Lo strano sapore dell' eternità
Repubblica — 28 gennaio 1998

Pubblichiamo il discorso pronunciato ieri sera da Pietro Citati nella Basilica di San Giovanni in Laterano nell' ambito degli incontri organizzati dalla diocesi di Roma sul tema "Fede e ricerca di Dio". Nella stessa occasione è intervenuto anche Monsignor Bruno Forte, docente alla Facoltà Teologica di Napoli.

Quando i viandanti del nostro mondo scesero nell'Ade, non scorsero la regina dei morti, Persefone. La sovrana dei morti stava nelle profondità del suo regno, circondata da mostri che pietrificavano lo sguardo: pallida, senza figli, regnava su un paese dove nulla ricordava il tepore e il calore della vita. "Dai morti - dice uno scritto greco più tardo - ci vengono nutrimento, crescita e germe": ma, al contrario, nel regno di Persefone, tutto era infecondo, sterile, vuoto, - nient'altro che umidità, spettralità, immagini senza corpo né sangue, sinistro stridio di pipistrelli. Non c' era ricordo di Demetra, la regina delle messi: il seme sepolto nella terra non generava la spiga; gli alberi non portavano il frutto sino alla maturazione. Non c'era traccia di quel continuo movimento di morte e di resurrezione, nel quale gli uomini hanno sempre visto il senso della vita e dell'universo. Laggiù, nell'Ade, abitavano le anime degli eroi: senza più energia, né coscienza, né intelligenza, né memoria, né parole, i fantasmi di Achille, di Agamennone e di Aiace svolazzavano come pipistrelli. Avevano conosciuto la gloria: quanti poeti cantano le gesta di Achille e di Aiace, mentre noi, insieme ad Ulisse, ci addentriamo nelle "case ammuffite" dell'Ade; eppure proprio Achille, che aveva goduto la gloria come nessun altro uomo, - riconosce che la gloria non è niente, non serve a niente, e rimpiange la semplice vita del seme e degli alberi e degli uomini comuni che lavorano la terra. Qualche volta un inviato del nostro mondo giunge laggiù, tra gli eroi greci. Se vuole parlare con loro, immola un montone e una pecora nera. I fantasmi si abbeverano alle fontane piene di sangue: riacquistano per un momento la memoria e la parola; e conversano con noi. Ma anche allora sono soltanto ombre vane: le nostre braccia che vogliono stringerli al cuore ritornano vuote sul petto abbracciando per tre volte un'ombra. Come è angoscioso questo inutile abbraccio, che ha colpito per sempre la fantasia occidentale: nessun gesto rende così intensamente il carattere spettrale che allontana il tetro mondo dei morti dal luminoso mondo dei vivi. La rappresentazione della morte che ci ha lasciato Omero ci fa rabbrividire di terrore. Eppure è quasi lieve e serena, se la paragoniamo alla tremenda raffigurazione nei primi capitoli dell'Epistola ai Romani. In Omero la morte era soltanto fisica: quella di Paolo è totale: fisica, spirituale, razionale, inconscia, accade ieri, oggi e sino alla fine dei tempi. Quali accenti solenni e catastrofici! "A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte". Dopo il peccato di Adamo e fino all' avvento di Cristo, noi abitiamo nella morte: invasi, posseduti, affascinati, soggiogati dalla sua realtà e dal suo pensiero. E se Omero prevedeva qualche eccezione, Paolo non ammette eccezione. Tutti i patriarchi della Bibbia, anche i più cari alla coscienza ebraica e cristiana, avevano vissuto sotto il segno e il pungiglione della morte. Sul Sinai, Dio aveva promulgato la Legge. Ma la Legge, secondo Paolo, aveva dato agli uomini soltanto la conoscenza del bene e del male; e eccitato le "passioni peccaminose", suscitate dalla chiarezza con cui il peccato veniva raffigurato davanti alla mente. Così la Legge, che doveva essere la sorgente della