ERMANNO WOLF-FERRARI


PENSIERI SPARSI
[under construction]

CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA MUSICA
TICCI EDITORE SIENA - pp. 107-127

I critici si sbagliano necessariamente più spesso del pubblico perchè giudicano da singoli. E il singolo assai raramente sa dimenticare il proprio arredamento mentale, al contrario del pubblico, il quale, trasportato dal sentimento che l'opera d'arte gli infonde, si lascia trascinare fin là dove non vi sono più arredi; d'altronde il pubblico non ha che da dire un sì o un no. subito. Esprimere il proprio giudizio con dei concetti è ben più difficile.
E quella Sinfonia di Haydn! Che magnifica interpretazione!
- Scusate: conoscevate voi già quella Sinfonia?
- Mai sentita.
- E allora come fate a distinguere la composizione dall'interpretazione? (Sentito colle mie orecchie).
DUE CATEGORIE DI CATTIVI DIRETTORI D'ORCHESTRA ED UNA SOLA DI BUONI
Se dovessi in poche parole descrivere le esperienze da me fatte sentendo dirigere la mia stessa musica (e credo che nessuno possa giudicare bastonate e carezze meglio di chi ne abbia ricevute), dovrei dire che i direttori d'orchestra cattivi mi si dimostrarono di due specie:
1) Il noioso. È quel tale direttore d'orchestra per il quale tanto il forte che il piano diventano mezzoforte, l'adagio andante, e il presto appena un allegro. Il suo ideale è, che tutto sia possibilmente eguale e di mezza tacca. Paura dei contrasti, del deciso in genere. Faccia senza espressione, discorso senza inventiva.
Ad un tale, che durante una prova nel teatro in ombra mi portava alla disperazione col suo modo di dirigere, misi amichevolmente una mano sulla spalla, e gli diedi il tempo con la pressione di un dito: nessuno se ne accorgeva meno lui: l'apparenza era salva. Così si andava abbastanza bene. Levato il dito, tornò la noia. Era uno di quei direttori che fin dal principio dicono: Maestro, mi dica tutto senza complimenti, perchè io sappia intere le sue intenzioni. (Quali intenzioni all'infuori di quelle notate già nella partitura ?). Gli si dice tutto, ed egli ti fa una musica tutta uniforme come una pianura infinita. Sono gli entusiasti della noia.
2) I geniali. Questi peccano nel senso contrario. Esagerano tutto. L'adagio diventa un largo, rallegro un prestissimo. Il forte non è mai forte abbastanza, il pianissimo non si sente più. Non sentono il pezzo nella sua totalità e te lo frangono in tanti pazzi pezzetti. Sono esseri che vanno a scatti; il capriccio è la loro legge, e ci tengono. Anche questi ti dicono: mi dica tutto quello che sente di dovermi dire; e poi guai se fiati: sono capaci di gettar via la bacchetta. La tua musica non la riconosci più: sembra ubriaca. Questo tipo è più raro del precedente, ma non e meno pericoloso.
Sui direttori d'orchestra buoni c'è poco da dire. Questi ti fanno sentire la musica come l'hai pensata: pare impossibile che ciò sia così raro e eccezionale! Non è che non siano diversi tra loro. Uno prende i tempi più vivacemente di un altro: ma si somigliano tutti in questo: che le proporzioni dei tempi tra di loro sono le stesse. Così un viso, visto da lontano e da vicino, resta sempre lo stesso viso perchè le proporzioni non mutano; mentre i cattivi direttori ti sformano la musica come quegli specchi curvi che si vedono nelle fiere e fanno tanto ridere la gente che vi si specchia dentro.
Seguire le regole non garantisce bellezza, ma nemmeno il non seguirle. La regola si rivolge alla memoria, che non c'entra là dove il gusto deve risolvere di volta in volta.
Oggi si dice non-problematica la musica che non fa la pazza, per dire che non è gran cosa: ma la musica deve dare delle soluzioni e non dei problemi.
L'«ispirazione» non riguarda solo lo spunto, il motivo, bensì anche il così detto lavoro tematico, lo sviluppo. Ciò che è la melodia in piccolo, è la forma intera del pezzo in grande.
Non ci sono punti indifferenti, non c'è malta.
Se Ercole si fosse puliti gli occhiali, avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di pulire le stalle d'Augia.
