RAFFAELLO DE RENSIS

DI NUOVO A MILANO

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A Venezia, tanto per fare qualche cosa, ideò la fondazione di una Società d'artisti di tutte le arti, di cui egli soltanto era musicista. Lo scopo non era ben precisato, ma dalla comunione e dall'affratellamento poteva derivare qualche vantaggio all'arte, come entità intuitiva. Egli organizzava ed animava, ma offri la presidenza allo scultore Achille Tamburini. Per sua sede la Società occupò tre ambienti originialissimi, l'uno soprastante all'altro, nel Chiostro dei Carmini; mancavano le scale ad unirli e vi adattarono tavole alla meglio, - gl'intonachi erano rovinati e cadenti, ma sulle parti superstiti il pittore Brosch e Pieretto Bianco dipinserco frammenti di affreschi, atti a simulare la preesistenza di antiche opere d'arte.
Wolf-Ferrari, pertanto, non trascurava la musica, e compose una dozzina di pezzi da camera. Anzi gli venne in mente di spedirli a dodici editori diversi, e non per ischerzo: Purtruppo lo scherzo riuscì in pieno, poiché tutti e dodici gli editori rinviarono i pezzi indietro. Per colmo l'editore che rinviò il Trio vi aggiunse un bollettino di sue pubblicazioni invitando il destinatarlo a comprar lui della musica. Il caso, qualche anno dopo, si dimostrò più burlone del compositore perché quel Trio fu acquistato e pubblicato proprio dal medesimo editore che -certamente senza esaminarlo, - lo aveva respinto.
Si dispose alla composizio,ne di una seconda opera, meglio scelta di tono e di personaggi che non la prima, traendola dal noto proverbio di De Musset, Les marrons du feu, e intitolandola La Camargo. La sceneggiatura l'aveva fatta lui, e Maria Pezzè-Pascolato aveva dato ritmi e rime.
Senonché, compiuto il primo atto, la interruppe irritato. Era venuto a sapere che dello stesso argomento s'era servito il maestro napolitano Enrico De Leva, e la Casa Ricordi aveva acquistata l'opera.
Questa nuova disdetta lo afflisse non poco, ma una graziosa lettera del Conte Lurani sopravvenne a rincuorarlo.
La lettera gli proponeva di tornare a Milano per dirigere una Società corale tedesca, che richiedeva un maestro che non solo sapesse il fatto suo, ma conoscesse perfettamente la lingua tedesca. Il compenso di lire cento mensili non era incoraggiante ma si trattava di poca fatica e di poche ore alla settimana. Avrebbe, sicuramente, trovato da far altro, ed in tutti i modi rientrava nella sede centrale del mercato musicale, ritrovava autorevoli amici e, prima o poi, qualche uscio si sarebbe dischiuso.
La massa corale era formata di elementi della colonia tedesca e svizzera - professionisti, impiegati, industriali - ai quali spesso si aggregavano gentiluomini e artisti italiani, tra cui il Conte Lurani, il Marchese Stanga e il maestro Terrabugio. Di solito si cantavano canzoni popolari, a scopo di svago e diletto, tanto che la sede della Società sembrava adagiarsi comoda nella sala superiore di una Birreria.
Wolf-Ferrari dapprima s'adattò al modesto programma, ma in seguito volle estenderlo ed elevarlo sino ad insegnare madrigali cinquecenteschi e cantate di Haendel e Bach. I due concerti pubblici annuali si facevano nella Sala del Conservatorio, e richiamavano moltissima gente.
Tentò pure di allargare la compagine con elementi italiani, a fine di trasformare la Società in internazioinale; ma incontrò ostacoli e dovette rinunziarvi.
Frattanto, come aveva desiderato e preveduto con l'aiuto specialmente della Contessa Lurani, poté ottienere di dar parecchie lezioni di canto e di composizione presso famiglie dell'aristocrazia, in modo da non pesar più sui debole bilancio paterno e da prolungare il soggiorno milanese.
Conduceva vita laboriosa, serena, fiduciosa, guadagnando sempre più la stima degli ambienti artistici e mondani. Nel leggere al pianoforte e nel cantare aveva acquistato una maniera sua propria, tutta facilità ed eleganza, che gli accrebbe le simpatie e le richieste generali.