vita, diventò lo strumento della morte. Paolo aggiungeva: "Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio il male che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato" - la forza della morte - "che abita in me". Il Peccato, il Male Assoluto non sta più fuori, sparso nella creazione. La forza imperiosa e estranea della Morte si è insinuata dentro di noi, e occupa il nostro cuore, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra volontà e la nostra coscienza. Non c' è nessuna salvezza. Tutti siamo colpevoli: tutti siamo morti, fisicamente e spiritualmente; né la rivelazione naturale dei Greci né la Legge degli Ebrei ci permettono di conoscere Dio e di operare il bene. Il paese ignoto della morte attrasse sempre molti viandanti e esploratori, che bussarono alla sua porta. Tra di essi ne ricorderò soltanto uno: Tolstoj. Egli si domandava cosa ci sia dietro quella porta: cosa comprendiamo della morte prima di morire; e con quali sguardi ci guardino i morti e guardino sé stessi e il loro paese. Era l'unica scienza che Tolstoj voleva possedere: la invidiava ai defunti e ai moribondi; qualche volta avrebbe desiderato passare di là, e tornare da noi, per informarci. Fu l'unico sogno che non poté realizzare; e scrisse sempre di nuovo intorno a quel luogo, come se le parole riuscissero a rivelargli ciò che gli occhi non potevano contemplare. La morte era, per lui, la sola realtà metafisica che forse noi abbiamo la possibilità di conoscere; e sperava, guardando verso di lei e dentro di lei, di conoscere il segreto dell'universo. Dopo un ultimo sogno, il principe Andrej Bolkonskij si avvicina al paese della morte; e di là guarda alla nostra esistenza. Ormai è estraneo, lontano, come uno che sia arrivato tra i ghiacci del Tibet o del Polo: abita in un freddo che ci pare insostenibile: stenta a comprendere ciò che esiste, ed è severo e gelido verso chi pensa alla vita. Comprende "qualcosa d' altro, qualcosa che non era compreso, e non poteva essere compreso dai vivi": una gran luce si fa nel suo intimo e, davanti agli occhi, gli si alza la cortina che aveva nascosto l'ignoto. Cosa illumina quella grande luce? Tolstoj tace. Il cuore del paese della morte ci resta ignoto. Non conosciamo cosa si estenda oltre il gelo. Forse quel grande splendore dietro la cortina è soltanto la luce della morte: una luce atea, vuota, negativa, incomprensibile ai vivi. Ci domandiamo se sia tutto qui. Della morte non possiamo dire altro? Nient'altro che l'Ade dei salici infecondi e dei pipistrelli, il paese paolino del peccato, e la luce vuota e terrificante che scorse Tolstoj? Apriamo il Fedone. Socrate sta per lasciare la terra. Come dice Fedone: "Avevo sotto gli occhi un uomo felice: felice nel suo modo di comportarsi e nei suoi discorsi; certo di trovare laggiù una felicità che nessuno aveva mai conosciuto". Socrate non ha nessuna paura di andare di là, perché là sta la vera vita e il puro esercizio del pensiero. L'immagine della morte trasforma completamente la sua esistenza: egli non teme gli spettri dell'Ade né il peccato né lo splendore negativo che visita il principe Andrej. Come una lieta irradiazione, la morte riempie la sua mente di una luce lieve e serena: regala alle sue parole una distanza e una ariosità ironica, che noi conosciamo di rado. Gli dà una specie di incantevole euforia. E così, mentre vive, non fa che corteggiare amabilmente la morte. Pensa come se fosse già laggiù, tra i prati di asfodelo: l'anima si concentra attorno a sé stessa, si raccoglie attorno a sé stessa: si purifica: diventa chiara come le erbe e le acque trasparenti dell'Ilisso; e contempla le essenze immateriali delle cose.