Cambia l'arredamento mentale del cervello e avrai cambiato il mondo intero.
Gruppi di artisti, per ragioni essenzialmente e puramente artistiche, s'è già detto, sono impossibili a stabilirsi: perchè è impossibile, comunque, definire un punto comune che sia meramente artistico. La solitudine dell'artista è la vera comunione col tutto (ombelico del mondo). La comunione pratica fra artisti è puramente esteriore e rientra in quell'altra.
Inneggiare a fasti politici in musica è possibile, purchè visti sotto la specie del divino. (Esempio: la Rathswahlkantate di Bach). È sciocco disprezzare l'arte d'occasione, mentre la Tempesta e Il sogno d'una notte d'estate di Shakespeare appunto lo furono. Basta che l'occasione faccia nascere «l'eterno». Quanta arte sarebbe d'occasione a pensarci bene! Il rapporto vivo tra chi fa e echi vuol sentire non conta nulla? E Shakespeare dunque? e Molière? e Goldoni? e i Greci? Idea falsa quella dell'essere capiti tardi, e interessata per giunta. Ci vuole il tempo occorrente, ecco tutto.
Perchè si dice tanto male del passato, in musica?
È concepibile un santo che dica male di tutti i santi che lo precedettero?
Tra chi fa e chi ascolta c'è un rapporto d'amore che fruttifica dall'uno all'altro con incantevole riflesso. Shakespeare, Haydn: non si vede per chi scrisseroP Sempre l'artista e il pubblico sono degni l'uno dell'altro, tanto in bene che in male. Chi non vede il pubblico di Offenbach? E quello di... Eschilo? Si potrebbero scambiare? Altro che «obbligare» il pubblico a capire per forza!
Perché Dante e Shakespeare, così distanti di tempo tra loro, sembra che, parlando di musica, parlino di impressioni simili tra loro e simili a quelle che sentiamo noi oggi? Perchè sentivano l'identico infinito in loro attraverso le diverse incarnazioni musicali dei loro tempi: la dolce sinfonia di paradiso!
Negli istituti musicali esistono delle classi di cosiddetta alta composizione. Perchè alta? C'è forse quella bassa? Per mio conto io la vorrei bassissima: scuola di mera tecnica (giacché altro non si può insegnare): e cioè d'armonia, di contrappunto e fuga, di sintassi musicale. E vorrei che si insegnasse a ragazzi, non a giovanotti che hanno la testa già piena di «intenzioni». Le antiche scuole italiane producevano dei grandi maestri, perchè si incominciava ad insegnare la tecnica dell'armonia, contrappunto ecc. ai piccoli contemporaneamente allo studio dello strumento, non dopo. Dunque, escluso dall'insegnamento della composizione chi abbia superato il 15. anno di età. E non mi si tiri fuori Verdi, di cui si fa gran chiasso perchè non è stato ammesso, per ragioni di età, al Conservatorio di Milano: chè egli era stato organista alle Roncole a 11 anni e dai 10 ai 14 aveva studiato armonia e contrappunto col Provesi a Busseto. È stato, anzi, precocissimo, come tutti i grandi maestri nostri e non nostri. L'idea d'un diploma di composizione vera, cioè dì «poeta deì suoni» ha del buffo. Chi sarà stato mai quel disumano antenato che, per esaminare un aspirante, pensò per primo di chiuderlo a chiave a scrivere una scena drammatica, o un tempo di quartetto? Una fuga, se fredda, si può fare così, non un lavoro d'ispirazione. È vero che così Rossini scrisse il Barbiere. Ma si tratta d'un miracolo e, d'altronde, quello allora era il destino di tutti i maestri; la vita d'allora, la vita stessa li obbligava a quel modo: non una commissione esaminatrice. Nel contratto di Rossini per il Barbiere ad ognuna delle condizioni che ci fanno fremere perché disumane, segue il motto invariato: «ed è cosi perchè così deve essere». Bella ragione!
Al giovani io direi di scrivere così come si fa un telegramma per l'America. Breve perchè le parole costano, e chiaro perchè si vuol essere capiti.
Bellezza non è la somma dei suoi elementi, ma le relazioni tra questi: indicibile.
Gli «audaci» hanno paura dei grandi morti, e per questo voltano loro le spalle al fine di non vederli: creano il nuovo astratto e bislacco per disperazione.