Ai primi del 1897 capitò la incredibile ventura: quella di offrire un'audizione dei suoi pezzi da camera nientemeno chie in casa di Giulio Ricordi. Gli fu prezioso e fraterno collaboratore, il pianista Ernesto Consolo, e tra i presenti varie personalità, compreso Boito, che continuava a prediligerlo; c'era pure Giacomo Puccini, fresco e trionfante per il successo della Bohème.
I complimenti e gli auguri abbondarano; sembrarono perfino schietti... ma nulla più. Le porte di via Omenoni non si schiusero.
Frequentava con una certa assiduità il teatro di prosa. prevalentemente le Compagnie di Ferravilla e di Zago;. questultimo lo aveva ammirato fin da bambino. E l'amore per la commedia lo portò a studiare - giacché non si eseguivano - gli spartiti del Matrimonio Segreto, di Giannetta e Bernardone, della Serva Padrona e della Cenerentola: era il tipo di opere verso cui sentiva una particolare attrazione.
In questo tempo scoppiò il temporale straussiano. Wolf-Ferrari ascoltò e studiò Don Chisciotte e Così parlò Zaratustra, che andavano suscitando gli entusiasmi dei giovani e delle folle, e quantunque non gli sfuggissero i nuovi orizzonti tecnici, rimase tra ammirato ed irritato. Ad uscire dal suo stato di turbamento venne in buon punto l'occasione di risciacquarsi nelle acque terse del Falstaff, di cui Giulio Ricordi gli aveva rilasciato addirittura il prezioso autografo. Delizia degli occhi e della mente! Dinanzi a quel portentoso documento, come dinanzi ad un simbolo, sacro provò una dolcezza confortatrice ed infinita.
Un'altra passione lo riprese, nobilissima tra tutte ed avvertita fin dalla prima giovinezza, per la Divina Commedia. Non passava giorno che non ne leggesse e commentasse un canto, abbandonandosi estatico nielle zone superiori dello spirito. Anche La Vita Nova lo interessava ed avvinceva, tanto che, in un momento d'ispirazione, diede suono al sonetto Negli occhi porta la mia donna amore, che Romain Rolland, allora a Milano, ammirò domandando una copia all'autore.
Questo sonetto puà considerarsi il primo germe del futuro vasto componimento di Wolf-Ferrari, tratto dal «mirabile libello».
Le rappresentazioni della Cenerentola di Rossini ai Filodrammatici ridestarono nelle sue vene il microbo del teatro, non peranco scomparso. Non pensò più alla spiacevole rinunzia di Camargo per la coincidenza con altra opera sul medesimo argomento; non pensò ad un Tartufo, appena abbozzato, e abbandonato per la stessa ragione; pensò che la vecchia favola del Perrault meritasse una nuova veste musicale e una nuova interpretazione.
Egli la vedeva con occhi diversi, con intenzioni più libere e romantiche, come a traverso le illustrazioni di Doré e Dalbono. Tracciò in questo senso le linee del libretto, ed affidò la versione poetica a Maria Pezzè-Pascotato. Vi si buttò dentro nonostante la gloriosa precedenza; diede ali alla fantasia frenetica; riversò sul pentagramma tutto lo scibile conquistato; un fiume sonoro straripò da tutte le dighe; non considerò le distanze e le proporzioni; dimenticò gli ammonimenti cimarosiani e falstaffiani.
In tale foga compì il primo atto e fu tanto contento di sé, che si precipitò a proporre l'opera a Ricordi. Questi freddamente osservò: «Ho preso la Manon di Puccini e c'era quella di Massenet; ho preso la Bohème dello stesso Puccini mentre era annunziala quella di Leoncavallo: se prendessi Cenerentola, quando so che Edoardo Sonzogno ha già acquistata l'omonima di Massenet, il mio avversario in editoria potrebbe legittimamente supporre che io facessi per sistema e per turbargli i sonni, ciò che assolutamente non è.
Questa volta Wolf-Ferrari si ostinò. Gli dispiacque il rifiuto perché era sicuro che Ricordi lo guardasse di buon occhio in considerazione della evidente protezione boitiana ma ormai la penna correva spinta da una forza irresistibile e non intendeva arrestarsi, come era avvenuto in circostanze anteriori.
Correva tanto che, tra una sosta e l'altra della interminabile partitura, per cambiar metro, pose mano ad un oratorio, Sulamita, sul testo biblico del «Cantico dei Cantici», per soli, coro e orchestra, nella speranza di farlo eseguire dalla sua Società tedesca.
Ma non fu possibite per difetto di buoni solisti.