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Nei nostri tempi, pochi parlano volentieri dell'eternità. Non ne parlano gli scrittori: i filosofi; e nemmeno i teologi, che scorgono nell' eternità una specie di incrostazione greca, sovrapposta al messaggio di Cristo. Ciò che oggi importa è il qui ed ora; e così anche la fede cristiana diventa qualcosa di storico, che non bada al Paradiso, ma alle modificazioni della realtà quotidiana. Vorrei soltanto ricordare un fatto linguistico: la parola greca da cui deriva il nostro eterno la parola aiòn significa in Omero liquido vitale, forza vitale. Dunque, nella sua radice, l'eternità non è nulla di estraneo e di sovrapposto a noi stessi: è la nostra forza vitale, il liquido vitale, che corre nelle membra degli uomini e dell'universo e non si consuma mai. I Vangeli non parlano quasi di eternità: non descrivono il regno futuro dei giusti; perché a Matteo e a Marco, a Luca e a Giovanni importa sopratutto che il regno di Dio sia già qui, ora, tra noi, appena Gesù ci rivolge la parola. Chi rappresenta la città di Dio è l'Apocalisse, questo ardentissimo e violentissimo testo cristiano, nato dalla mente di uno scrittore imbevuto di immagini ebraiche. Siamo nella più perfetta utopia che mente umana abbia mai immaginato: la Gerusalemme celeste. La Gloria di Dio rivela la sua essenza, che finora era stata adombrata. Come un fiume incessante e tranquillo, bagna di luce una città cubica: le mura di diaspro, le fondamenta ornate di dodici gemme d' ogni colore, la piazza d' oro trasparente, le dodici porte di perla, sempre aperte al passo dei pellegrini: il trono di Dio, dal quale scaturisce un fiume di vita scintillante come il cristallo; e "l'albero della vita", dal quale una volta la spada guizzante dei Cherubini aveva allontanato Adamo ed Eva. Nella Gerusalemme celeste, non troviamo più l'albero della conoscenza del bene e del male, dal quale Adamo ed Eva avevano mangiato il frutto. Nessuna assenza è più significativa. l'albero della conoscenza aveva diviso l'universo secondo le forme opposte del bene e del male: aveva instaurato nel mondo unitario delle origini la separazione e l'antitesi: da una parte il bene dall' altra il male, da una parte il sacro dall' altra il profano; e poi via via il puro e l'impuro, la virtù e il peccato, il permesso e il proibito, la legge e la violazione, la vita e la morte. Con la scomparsa dell' albero della conoscenza, tutta la storia dell'universo, col suo terribile seguito di peccati e di orrori e di virtù inutili, viene abolita con un solo gesto. Rimane soltanto l'albero della vita. Così, finalmente, siamo entrati nel paese dell' eternità, - del quale l'albero della vita è il vero nome. Conosciamo la vita eterna: l'unità armoniosa tra gli opposti, la luce incontaminata, il Bene assoluto, che ignora sia la nostra virtù sia il nostro peccato. Tutti i templi della terra sono scomparsi; e con loro sono finiti i riti, che innalzavano preghiere e domande verso l'alto. Tra Dio e l'uomo è caduta la distanza che teneva lontani il cielo e la terra, il sacro e il profano: qualsiasi separazione e mediazione. Ora l'uomo abita in Dio e in Cristo, che sono diventati il suo tempio: contempla il volto di Dio; e pronuncia il nome segreto di Cristo. Se alziamo gli occhi verso il cielo, non scorgiamo né il sole né la luna. Ora la luce scende direttamente dalla gloria di Dio. Quale luce, come racconta il Paradiso di Dante: luce nella luce, favilla nella fiamma, chiarore nello splendore; luce che si rispecchia, si riflette, trova sempre nuovi echi e modulazioni; luce che invade ogni forma dell' essere, diventa gioia, riso, amore, ardore, danza, canto musica. Se fossimo allievi di Platone, potremmo credere di essere penetrati nel luogo dove tutto è immobile: dove le Idee stanno ferme, sempre uguali a sé stesse, senza trasformazione né mutamento, sopra il loro piedestallo sacro. Ma abitiamo l'eternità cristiana. E nella Gerusalemme celeste, esiste ancora il movimento: ci sono dei mesi, frutti vengono a maturazione, re e nazioni entrano dalle porte sempre aperte della città cubica. Non c' è nessuna pagina ultima, nessuna sosta definitiva, nessuna meta raggiunta per sempre; l'eterno, invece di fermarsi e di cristallizzarsi in un punto immobile, si muove senza fine, come il rivo d' acqua che scaturisce dal trono, come "la sorgente d' acqua che - nel Vangelo di Giovanni - zampilla verso la vita eterna". Così accade nel Paradiso di Dante. Quando entriamo nell' Empireo, dove tutto dovrebbe arrestarsi in Dio, non scorgiamo che movimento: ecco un mobile fiume fulgente, e le faville-api degli angeli che escono incessantemente dal fiume, posano sui fiori, lasciano i fiori e sprofondano nell' acqua luminosa, e così via, senza fine.

