GIORGIO VIGOLO

PUDORI PERDUTI

I GIOIELLI DELLA MADONNA
DI WOLF-FERRARI


12 gennaio 1954

Dev'essere sembrata all'Opera di Roma un'ispirazione del cielo, quella di andare a ripescare nel mare delle opere dimenticate o quasi I Gioielli della Madonna di Ermanno Wolf-Ferrari. Una pesca di gioielli a reti piene nel golfo di Napoli - dove appunto il soggetto si svolge - poteva anche essere una pesca miracolosa. E allora, senza pensarci due volte, si sono calate le reti - o meglio si sono indossati gli scafandri per disincagliare dal fondo lo spartito affondatovi ormai da più di quarant'anni. Fu infatti composto intorno al 1910 e allora rappresentato in Germania; non in Italia dove mai ebbe accesso.
L'operazione di ricupero non ha portato a galla niente di miracoloso. Gioielli falsi in gran parte, in parte rosi dalla salsedine e dal limo del Basso Porto. Non sembra che si sia reso un buon servizio a quel nobile e forbito scrittore di argute civetterie musicali che è l'autore de Il segreto di Susanna, de La vedova scaltra, de Le donne curiose ecc., andandogli a riesumare per un equivoco di contenuto religioso, del tutto esteriore e veramente d'accatto, quello fra i suoi lavori che doveva considerarsi una infelix culpa e che sarebbe stato pietoso non togliere dallo scaffale.
Il lato meno eccelso della faccenda sta proprio nel fatto che al ricupero della sfortunata opera non si è stati indotti principalmente da motivi di arte e di musica; poiché in tal caso solo degli sconsigliati avrebbero, fatto, fra i molti buoni lavori di Wolf-Ferrari, una scelta così alla rovescia, che potrebbe sembrare uno scherzo di cattivo genere giuocato alla memoria del musicista, con raffinata malignità, dai suoi nemici. Essa lo fa figurare alle generazioni di oggi, magari ignare della sua musica migliore, nella luce più sfavorevole e falsa, come un cattivo verista sulle peste di Leoncavallo.
È un curioso segno dei tempi che quelle stesse convenzionali cifre dicostume napoletano (malavita, camorra, furto sacrilego, passioni accorate, chiassate popolari frammischiate alle processioni della Madonna del Carmine, suicidio finale), che una volta furono giudicate poco meno che offensive per il nostro Paese (donde il bando dato quarant'anni fa a quest'opera nei nostri teatri) siano diventate oggi, tutto all'opposto, le uniche ragioni, per cui lo spartito è stato prescelto, con indulgenza plenaria accordata al poco edificante episodio del suicidio davanti all'immagine sacra. È vero peraltro che questo episodio è stato censurato con un nuovo genere di censura per le, spicce, effettuato per procura dal regista, ma che resta pur sempre una manomissione dell'opera d'arte, la quale se si rappresenta, si deve rappresentare com'è. Altrimenti di questo passo non si sa dove andremo a finire; forse vedremo la Carmen concludersi con la conversione di don Josè che prende gli ordini.
Le ragioni che finora abbiamo accennato non riguardano peraltro che in maniera molto laterale la musica vera e propria de I Gioielli della Madonna. I musicisti di opere hanno ingoiato, quanto a soggetti, assai di peggio. Ma è anche vero che hanno saputo digerire quel peggio con i loro stomachi di ferro. Wolf-Ferrari invece si è preso una indigestione con molto di meno. Il suo temperamento aveva trovato una formula cosl adatta in quel dialetto musicale goldoniano, incipriato con uno spolvero di Mozart; e non gliel'ha fatta a pronunziare che molto stentatamente il «napoletano nella musica», poco favorito in questo dal libretto di Zangarini e Golisciani, che purtroppo è in versi italiani (e tutti sappiamo cosa diventino i nostri dialetti travasati nella lingua).
