cercare consolazione vera nel materialismo e nel semplice positivismo empirico.
Anche per lui, creatore, la materia non vive veramente se non riassunta nella grande sinfonia dell'amore, nel grande bagno dello spirito creatore. Anche per lui luce e suono sono soltanto le epifanie dell'amore divino. Spirito sinfoniale, è il senso sinfonico della realtà superiore dell'esistenza liberata che urge in lui.
Perciò egli cerca fra i pensatori grandi quelli più ricolmi di divini sensi, i più saturi di vita totale.
Fra i moderni e viventi ha una grande venerazione per Giovanni Gentile, che egli adora e ha studiato e studia amorosamente, dacchè lesse con grande trasporto la di lui Filosofia dell'Arte.
Due spiriti dolci e sovrani si sono così incontrati nella fede musicale dell'unità, nel grande amore che tutta riassume perennemente l'esistenza.
Non è utia fratellanza di teorie: che specificamente di questa o quella teoria non vedete - nei pensieri che seguono - alcun vestigio. È una fratellanza di natura musicale, di tono, di spiriti.
Al di là di questa o quella teoria, anche Giovanni Gentile, nella sua irruente e dolcissima anima, verso altro non tende, in ogni minuto del suo pensiero, che alla restaurazione nell'atto di questa unità sinfoniale del tutto. Da questa fede nella divina unità fondamentale dello Spirito egli trasse sempre la forza della sua predicazione, e il fascino sereno della sua armoniosa parola.
Il Wolf-Ferrari ne fu subito attratto. Ma ciò non vuol dire che egli ne sia un seguace di scuola. Egli adora, ovunque vede il bello.
Le parole del Gentile [cfr. INDEX HOME PAGE], apposte in testa a questo volume, sono, per la loro autorità, il miglior commento al valore di questi pensieri. I quali, come ha detto giustamente di recente Augusto Guzzo, sono simili alla sua musica.
Il lettore vi risentirà l'anima del maestro intera, e insieme vi troverà la chiave e il perchè del suo stile e del suo comporre.
E i giovani musicisti vi troveranno, in poche righe, insegnamenti preziosissimi, i quali varranno a completare i loro indirizzi oggi così ricchi e molteplici di ardui problemi, ridonando a taluno freschezza e nuovo contatto con le vere eterne sorgenti di quella grande creazione, che solo ha forza vitale di muovere veramente, e di trapassare i secoli, e che molti oggi invano onestamente ricercano, incapaci a ritrovarla, deviati come sono dall'idea che tutto si trovi esclusivamente per via di cultura e di intelletto, e ignorando che tutto questo provvidenziale sviluppo della tecnica non può essere che un mezzo: le fonti ispirative vanno cercate non in esso, ma altrove.
Noi ci auguriamo che questi scritti di un maestro, che è veramente maestro di vita prima ancora che di tecnica, vadano per le mani degli uomini di buona volontà, e rechino loro i tesori di un'esperienza interiore, che non ha facilmente l'eguale, nè fra i giovani, che tuttavia cercano e spesso non trovano, nè fra i più anziani, per lo più preoccupati di problemi, i quali non sono i più adatti a favorire quel libero sviluppo delle sorgenti interiori, che è il momento veramente decisivo di ogni forte opera creatrice.