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Molti poeti moderni hanno calunniato il tempo. Baudelaire ha parlato di lui come di "un nemico vigilante e funesto": ha detto che l'orologio - il suo servo - è un "dio sinistro, spaventoso, impassibile, il cui dito ci minaccia e ci dice: Ricordati!". Flaubert l'ha rappresentato come un carcere: come uno "stagno dormiente", dove tutte le cose si ripetono e si accumulano l'una sull' altra. Ma Eraclito ha detto: "Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno". Baudelaire e Flaubert hanno dunque torto: il tempo non ha nulla di pesante, non è un carcere né uno stagno. Il vero signore del tempo è un bambino che gioca: un bambino che mette in tutto ciò che fa una sovrana ironia e leggerezza. Noi dobbiamo soltanto apprendere il suo ritmo: accettare la sua velocità, il suo capriccio, il suo sorridente sfruttamento del caso, la sua delicata follia. Nel Timeo Platone dice che il Padre ha cercato di rendere eterno il mondo. Questo tentativo fallisce: eppure il tempo, sia pure di qualità inferiore al suo modello, diventa tra le mani del Padre, "una imitazione mobile dell' eternità". Parola stupenda: il tempo non ci soffoca e non ci imprigiona. Il suo infinito fluire, il suo movimento ciclico, il susseguirsi ritmato delle ore, dei giorni, dei mesi, delle stagioni, degli anni, questo scintillio effimero di momenti, questa rincorsa di era, è e sarà è un'imitazione mobile dell' eterno. Stiamo assistendo al gioco del bambino davanti alla dama: tutte le sue mosse alla scacchiera, tutti i suoi spostamenti di pedine, tutte le sue vittorie, le sue sconfitte, quella partita che non finisce mai, è il gioco che egli conduce con la nostra esistenza. Non importa che noi siamo soltanto le pedine di un divertimento infantile: questo è, anzi, il nostro piacere più acuto. Anche i primi cristiani vivevano come se il tempo fosse una imitazione dell' eternità. Secondo Giovanni, Gesù aveva esclamato: "In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio". Dunque i primi cristiani, sebbene abitassero in un presente malvagio, erano già redenti: erano già salvi; conoscevano il battito mobile dell' eternità e lo assaporavano, da quando avevano ascoltato la parola di Cristo. Vivevano nell' attesa di ciò che, nella sostanza, si era già compiuto come il figlio nel grembo della partoriente. "Noi sappiamo - diceva Paolo - che fino ad ora tutto intero il cosmo geme e soffre le doglie del parto. Né soltanto esso, ma anche noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro noi, anelando all' adozione in figli". Con quale ora paziente ora furiosa attesa Paolo si protendeva verso gli ultimi tempi. Quale imminenza apocalittica lo afferrava. Lui, che si dichiarava già salvo, aspettava il vento del futuro, le trombe dell' avvento, la gloria luminosa e incorruttibile della Resurrezione. Qualche volta i grandi scrittori e i grandi libri della letteratura moderna ci ricordano l'estasi e l'attesa cristiana. Penso a Tolstoj giovane, che voleva vivere nel tempo, ma con una furia, una violenza, una velocità, una tensione indemoniate: gli orologi battevano così rapidamente da non lasciar più avvertire il ritmo dei loro colpi. Pretendeva che la vita restasse sé stessa: nient'altro che un attimo di corpo e di tempo; eppure balzasse contemporaneamente oltre un limite, diventando un misterioso aldilà, una rivelazione dell' invisibile e dell' oltretempo. O penso alle fantasie di Tolstoj vecchio. Immaginava di avere vissuto molte vite. Esse erano dei sogni, incastrati l'uno nell' altro: sognando aveva vissuto la vita precedente, di cui non ricordava più nulla: questa vita, che conduceva in Russia all' inizio del nostro secolo, era il risveglio da quel sogno; e poi sarebbe morto e rinato, scivolando di sogno in sogno. Alla fine di ogni esistenza si sarebbe risvegliato: in quell' istante, liberandosi dai confini della propria forma, sarebbe balzato fuori dallo spazio e dal tempo; e la particella divina, che abitava il suo corpo, si sarebbe avvicinata a Dio, tendendo alla completa fusione con lui. Kafka rileggeva i primi capitoli della Genesi e li trasformava. Nella Genesi i Cherubini proteggono con "la fiamma della spada guizzante" il giardino di Eden dal ritorno degli uomini: Kafka ci assicura, invece, che Eden esiste ancora oggi ed è fatto soltanto per noi. Malgrado la cacciata, l'indistruttibile che era in noi non è stato distrutto: il peccato originale non ha cancellato la nostra natura. Kafka aggiungeva una notizia ancora più consolante. Non solo il Paradiso è sempre aperto, ma noi lo abitiamo: viviamo lassù, mentre soggiorniamo nel tempo, anche se pochi o forse nessuno se ne rendono conto. l'eterno è già qui; e una parte di ognuno di noi vive accanto all' albero della vita, fiore di ogni eternità.

