Laureto Rodoni

L'ULTIMO SOGGIORNO AMERICANO
DI FERRUCCIO BUSONI


[versione ampliata dello spezzone contenuto
nel saggio Die gerade Linie ist unterbrochen]


Qualche mese prima dello scoppio della guerra Busoni aveva programmato un viaggio negli Stati Uniti. Per tutto l’autunno del ‘14 fu indeciso [1]: chiese dapprima al Liceo Musicale di Bologna, di cui era diventato direttore nell’ottobre del 1913, [2] un anno di aspettativa; [3] valutò poi i pro e i contro di un viaggio oltre oceano. L’America lo attirava sia perché era lontana dalla guerra, sia per i guadagni che la tournée gli avrebbe procurato. Ne era però respinto dalla pericolosità della traversata, dall’idea di lasciare a Berlino tutto [4] incustodito, siccome aveva deciso di partire con tutta la famiglia, ma soprattutto dal fatto che «nella grande stalla della libertà al di là dell'oceano» [5] non si era mai trovato a proprio agio. [6]
Prese infine la decisione di onorare il contratto stipulato con le istituzioni musicali americane e di intraprendere il viaggio, anche per avere il tempo di riflettere sulla sua delicata situazione di italiano che aveva scelto come patria d’elezione la Germania: [7]

Mi metterò in viaggio con sentimenti ben diversi da quelli che nutrivo quando firmai il contratto; prendo con me i miei ragazzi e rimane l'ansiosa domanda: in che stato ritroverò il paese che lascio? Chi mi mancherà? Quando potrò riprendere il filo della mia vita? E infine, come potrà riprendersi l'Europa e quanto tempo ci vorrà? Temo che noi non vedremo il nuovo culmine.

E così il 3 gennaio 1915 partì improvvisamente e precipitosamente [8] con tutta la famiglia per Genova, nutrendo la speranza che la crisi venisse presto superata per poter condurre di nuovo, non appena fosse passata, «una vita più consona alle sue inclinazioni e al dovere verso se stesso.» [9] Fu costretto a far tappa a Zurigo. Questa sosta forzata [10] durante la quale mi è difficile immaginare che non abbia preso contatto con colui che diventerà la figura più importante del suo esilio, Volkmar Andreae, è come un segno del destino, un seme che germoglierà nell’autunno successivo, quando la scelta di un luogo dove stabilirsi, di «una piccola isola per salvarsi dal diluvio universale» [11] sarà urgente e improrogabile.
Dall’America scrive agli amici europei lettere intrise di nostalgia, [12] delusione, [13] amarezza, [14] dubbi, [15] ma anche di fermi propositi di portare a compimento i suoi progetti artistici. [16]. «Questi progetti» - scrive a Petri dalla nave (nº 185, p. 271) - «mi sostengono di fronte a un prossimo futuro alquanto incerto. Sì! - perché, quando ci incontreremo di nuovo? Questa impossibilità di fare piani dopo 10 anni di regolato lavoro costruttivo, al culmine delle mie energie vitali, è un colpo durissimo!»
Compone nella primavera del ‘15 il Rondò arlecchinesco, [17] dopo aver terminato i concerti e la seconda parte del Clavicembalo ben temperato di Bach e la Fantasia Indiana. [18] Scrive un libretto per Louis Grünberg. [19] L’impossibilità di allestire Arlecchino a New York lo induce alla decisione di lasciare al più presto l’America. [20]
L’idea di stabilirsi in Svizzera comicia ad allettarlo alla fine di giugno del ‘15: «Sto pensando seriamente di andare in Svizzera passando per l’Italia. (Darei 100 Stati Uniti in cambio di un vecchio angolino europeo).» [21] L’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del ‘15 aveva infatti complicato ulteriormente la sua situazione: «Complication morale et pratique», scrive a Philipp. [22]
Ma un mese dopo è ancora in preda all’incertezza:

Sono ancor sempre incerto su quel che farò. Ne soffro molto e trovo vergognoso restar qui al riparo, in una vile sicurezza, aspettando che si proclami la pace. Sono europeo e (Dio sia lodato) più uomo tra gli uomini che virtuoso di professione. [Lettera ad Harriet Lanier, 18.07.1915, nº 198.]

