LAURETO RODONI

«Caro e atroce maestro...»

L'esilio di Busoni e di Wolf-Ferrari a Zurigo
e una lettera di Wolf-Ferrari a Busoni
dopo la prima rappresentazione di Arlecchino*
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*Articolo pubblicato sul Programma di Sala (Busoni, «Arlecchino»; Puccini, «Gianni Schicchi») del Teatro dell'Opera di Messina, giugno 2000, pp. 7-15. Per la stesura di questo articolo, ho utilizzato, rielaborandoli in parte, alcuni spezzoni di un mio saggio dedicato all'esilio di Busoni a Zurigo: «Die gerade Linie ist unterbrochen.» L'esilio di Busoni a Zurigo 1915-1920, Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft, Bern, Peter Lang, pp. 27-105 (= RODONI II; cfr. riassunto). Spiegazione delle altre abbreviazioni bibliografiche: RODONI I = Laureto Rodoni, «Tra futurismo e cultura mitteleuropea: l’incontro di Boccioni e Busoni a Pallanza», Intra-Pallanza 1998 [dove è pubblicato con ampio commento il carteggio tra Boccioni e Busoni]; BUSONI = F. BUSONI, Lettere con il carteggio Busoni-Schönberg, scelta e note di Antony Beaumont [Titolo originale: Ferruccio Busoni Selected Letters, London 1987], edizione italiana a cura di Sergio Sablich [il carteggio Busoni-Schönberg è curato da Jutta Theurich], Milano 1988; SABLICH = Sergio Sablich, Busoni, Torino 1982; DE RENSIS = Raffaello De Rensis, Ermanno Wolf-Ferrari. La sua vita d'artista, Milano 1937; ZWEIG = Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un Europeo, Milano 1979; WOLF-FERRARI = Ermanno Wolf-Ferrari, Briefe aus einem halben Jahrhundert, a cura di Mark Lothar, Monaco-Vienna 1982.
Ai primi di agosto del 1914 Ferruccio Busoni si trovava, come ogni estate, a Berlino (dove risiedeva dal 1894) e stava lavorando all’edizione delle opere di Bach per pianoforte. Non fu subito impressionato dalla notizia dello scoppio della guerra: soltanto nelle settimane successive si rese conto dell’ampiezza e della gravità di un evento che avrebbe sconvolto la sua vita sul piano umano e, in parte, su quello artistico.
Dopo aver trascorso otto, tormentati mesi in America (dal gennaio all'agosto del 1915) nella vana speranza che gli Stati in conflitto ponessero fine alla barbarie bellica, prese la sofferta decisione, nel settembre del 1915, di non tornare in Germania, ma, nel contempo, di non accettare nemmeno l'invito di stabilirsi a Roma, per occupare la cattedra di pianoforte all'Accademia di Santa Cecilia. Dopo aver a lungo riflettuto sulla sua situazione, decise infine di stabilirsi in una nazione neutrale, in Svizzera.
Quali furono i motivi di questa scelta?
Sebbene Busoni si dichiarasse orgogliosamente cosmopolita, nella drammatica situazione suscitata dalla guerra l’idea di patria non gli era affatto estranea e nel 1915, in tempi in cui era inevitabile «schierarsi», quella d’elezione (la Germania) aveva per lui una rilevanza maggiore rispetto a quella istituzionale (l’Italia). Ciò non significa ovviamente riproporre la consunta storia di una sua germanofilia: significa soltanto affermare che egli, in quel periodo storico, non avrebbe potuto vivere stabilmente in Italia, sia per l’arretratezza culturale del suo paese, sia per il modo col quale venivano gestite le istituzioni musicali, sia per i gusti musicali del pubblico italiano, «mal educato alla purezza, ed incapace di riconoscere in essa la grandiosità e la perfezione» [2], sia infine perché ciò avrebbe compromesso irreparabilmente i suoi rapporti futuri con la Germania, con Berlino in particolare, città che amava più di ogni altra, luogo per lui insostituibile. [3]
Questa consapevolezza, unita all’intima convinzione che l’esilio non è penoso come vivere soli in patria, non soltanto lo indusse, ma lo costrinse a stabilirsi, tristemente, in un paese non belligerante, simbolicamente equidistante dalle due nazioni che ormai lo consideravano con ostilità e dalle quali era nel contempo respinto, se non ufficialmente, almeno implicitamente, come persona non grata. Se è esagerato definire coatto [4] il suo esilio, non mi sembra d’altra parte plausibile considerarlo del tutto volontario: nel caso di Busoni, queste due componenti, benché antitetiche, paradossalmente coesistono. Dipendente dalla sua volontà fu semmai la scelta del luogo in cui trascorrere gli anni della guerra. Ed egli scelse la Svizzera perché questa nazione, fedele alla sua tradizione secolare, aveva notificato agli Stati belligeranti la ferma decisione di rimanere neutrale.