Confusione di quelli che credono sentire lo «spirito» della musica attraverso quella insensata, quasi vi si nascondesse un senso recondito, afferrabile solo da loro, gli iniziati. Ma il senso recondito è identico a quello palese.
Contenuto e forma, in musica, sono la stessa cosa. Cambia una nota; cambi con ciò anche il contenuto.
L'ultima pagina dalla V. Sinfonia di Beethoven (tutta accordi di do maggiore) e le 300 battute di mi bemolle maggiore del preludio dell'Oro del Reno sono «progressi» armonici o no? In certo senso sì.
Progresso l'orchestra moderna in confronto della bachiana?
Altre anime. Si guadagna da un lato e si perde dall'altro.
Il progresso «cosmico» non è saputo dall'artista che vi sta dentro: non si pensa sempre al moto della terra.
Wagner è ancor sempre il problema d'oggi: ne si scioglie altrimenti che studiandolo con passione. Difendendole, si capiscono sempre le cose assai meglio che condannandole. Chi fa eternamente da pubblico ministero verso tutte le cose uccide la propria intelligenza, perchè finisce col rifiutarsi di capire.
Se parlo di Fìrenze non è necessario che io faccia sentire che m'intendo anche di chimica... Questo sia detto a quei maestri che fin dalla prima pagina vogliono mostrare tutto quello che sanno. Liszt (se non sbaglio) diceva che suonar bene come lui non era difficile: «basta mettere il dito giusto sul tasto giusto al momento giusto». Comporre è anche più facile: basta mettere la nota giusta al momento giusto: si rispartnia il dito.
È comodo il dire di non voler ciò che non si è capaci di fare: melodia, armonia, sviluppo, effetto, bellezza (tutto romanticismo»).
Perchè bisogna dar posto ai giovani? Perchè tra 100 opere ce ne sarà ben una di buona e non c'è altro modo di trovarla che eseguendole tutte: nè un artista singolo, nè una commissione (ahimè) potranno mai dire: Questo sarà un successo! - Del resto, per l'arte è indifferente che il Verdi del Falstaff avesse 80 anni e il Rossini del Barbiere 24, il Michelangelo della Cupola 80 e quello del David 25: solo la bellezza conta. E Bellini, Schubert, Pergolese che non furono mai vecchi?
Dell'istrumentazione, oggi, si parla troppo; se ne esagera l'importanza. Pelle dev'essere e non veste. Questo è l'importante. L'ultima tutti la sanno fare ormai, come levarsi il cappello.
Si osservi nella storia delle forme musicali lo sforzo continuo di dar loro dei nomi generalissimi che non dicono, in fondo, niente: Sonata, Sinfonia, Concerto, Toccata, Partita, Aria. Tutti nomi che non impegnano a nulla. E come poi con l'uso tutte si cristallizzarono a denotare certe forme dogmatiche, precise. Eccezione sola la Fantasia, perchè non si poteva mettere alla catena anche questa che voleva designare proprio l'eccezione, il capriccio.
Bisogna distinguere le formule = Sonata, Rondò ecc., che sono schemi, piante topografiche, dalle musiche reali scritte in quelle: ciascuna è, e non può non essere, diversa da tutte le altre, perchè ha la propria forma, variazione della formula, con proporzioni proprie e libere. Che la chiesa sia in forma di croce non significa che le singole chiese fatte così non siano individui tra loro tutti diversi, e che l'essere bella o no non sia indipendente affatto dalla «forma» di croce.
La tonalità non è un'opinione, come non lo è la prospettiva.
Tonalità significa: tutti gli accordi possibili sentiti in rapporto a un accordo centrale, così come in prospettiva tutte le linee concorrono al cosiddetto punto di vista. Il rapporto di una triade di mi maggiore p. es. con quella di do è quello e non un altro, ed è diverso da quello p.es. di sol con lo stesso do maggiore.
Qualsiasi accordo deriva, essenzialmente, da una triade maggiore o minore, che sono i soli accordi che natura ci dà (cogli armonici superiori ed inferiori). Chi sa ragionare bene sulle triadi sa tutto.
La tonalità non si basa, come da troppi ancora viene ripetuto, su una scala scelta così e così, bensì questa scala stessa è un derivato dei tre accordi tra loro più vicini che sia dato di immaginare. I suoni