Intanto nei giornali italiani e tedeschi si critica aspramente la sua scelta di abbandonare l’Europa. [23] È di questo periodo la lettera aperta alla «Vossische Zeitung».
All'inizio di agosto prende infine la decisione irrevocabile di tornare in Europa e di stabilirsi temporaneamente in Svizzera. [24] Il soggiorno americano gli era talmente insopportabile che lo definì in una missiva a Edith Andreae «esilio detestato». [25] Il bilancio negativo non riguardava solo la sua quinta e ultima tournée, bensì tutte le precedenti quattro. [26]
Busoni lasciò definitivamente gli Stati Uniti ai primi di settembre del 1915, imbarcandosi con la moglie Gerda e il secondogenito Raffaello [27] su un piroscafo italiano: «Un disgusto insormontabile», interpretato dal Dent come «nausea intellettuale e morale», [28] lo fece «fuggire e tornare - nonostante tutto - in Europa». [29]


[1] «[...] il mio viaggio in America deve aver luogo» [lettera a J. Oppenheimer, 11 settembre 1914, nº 178, p. 264**]; «Che cosa mi consigli?», chiede a Kurt Sobernheim il 16 settembre [nº 179, p. 275]; il giorno dopo scrive a Emilio Anzoletti: «Non so ancora se andrò in America» [nº 180, p. 266]. Sul Diario berlinese annota: «La domanda angosciosa è ora il “se”, il “quando” e il “come” di un viaggio in America» [appunto del 9 ottobre, nº 281, p. 268]; «America, oggi, tre giorni prima della partenza, ancora indeciso.» [appunto del 2 gennaio 1915, nº 183, p. 270]. Sarebbe partito, improvvisamente, il giorno dopo. SU

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2] Cfr. HOMEPAGE, Busoni a Bologna. SU

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3] Cfr. lettera a E. Anzoletti del 17 settembre 1914, nº 180, p.270: «In questi giorni ho scritto a Bologna e ho chiesto un anno di permesso; non so ancora se andrò in America - tutto è incerto. Questa guerra è per me una vera tragedia. Bisognerebbe avere quindici anni, ora, oppure settanta, ma non cinquanta, quanti ne ho io tra poco; è come amputare a uno due gambe sane senza narcosi. Se l'Italia ne rimane fuori, dovrà assumersi una grande responsabilità culturale: compiere, cioè, tutto quello che gli altri paesi saranno costretti a trascurare durante i prossimi dieci anni.» SU

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4] Il suo appartamento, la biblioteca, i preziosi dipinti, tra cui «La città che sale» di Umberto Boccioni. Cfr. LAURETO RODONI, Caro e terribile amico, passim e la lettera a Kurt Sobernheim del 16 settembre 1914, nº 179, p. 265. SU

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5] Ibidem. SU

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6] Cfr. Marc-André Roberge, «Ferruccio Busoni in the United States», in American Music (Sonneck Society) 13, nº 3 (autunno 1995), pp. 295-332. SU

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7] Lettera a J. Oppenheimer, 11 settembre 1914, nº 178, p. 264. SU

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8] Cfr. le lettere del 3 gennaio 1915 al grafico Struck: «[...] ich muss, noch heute, reisen...» [Archivio L. Rodoni, Biasca] e a Edith Andreae, nº 184, p. 270. SU

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9] Ibidem. SU

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10] Ne fa allusione in una lettera a Egon Petri del 10 gennaio, scritta dalla nave. Nella stessa si augura, a partire dal momento del suo ritorno di «proseguire soltanto in linea retta». [nº 186, p. 271] Cfr. il titolo del mio saggio sull'esilio zurighese: Die gerade Linie ist unterbrochen. SU

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11] Lettera del 29 marzo 1915 a Egon Petri, nº 189, p. 277. SU