Si stabilì a Zurigo, in Scheuchzerstrasse 36, soprattutto perché a quel tempo la città sulla Limmat «era uscita dal suo silenzio ed era diventata da un momento all'altro la più importante città europea, centro di tutte le correnti intellettuali». [5] Ottenne senza problemi l'asilo politico, anche per il fraterno interessamento del musicista Volkmar Andreae che sarebbe diventato una figura centrale del suo esilio. [6]
Busoni restò a Zurigo fino al settembre del 1920: furono anni laboriosi e fecondi, ma durissimi da reggere sul piano psicologico. L'amico scrittore Jakob Wassermann riferì che molti allievi e amici furono «a più riprese agghiacciati testimoni del suo dolore e della sua titanica ribellione contro un evento mondiale che gli appariva del tutto insensato. [7] La forzata lontananza dall’ambiente domestico e dalle «Gewohnheiten», ossia dall’insieme delle abitudini che rendono gradevole e insostituibile un luogo; l’interruzione coatta del rapporto vivificante con la propria città, con gli amici, con i volumi della raffinata biblioteca privata; l’impossibilità di fare lunghi viaggi, di esplorare le grandi città furono vissuti da Busoni come un troncamento della sua vita.
Pur avendo dichiarato con rabbia, in America, che non si sarebbe mai rassegnato alla «criminale amputazione della sua vita» provocata dalla guerra, [8] tuttavia, soprattutto nei primi tempi, le conseguenze che questo troncamento ebbe sulla sua stabilità psichica, sulla sua identità e sulla sua Weltanschauung furono devastanti: come uomo, Busoni si rese conto improvvisamente di non avere una patria in cui riconoscersi e di cui in quel tragico momento sentiva il bisogno; come Kulturmensch cominciò a vivere drammaticamente l’appartenenza a due culture diventate ormai antitetiche nel contesto storico in cui si trovava. «A chi appartengo?» — chiese angosciato a Stefan Zweig. — «Quando la notte sogno, mi accorgo al destarmi di aver parlato in sogno in italiano. Ma se poi scrivo, penso parole tedesche.» [9]
Questa profonda lacerazione fu uno dei motivi che rese tormentato e contradditorio il rapporto con la città che aveva scelto come rifugio, sebbene essa gli garantisse tranquillità e lavoro e la vita culturale e artistica fosse in quegli anni ricca ed effervescente come mai lo era stata prima.
Tuttavia, sul piano della creazione artistica, il suo lavoro non subì interruzioni. Busoni era ben determinato a continuare con tenacia il percorso artistico iniziato con la «Wendung» [la svolta stilistica] del 1907. Dagli Stati Uniti si portò anche l’abbozzo del capriccio teatrale Arlecchino, che concluse con intima soddisfazione ai primi di agosto del 1916. [10] All’inizio di ottobre dello stesso anno, siccome lo Stadttheater di Zurigo poneva difficoltà alla rappresentazione del lavoro a causa della sua breve durata (circa un’ora), Busoni prese la decisione di sfruttare il materiale e l'argomento della TurandotSuite, musica di scena risalente al 1905 e destinata ad accompagnare la pièce teatrale omonima di Gozzi, per comporre un'altra breve opera. Il titolo che collega i due lavori teatrali è «La nuova Commedia dell'arte»: «Esso» — spiega Busoni — «si riferisce alla reintroduzione delle maschere italiane nell'azione.» [11] E qualche anno più tardi scrisse a Mario Corti:
«L’errore che commettono tutti, amici e avversari, sta nel considerare le due operine come stile e risultato finale e definitivo delle mie creazioni; mentre in verità esse non sono che un "intermezzo", quasi uno scherzo, un mio divago, un riposo, per economizzare le forze, che si accingono a un compito superiore.» [12]
La prima rappresentazione del dittico operistico ebbe luogo allo Stadttheater di Zurigo l’11 maggio 1917. Busoni era sul podio. Tra i molti amici del compositore presenti nel teatro c’era anche Ermanno WolfFerrari, che fu profondamente colpito da Arlecchino. La sera stessa gli scrisse la magnifica lettera pubblicata alla fine di questo articolo. «Non si scrive quell’Arlecchino senza aver sofferto molto», afferma WolfFerrari. Come dargli torto? Busoni, pur trovandosi in un paese non martoriato dalla guerra, sentiva sulla pelle, ma anche nelle viscere la pesantezza di quei tempi lugubri e ne era scosso sin nel profondo del suo animo. Inoltre temeva che l’afasia creativa avrebbe potuto colpire anche lui, come colpì altri artisti in quel tempo:
«Ah, questi benedetti nervi strapazzati dalla guerra! Ognuno ne è tocco, secondo la sua indole. Fra i miei amici uno, a quarant’anni, ha abbandonato la sua professione di musicista e si dedica all’acquarello un altro si è fatto psicoanalitico; il poeta Rilke, che fu da me una settimana fa, non ha scritto neanche un verso durante questi cinque anni; il romanziere Wassermann, che vidi ierl’altro, è inaccessibile al punto da far pena a chi lo ascolta; pur essendo rimasto attivo e lucido.» [13]
Fra questi artisti ammutoliti dalla guerra vi fu anche Wolf-Ferrari, che, per gli stessi motivi di Busoni, [14] scelse Zurigo come città del rifugio (allo scoppio della guerra viveva a Monaco di Baviera). Ma, a differenza di Busoni, il primo conflitto mondiale «determinò in lui, di sangue tanto tedesco quanto italiano, una crisi che lo ridusse al silenzio per 10 anni.» [15] Egli condusse in Svizzera vita ritirata ed ebbe solo sporadici incontri con Busoni: «Vorrei vederla raramente (come le cose preziose, per gustarle di più) - ma gustare con Lei un’ora densa» - scrisse nella lettera citata. Sognatore, schivo e persona piuttosto interessante lo definì Busoni in una lettera a un'amica, [16] nell'estate del 1916. Come a Busoni, subito dopo lo scoppio della guerra gli furono offerte delle cattedre in Conservatori italiani (a Roma e a Milano). E come Busoni declinò le offerte, non certo perché «non aveva più l'animo disposto ad assumersi responsabilità, troppo geloso della vita libera, della solitudine boschiva, della meditazione», [17] quanto piuttosto perché, come detto, non voleva e non poteva schierarsi, sentendosi nel contempo legato sia alla patria d'elezione sia a quella istituzionale.
Poco si sa del suo esilio in terra elvetica. Sulla base di lettere di Busoni e sue, [18] risulta chiaramente che egli dimorò a Zurigo (e poi a Zollikon, poco lontano da questa città), sicuramente dall'estate del '16 (ma è possibile che sia arrivato nell'autunno del '15, come Busoni) al febbraio del 1922. Poi fece ritorno a Monaco. Otto Luening nel suo libro di memorie [19] riferisce che egli diresse qualche volta l'orchestra della Tonhalle, con estrema pacatezza, ottenendo eccellenti risultati come interprete di musiche sue. E il De Rensis afferma che «il conflitto mondiale lo incalzò e lo frastornò; la speculazione filosofica prese la via del simbolo artistico, unica forma concessa a lui che non è sostanzialmente filosofo; e germinò nella sua mente la concezione di un'opera [«Das Himmelskleid» (Vestita di cielo), Monaco 1927] aderente al suo stato spirituale.»
Busoni rientrò a Berlino all’inizio di settembre del ‘20 col titolo col titolo di dottore honoris causa in filosofia conferitogli dall'Università di Zurigo nell'agosto del 1919. Al momento della partenza seppe riconoscere con la sua consueta onestà intellettuale il ruolo fondamentale che Zurigo ebbe sulla sua vita e sullo sviluppo della sua arte:
«Mi accorgo che gli anni trascorsi a Zurigo non sono rimasti senza influenza per me, all'estero; la mia posizione nel mondo musicale si è notevolmente elevata, senza intervento da parte mia; allo stesso modo come un'opera matura dentro di noi, senza che ci si pensi consapevolmente. Tanto più sono grato al Suo paese per la tranquilla attività che mi ha consentito di svolgere. Ma ora anche questo capitolo è chiuso e bisogna prender congedo, con fermezza e malinconia. Perciò il mio ritorno in luglio <a Zurigo> avrà lo scopo di fare tutti i passi a ciò necessari. La separazione non sarà facile. Ma il mio senso della forma mi dice che la durata di questo pezzo non deve essere protratta oltre il limite dovuto.» [20]
E a un fraterno amico (il banchiere svizzero Albert Biolley) scrisse il 1º ottobre del 1920 dal suo appartamento berlinese a proposito del recente trasloco: «Ogni cambiamento, anche il più agognato, racchiude una sua malinconia, poiché ciò che lasciamo è una parte di noi stessi. Bisogna in un certo senso morire per entrare in una vita nuova. E questa volta quante cose ho dovuto lasciare... Quanti piacevoli ricordi di Zurigo io serbo... » [21]