Ai piedi del Vesuvio fra i colori del verismo mediterraneo, Wolf-Ferrari si è trovato a mal partito: ha tentato anche lui di fare la sua piccola Carmen, come di dovere. Nel soggetto, nei personaggi ci sono anche delle somiglianze. Ma la sua piccola Carmen è di pelle chiara, è una biondina dai capelli di lino. Esposta ai colpi di sole del mezzogiorno non è riuscita a prendere una bella tinta bruna e abbronzata, ma si è coperta di efelidi. Il suo sangue nordico ha fatto la sua eruzione, anziché il Vesuvio, in uno sfogo di Strauss e di Wagner, fitta urticaria di quest'opera. La stessa Napoli di Wolf-Ferrari somiglia a quella dei pittori della Schach Galerie di Monaco. I motivi popolari anche belli e autentici (come quello del secondo Preludio) si aggraziano nella sua scrittura in pose da modelli nello studio, di acquaiuoli, ciociarette e pescatori, come si vedono appunto nelle tele di soggetto italiano dei pittori monacensi.
Lo stile del musicista, insomma, ha qui sbagliato il suo mare: il Tirreno lo ha portato a esagerare, a strafare. E poiché alla sua cetra manca del tutto la corda tragica, noi troviamo in questa opera o delicati acquarelli nel suo noto modo veneziano (e fra questi metteremo la Serenata di Raffaele,nel secondo atto, poi Preludio del terzo, che è una bella pagina di musica e forse la cosa migliore dello spartito, ma disambientata, fuori tono e che nulla ha da vedere nella sua sfumata leggiadria col truce soggetto); oppure, troviamo due tentativi altrettanto infelici per dare uno stile drammatico, l'abuso di wagnerismi e straussismi da un lato e dall'altro le frasi alla Mascagni o alla Leoncavallo. Allora vediamo un Wolf-Ferrari che si leva la giacca, e resta in maniche di camicia o indossa una maglia a righe da marinaio: cose che a un signore come lui non sono permesse, perché egli deve andare sempre in un corretto abito scuro, o tutt'al più in velada e tricorno. Obbiettivamente si deve però riconoscere che il senso del teatro musicale da lui posseduto in modo indubbio, con arte solida, seria educazione e migliore tradizione, gli ha fatto scrivere qua e là pagine degnissime e un secondo atto, in cui la situazione, il ritmo dell'azione poggiano sopra un arco ben costruito.
Il successo è stato buono, l'esecuzione accurata; precisa e fine la concertazione del maestro Bellezza, anche se non perfetto il sincronismo fra palcoscenico e orchestra. Interpreti vocali assai pregevoli; più che pregevole Clara Petrella, il cui tipo si confaceva al ruolo della protagonista in modo perfetto. Il tenore Prandelli ha portato un contributo decisivo alla buona sorte della recita con la qualità del suo bel canto; Tito Gobbi è riuscito con le sue molte risorse vocali e di attore a darci un personaggio di Raffaele, capo della camorra, che musicalmente non esiste nello spartito. Né si possono lesinare cordiali riconoscimenti a Rina Corsi, materna e affettuosa, e a tutto lo stuolo degli altri interpreti.
La presentazione scenica - come era da prevedere - ha gravato la mano sulla spettacolare oleograficità di una Napoli al copale, con quelle luci e quei colori da porchetta ben rosolata e di cieli al caramello che ci fanno venire, ogni volta che andiamo all'Opera, l'acquolina in bocca. Quanto poi alle processioni, di cui l'argomento forniva occasioni a bizzeffe lasciamo immaginare lo sfoggio un poco inverecondo che ce ne è stato ammannito: preti, frati, sagrestani, prevetarielli, bambine con i veli della prima comunione, fratelloni di confraternite, labari e stendardi a non finire. Per di più un crocifisso permanente nel bel mezzo della scena. Ci siamo domandati: Dio santo, chi in Italia d'ora in poi, difenderà il decoro e il rispetto nelle cose di religione?