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12] «[...] non riesco a vincere la sensazione di perdere qualcosa di insostituibile, e la Sua descrizione dello splendore di Berlino mi rende insopportabile il mio detestato esilio.» (A Edith Andreae, 23 giugno 1915, nº 196, p. 285); «In questo momento a Berlino è sera, tra le 9 e le 10. La vedo girare l’angolo del Nollendorfplatz e mi rammarico (tanto!) di non poterLa incontrare» [a Hugo Leichtentritt, 15 agosto 1915, nº 202, p. 294]; «Je souffre de ne pouvoir revoir mon habitation, qui contient tout ce que j’ai ramassé pendant 20 ans de séjour à Berlin; de voir interrompre l’execution de projets bien initiées, qui représentaient le fruit d’un temps aussi longue, on peut dire le résultat d’une vie. [...] Je sens le faux de ma situation et j’éprouve un invincible besoin d’émotions d’un autre ordre. J’espère donc fortement de revenir en Europe pour y trouver ce que mon âme cherche [a Isidor Philipp, 27 maggio 1915]. SU

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13] «Non può immaginare quanto limitato e limitativo sia questo paese. Dover trovare sempre e soltanto in se stessi ogni stimolo, ogni bellezza, ogni umanità, produce una rabbia dolorosa, tutto quel che ne vien fuori è grigio, non dissimile dalla ‘teoria’, senza vita e senza scopo» [a E. Andreae, nº 196, p. 285]. SU

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14] «Quando non si è più padroni dei propri movimenti, la vita non è più nulla. Non importa se ciò sia dovuto a malattia, età, carcere o... ai mezzi gloriosi dei tempi presenti.» (Ibidem); «Sono tanto solo e isolato.» [A Harriet Lanier, 2 luglio 1915, nº 197, p. 287.] «Oui, j’ai travaillé et je travaille. Je ne peux pas en faire moins, et au même temps ce continuel travail abstrait, ‘à l’azur’ (comme on dit en italien) m’exaspère. » [A Isidor Philipp, 27 maggio 1915] SU

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15] «Per quanto tempo dovrò continuare a condurre questa triste esistenza? È molto dura.» [A Egon Petri, 12 aprile 1915, nº 190, p. 278]. In una lettera a Isidor Philipp del 15 maggio 1915 parla di «indécision orageuse et opprimante pour tous ceux qui sentent et pensent». SU

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16] «Cerco di lavorare, ma il lavoro rifugge da me. Ho però progetti ben fermi» [a Emile Blanchet, 17 marzo 1915, nº 188, p. 275]; «Non sono ancora abbastanza vecchio per rinunciare, non più abbastanza giovane per perdere le occasioni. Non mi rassegnerò mai a questa criminale amputazione della mia vita» [a Edith Andreae, nº 196, p. 286]; «Néammoins je ne desespère pas. Votre grand David a passé par toutes les formes d’inquiétude sociale et a sû toujours travailler. créer; pour les Rois, les Empereurs, les Consules! En prison, en exil! C’est curieux à voir, et même surprenant, comment l’art ne se laisse abattre, et comment, seule, elle survit les époques historiques, qui, d’elles, prendent leurs noms. Ainsi la Renaissance et l’Empire. - Et l’amitié, et l’amour et l’avenir perpetuel - voilà qui ne cesse jamais» [a Isidor Philipp, 15 maggio 1915]; «Je continue à travailler, (je mêne la vie d’un savant) mais cette application m’obsède...» [allo stesso, 5 luglio 1915]. SU

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17] «Et j’ai presque terminé un ‘Rondeau harlequinesque’ pour orchestre, morceau qu’on pourrait appeler ‘caricature sérieuse’ comme l’est Don Quijotte ou sont les compositions de Goya. J’ai vu une fois en Italie et sur la scène un acteur représenter le personnage d’Arlecchino, qui m’a laissé une grande impression, pour la force presque tragique (au moins héroïque) du caractère. Sur ce souvenir et avec l’aide de ma petite filosofie personnelle, j’ai bâti un ‘libretto’ en un acte, dont ce morceau d’orchestre est une espèce de Résumé» [ibidem]. Lo terminerà l’8 giugno (cfr. la lettera a Frederick Stock scritta quel giorno, nº 194, p. 282). SU