Lettera di Ermanno Wolf-Ferrari a Ferruccio Busoni [22|

Zurigo 11 maggio 1917

Universitätstr. 8 II

Caro Maestro!

Più ci ripenso e più il Suo «Arlecchino», mi appare una cosa grande, se si può chiamar così un lavoro che sta così da solo: francamente, io non so paragonarlo a nulla. Sta da sé. Non so nemmeno capire da che derivi la simpatia che provoca in me. Dev’essere la sua «perfezione», perché, quanto al punto di vista, dal quale Ella si mise a vedere, quando creò questo poemetto, non credo si possa trovare altro di più “unerbittlich” [inesorabile]: non conosco un diavolo che rida più diabolicamente del riso di questo poemetto. Non so immaginare un comico più atroce. E qui sta la perfezione: vedere e tirare nel centro magari spaccando il cuore a se stesso.

Mefistofele è «gentile» in confronto del Suo Arlecchino.
È impossibile sperare che il pubblico, subito, capisca: non può arrivare all’altezza necessaria per ridere con Lei. Ella, certo, lo sa. Ci vorrebbe un pubblico composto di gente capace di ridere di se stessa: un’utopia.
E che musica! L’unica giusta e possibile per quel centro. Non so dire tutto quello che vorrei: certo ebbi una impressione grande, che cresce ripensando e fermenta. Ella ha la gioia tragica di sentirsi solo, oramai e la gusta eroicamente. Non si scrive quell’Arlecchino senza aver sofferto molto.
Caro e atroce maestro, a Lei tanto del mio affetto!
Non potremo mai parlare un’oretta assieme, senza coristi o comprimari d’attorno.
Vorrei vederla raramente (come le cose preziose, per gustarle di più) ma gustare con Lei un’ora densa.
Mi spiego male, lo so...
Suo aff.mo
E. Wolf Ferrari