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sono derivati dai tre accordi fa-la-do, do-mi-sol, sol-si-re

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a loro volta derivati da quello centrale di do-mi-sol in base allo scambio di 1-5 (e del contrario 5-1) che è il più semplice che vi possa essere (La quinta è il primo armonico che non sia l'ottava, e che cioè a noi sembri un suono nuovo).
Il vero ragionare armonico (ossia la logica armonica) dipende dal sentire fortemente le relazioni vere, più o meno lontane, delle singole triadi fra loro, triadi che sono il fondamento di qualsiasi amalgama sonora, per quanto diversa da loro essa paia.
L'armonia è anche colore. Non v'è chi non senta che, dopo un accordo di Do maggiore, uno di La maggiore riesce più lucente del primo, e uno di La bemolle maggiore, dopo lo stesso Do maggiore, più cupo. Ma più conta che l'artista si renda conto, spontaneamente, della distanza, direi, prospettica dei medesimi accordi e senta che il La bemolle è più lontano dal Do che non il La maggiore (il primo sottodominante alla quarta potenza, il secondo dominante alla terza) e più ancora che si accorga delle direzioni

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opposte (le dominanti, per modo di dire, verso oriente, e le sottodominanti verso occidente: le prime quasi verso il rosso, le seconde verso il turchino).
È pericoloso assai considerare le armonie solo come coloratrici della melodia, così come si colorano le fotografie. L'armonia, essenzialmente, è organismo, sistema. Questa ne è la realtà.

Il concetto storico è estraneo all'artista e proprio del critico. Si può immaginare un Mozart dire: Io sono un settecentesco?
I sogni, i desideri, l'irraggiungibile, l'utopia: temi inseparabili dall'arte che non può essere solo un inno all'esistente, ma aspirazione infinita.
Due sono i pericoli estremi ed opposti dell'arte: il senso e l'astrazione. Il primo significa restare invischiati nell'elemento del suono; sia del suono piacevole (Kitsch) che dell'acre (Umgekehrter Kitsch). Il secondo risiede nel lasciarsi guidare da sistemi o ricette. E si capisce che a lungo andare i due pericoli s'invertono: perchè l'interesse esclusivo per il suono fisico crea dei sistemi e delle ricette. E quelli e queste, man mano realizzandosi in suoni fisici, ridanno luogo alla passione esagerata per certi elementi fisici.
Se i genî potessero insegnare non si vedrebbero le lettere di Verdi e gli scritti di Wagner restare, dopo tanti anni, senza effetto alcuno.
Wagner è sempre ancora il perno d'ogni discussione musicale, direttamente o no: perchè con lui la regola collettiva è definitivamente detronizzata, e da lui comincia la ricerca di nuove regole sempre più individuali, finchè dopo di lui ci si perde, come si è visto, nell'anarchia.
La morte attuale delle regole potrebbe essere una fortuna e permetterci di creare della musica imperitura. (cioè senza elementi che, più tardi, non possano che apparire invecchiati, quali residui di mode sorpassate). Invece, tendendo a creare, col «moderno», una moda di oggi, che non può essere se non passeggera, si perde quest'unico vantaggio che potrebbe recare l'anarchia musicale. Essa, in fondo, volendo, non impedisce affatto il bello. A Wagner, dopo l'esecuzione del Parsifal del 1882, chiesero con che sorta di stregoneria fosse riuscito ad ottenere l'estrema disciplina necessaria per attuare con elementi venuti da tutte le parti l'impressionante esecuzione del suo inaudito lavoro. Wagner rispose: «Non è stato che l'effetto dell'anarchia, per la quale ciascuno faceva quello che voleva, ossia la cosa giusta». Benedetta l'anarchia, se è di questa specie!
Il piacere è spesso un muro che ci divide dalla bellezza: quello stanca presto, la bellezza mai.
Il bello è anche piacevole; ma il piacevole non è il bello.
Non bisogna, però, per paura del piacevole, credere che il bello debba essere spiacevole.
Non credo che la critica sarebbe in mani migliori se fosse fatta unicamente da maestri. La storia dimostra che questi raramente si sono capiti reciprocamente. Wagner odiava Schumann e viceversa; Chopin non era abbordabile dalla musica di nessuno tra i vivi: dei morti amava Mozart e Bach, ma non Beethoven. I temperamenti diversi sono, spesso, barriere insuperabili degli artisti fra loro, per le quali essi non sentono più la loro essenziale identità, ossia genialità. L'arredamento mentale esiste anche per i maestri, quando non sono in stato di grazia. Generalmente non lo sono che creando.
Se la lente dell'occhio fosse in se stessa colorata, l'occhio non vedrebbe questo colore e gli altri ne verrebbero influenzati. Così dev'essere limpido e «incolore» il cervello perchè possa arrivare all'attimo creativo. Questo stato di limpidezza del cuore gli indiani lo definiscono con l'espressione: avere il cuore vuoto, espressione che è una lode, perchè così intendono dire che solo il cuore vuoto da interessi parziali è capace di darsi tutto ad un attimo e renderlo, per tal modo, sublime.
Per vedere dove l'opera d'arte viva realmente. Ricordo che il compianto Conte Lurani, milanese, che molti ancora ricorderanno con me quale appassionato e purissimo cultore di musica, mi raccontava che un giorno Giuseppe Verdi ottantenne, venuto a rendergli la visita, volendo narrare un aneddoto di molti anni prima, riguardante un tenore che doveva cantare una sua melodia, si mise a cercarla stentatamente nella memoria, perchè non la ricordava più esattamente. Finalmente gli sovvenne.... ed era il celebre