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18] Uno dei motivi per cui trascorre l’estate in America è proprio la stampa di quest’opera, col quale credeva «di aver concluso il lavoro della sua vita su Bach» [a Hugo Leichtentritt, nº 202, p. 294]. Nella stessa lettera scrive infatti: «Che non La [H. Leichtentritt] possa incontrare dipende in parte da questo ‘blessed’ Bach, che non potevo abbandonare qui incompiuto: per causa sua ho mancato ‘il’ momento del ritorno... » Cfr. anche la lettera a Isidor Philipp del 27 maggio 1915: «Fantaisie indienne, Goldberg, Clavecin sont tous prêts. SU

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19] «Die Götterbraut» [cfr. la lettera a Egon Petri del 16 maggio 1915, nº 195, p. 284]. SU

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20] «Ho proposto al sig. Schirmer un progetto comune riguardo la mia commedia in un atto, ma egli ha reagito con tanto evidente riserbo che ho ritirato la proposta. Mi aveva spinto l'idea di avere un obiettivo preciso che mi aiutasse a passare l'estate, se fossi costretto a trascorrerla in America. Ma questa, e altre delusioni, mi hanno convinto a rimanere fermo nel mio proposito di lasciare il Suo paese. [...] la partenza, quando avverrà, sarà definitiva» [ad Harriet Lanier, 17 maggio 1915, nº 192, p. 281). «Ainsi je ne pense qu’à revenir en Europe, pour travailler aux fortification artistiques, autant qu’il m’est donné de le faire» [a Isidor Philipp]. SU

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21] Lettera a Edith Andreae, 23 giugno 1915, nº 196. Cfr. anche la lettera inedita a Isidor Philipp del 5 luglio 1915: «Je crois que je ‘filerai’ et en passant pour l’Italie, je me rendrai en Suisse.» SU

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22] Cfr. la lettera del 6 agosto 1915 ad H. Lanier, nº 200, p. 291. Nei primi tempi forse sperava di tornare in Germania, ma dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915, la sua situazione si complicò a tal punto che dovette scartare questa possibilità. Tamara Levitz, autorevole studiosa di Busoni, sostiene che le autorità tedesche gli proibirono di rientrare a Berlino. «He had hoped to return to Germany, but when Italy entered the war in 1915 German authorities had prohibited him from returning. Parodoxically, the Italian authorities also began to view him with distrust because he had spent most of his adult life as a resident of Germany. Thus Busoni had settled in Zurich, where, despite the war, international culture had continued to thrive among a large emigre community of artists, musicians and writers. Busoni enjoyed great artistic success, a comfortable lifestyle, and a close circle of friends while in Zurich, yet always felt limited by the Swiss environment.»
Il 15 agosto del ‘15 scrive al Leichtentritt: «Che io possa restare in America ora è escluso e anche, come temo, che possa rientrare a Berlino.» SU

[23] Lettera a Isidor Philipp, New York, giugno 1915. Quell’aggettivo «pratique» potrebbe avallare l’ipotesi della Levitz, non suffragata da documenti, secondo cui le autorità tedesche gli avrebbero proibito di rientrare in Germania (cfr. nota precedente). SU