NOTE

[2] Cfr. la lettera a Egon Petri in BUSONI, n. 134, p. 217 (Firenze, 4.5.1912): «È difficile concentrarsi sul futuro in un paese che deve ancora raggiungere il presente.» In un'altra lettera allo stesso (n. 136, p. 219, Basilea, 15.5.1912) Busoni scrisse: «Vi è [in Italia] altissima intelligenza e cultura fra le persone della élite, ma una proporzione di imbecilli, di indifferenza e di ignoranza terrificante.» Si pensi poi all’infelice esperienza come direttore del Conservatorio bolognese, durata soltanto un anno. Il brano di una lettera che Mario Corti scrisse a Busoni riflette senza dubbio anche il pensiero del destinatario sul problema delle istituzioni musicali italiane: «[...] quando l’arte è applicata alla burocrazia, quando è pretesto a modestissimi uomini per assurgere a dignità che madre natura non ha loro consentito, quando un istituto può essere considerato come palestra per autoglorificazione di mediocri, allora l’arte diventa una bottega speculativa dalla quale bene a ragione gli artisti veri e sani debbono stare lontani.» (Staatsbibliothek zu Berlin, Mus. ep. M. Corti, 7.12.1915, BusoniNachl. BII.). Su questo, cfr. RODONI I, pp. 81-82 e RODONI II, pp. 3236.
[3] Cfr. RODONI I, p. 31.
[4] In una lett. a Jella Oppenheimer del 19.11.1915, pubblicata sulla Neue Zürcher Zeitung del 21.6.1931, Busoni parla però di non precisati «zwingende Umstände»: l'espressione, tradotta letteralmente, significa «circostanze coercitive».
[5] Cfr. ZWEIG, p. 221.
[6] Cfr. RODONI II, pp. 42-44.
[7] Testimonianza citata in SABLICH, pp. 316-317.
[8] Cfr. la lettera a Edith Andreae del 23 giugno 1915, in BUSONI I, n. 196, p. 286.
[9] CFR. ZWEIG, p. 222. L’incontro risale sicuramente al 1917.
[10] Cfr. RODONI I, p. 77 e RODONI II, pp. 55-58.
[11] Lettera a José Vianna Da Motta, in BUSONI, n. 258, p. 358.
[12] Lett. a M. Corti del 21.5.1921, cit. in RODONI II, p. 56. Cfr. anche la lettera a Egon Petri del 9.11.1916 (in BUSONI, n. 251, p. 350: «È un lavoro di transizione alla mia prossima (e principale) opera, il cui testo è già terminato.» Evidente il riferimento al suo capolavoro incompiuto, il Doktor Faust, al quale stava già pensando durante la composizione di Arlecchino.
[13] Lettera a Ettore Cosomati dell'8.8.1919, cit. in RODONI II, p. 50 (testo integrale nell'appendice dell'articolo, lettera n. 10).
[14] «Vivo in Svizzera, perché, essendo di padre tedesco e di madre italiana, in questa maledetta guerra non ho trovato patria da nessuna parte. La mia neutralità è congenita, non per indifferenza, ma per flussi d'amore antitetico. Un'esperienza dura, ma proficua.»
[15] Cfr. il Dizionario della Musica e dei Musicisti, voce di Carlo Parmentola, Torino 1988, vol. VIII, p. 540.
[16] Cfr. RODONI II, p. 82.
[17] Cfr. DE RENSIS, pp. 89-90.
[18] Cfr. WOLF-FERRARI, pp. 44-69.
[19] Cfr. O. LUENING, «The Odyssey of an American Composer», New York, 1980, p. 158.
[20] Cfr. BUSONI, lettera n. 325, p. 431.
[21] Originale in francese, inedita (cfr. RODONI II, p. 83).
[22] Mus. ep. E. Wolf-Ferrari 4 (Staatsbibliothek zu Berlin, Busoni-Nachl. BII.