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della Traviata. Lui, proprio lui, Verdi, era in quel momento l'unico italiano, forse, che non ricordava più quella melodia popolarissima. Dove viveva essa dunque?

Per un cane non esiste un fiore, non esiste un biglietto da mille. Così per le anime sorde non esiste la bellezza della musica: esistono le note, il suono e basta.
È un vero peccato che la musica, per arrivare all'anima, debba passare per le orecchie!
Ci sono degli artisti che creano partendo dall'amore: essi dicono: «Questo! questo! Dunque non quello!». E c'è altra gente che parte dall'odio e dice: «Non questo! Non questo! Dunque quello!». Questi ultimi non possono creare veramente.
Si deve essere nazionali in arte? Si deve, perchè non si può non esserlo, se si è sinceri. E la sincerità è l'anima dell'arte.
La nazione è il grande individuo collettivo nel quale è radicato il nostro io privato, che attraverso quello, quindi, deve passare per arrivare a quell'Io trascendentale che è l'anima stessa del mondo, cioè là dove sono radicate tutte le nazioni. Trapassandovi, non può non colorirsene. Se persino le qualità dell'io privato, del proprio temperamento fisico non sono indifferenti per l'arte, qualora vengano sublimate dal contatto coll'infinito dell'anima universale, per modo che p. es. il carattere focoso di Wagner si traduce in suoni eroici, di valore eterno, che lo trascendono, così come la dolcezza del carattere privato di Mozart diventa paradiso; come mai i caratteri nazionali di un artista non dovrebbero eternizzarsi nell'arte sua? È vero che dal finito all'infinito non si passa per gradi, ma sempre con una specie di salto
(così come aggiungendo unità ad un'unità non si arriva all'infinito): ma è pur vero che la nazione, la razza è già una cerchia ben più vasta di quella dell'io dell'anagrafe: e già lo redime. Occorre che l'artista vi pensi? Non occorre: se è sincero, il carattere nazionale della sua arte viene da se. Pensandovi, c'è il pericolo che un italiano p. es. si chieda come deve essere la musica, perchè sia italiana. Ed ecco spuntare, anche qui, una ricetta. Allora, invece della sincerità pura, si avrebbe l'impura affettazione di quella. Un vero italiano non potrà mai dire, nemmeno a se stesso, in che consista l'italianità: la sente e basta. Così un tedesco; così ciascun altro uomo, che senza nazione o razza non esiste mai.
Ci sono degli «artisti» che, invece di svelare la propria anima attraverso la loro musica, fanno come la seppia; come questa si nasconde nel negro che sprizza da sé, così quelli si nascondono dietro l'opaca nebbia dei loro suoni.