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24] «Ho letto oggi che a Roma mi si accusa di non esserci andato quando mi si aspettava. Hanno perfettamente ragione, non ci sono scuse. Può essere scusabile in tempo di pace, quando si può essere facilmente sostituiti; è quasi imperdonabile in tempo di guerra, quando un paese (il proprio paese) soffre privazioni, a cui persino le mie deboli forze possono portar sollievo. È comprensibile che nessun artista tedesco e austriaco vada a Roma (ed è triste che glielo si vieti), ma un italiano! -- D'altra parte un giornale berlinese mi accusa (anch'esso pubblicamente) d'essermi fatto vedere al Metropolitan in compagnia del sig. Saint-Saëns! È ridicolo. E pensi che la notizia di tanto importante incidente è stata trasmessa per cablogramma! - Ecco che sia i tedeschi che gli italiani sono arrabbiati con me. - Almeno in qualche cosa vanno d'accordo» [ad Harriet Lanier, 18 luglio 1915, nº 198]. Paradossalmente anche l’Italia era diffidente nei suoi confronti, poiché aveva trascorso molti, troppi anni in Germania. Del resto, dopo la negativa esperienza come direttore del Liceo Musicale di Bologna, Busoni non era certo smanioso di soggiornare in una nazione che riteneva culturalmente arretrata, nella quale, come già scrisse a Petri nel 1912, «è difficile concentrarsi sul futuro» poiché «deve ancora raggiungere il presente». SU

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25] Nel testo originale: «verhasstes Exil». SU

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26] «Ognuna delle cinque visite è stata una delusione, e ogni volta sono tornato con fede e aspettative rinnovate. Ho cercato di dare il meglio di me, ma l'hanno rifiutato pretendendo la mediocrità. Il risultato (e non poteva essere altrimenti) è stato insoddisfacente per ambedue le parti. [...] Tutte le mie più dure fatiche e quel che ho compiuto durante una vita intera non hanno nessun valore per i managers americani e per il pubblico di questo paese. Coloro che mi hanno ascoltato o che mi hanno conosciuto di persona mi hanno apprezzato (e ne sono loro grato); ma l'eco dei miei sforzi rimane limitata a questo pugno di persone. [...] ho tentato, al costo di lunghe e profonde riflessioni e di molte sofferenze, di perfezionare le mie vedute umane e filosofiche sull’umanità, sulla morale e sulle credenze, e trovo che qui non sono compreso, che vengo soffocato e risospinto indietro su posizioni che ho già felicemente superato e scartato. Questo è un atteggiamento dei vostri cittadini, di cui non ci si accorge o di cui non si prende nota se si è un visitatore occasionale, che attraversa il paese di volata, spinto dagli obblighi di un contratto: ma si comincia a sentirselo pesare addosso se si vive sotto le vostre leggi, che sono nominalmente libere ma vengono interpretate con una crudele ristrettezza mentale e una severità senza misericordia. E, per finire, l'eterno argomento danaro e ‘pagamenti’ e successo finanziario [...] mi deprime; dato che questo argomento viene messo in tavola a ogni passo e per ogni quisquilia, finisce coll'assumere un carattere maniacale. [...] la tendenza a produrre velocemente, a buon mercato e in grandi quantità, mi disgusta. Il risultato è la distruzione dell'individualità, che è (o era?) una delle qualità più preziose degli uomini — e anche degli oggetti. (Ad H. Lanier, 6 agosto 1915, nº 200, pp. 291-292.) Cfr. inoltre la lettera successiva alla stessa (nº 203, in particolare la p. 297). SU

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27] Il primogenito Benvenuto è invece rimasto negli Stati Uniti (essendo nato a Boston - nel 1892 - aveva anche la nazionalità americana); raggiungerà la famiglia a Zurigo nel settembre del 1919. SU

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28] «He had been driven out of America by an overwhelming sense of disgust - dégôut is the word he used, and the French word used in a German sentence might perhaps be better translated 'intellectual and moral nausea'.» (DENT, p. 227) Cfr. anche la lettera a Isidor Philipp del 19 settembre 1915 (nº 204, p. 299): «Mi son dovuto strappare dall’America che mi uccideva.» SU

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29] Lettera a J. Oppenheimer, 27 settembre 1915, nº 205, p. 300. SU

**Le lettere citate con pagine e numero sono tratte da LETTERE... Sui destinatari ci sono brevi cenni biografici in fondo al volume. La data di morte di Emilio Anzoletti è errata. Questo grande amico di Busoni non morì infatti nel 1950, ma, come gentilmente mi ha comunicato il figlio Antonio, il 7 Agosto 1951. SU