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Nel santuario di Eleusi, il sacerdote invocava la dea Demetra, percuotendo una lastra di bronzo. Poi accendeva una grande fiamma: apriva la porta del santuario segreto, diffondeva la luce nel tempio, e levava in alto una spiga, che mostrava a tutti i fedeli. Questo era il culmine dei Misteri di Eleusi. Molti secoli più tardi, la stessa immagine ritorna in Paolo e in Giovanni. "Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore", diceva Paolo. E Giovanni faceva dire a Gesù: "È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell' uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto". Siamo giunti nel cuore della Grecia e del Cristianesimo. Ciò che importa più di ogni altra cosa è il ciclo della metamorfosi: quella metamorfosi che crediamo di scoprire innocente e gioiosa nelle forme della natura, le quali si contraggono e si espandono, cambiano aspetto e funzione, guizzano e scivolano via davanti a noi, rinunciano a qualsiasi figura, più cangianti di Proteo, più veloci delle creature del mare. Anche la nostra vita è una metamorfosi incessante. Solo se ci perdiamo nel sonno, possiamo conoscere il giorno. Solo se attraversiamo la tenebra, raccontiamo la luce. Solo se obbediamo all' abitudine, sperimentiamo la novità e la freschezza della vita. Solo se conosciamo profondamente il Male, narriamo le vittorie del Bene. Solo se diventiamo natura, ci trasformiamo in creature umane. Solo se moriamo nelle profondità della terra, come il seme di Eleusi e di Giovanni e di Paolo, rinasciamo come creature spirituali. Ma la metamorfosi esige da noi un'immensa sofferenza. Dobbiamo morire: abbandonare la nostra forma: assumere un' altra forma: rinunciare a noi stessi, e niente è più doloroso di questa lacerazione, che ci fa a pezzi e ci muta. Gesù era Dio. Viveva presso Dio; e per testimoniare la luce, si fece carne e si attendò tra di noi. Vuotò sé stesso, prese forma di schiavo. Come dice Paolo, con una audacia teologica che dopo tanti secoli ci sembra ancora vertiginosa - diventò egli stesso peccato. Salì sulla Croce, fu strappato, lacerato, fatto a pezzi: entrò nella morte e vinse la morte, entrò nel peccato e ci liberò dal peccato: e risorse, per mostrare che l'antichissimo ciclo della morte e della resurrezione si adempiva, con angoscia sovrumana, anche in un corpo divino. Alla fine dell'ultima cena, Gesù e i suoi discepoli andarono al Monte degli Ulivi. Egli prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e raggiunse il Getsemani. "Incominciò a rattristarsi e a provare angoscia. Allora disse ai discepoli: "L'anima mia è triste fino alla morte. Aspettate qui e vegliate insieme a me". Poi, fattosi un po' più avanti, si prostrò sulla faccia pregando e dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi tu". Possiamo supporre che Gesù non sopportasse nel pensiero la passione decisa da Dio: quell' assumere su di sé la morte, dopo aver assunto la carne e il peccato. O immaginare che egli non tollerasse di venire allontanato da Dio, abbandonato, lasciato solo, sulla Croce; ed esposto alla nuda potenza del Male. In quelle parole disperate, Gesù mise in dubbio per un momento che la sua passione fosse l'unica strada per redimere gli uomini: forse c'era un' altra strada, che Egli non vedeva, e che Dio vedeva, la quale non esigeva la Croce. La sua era una domanda: essa attendeva una risposta; nel più devoto dei Vangeli, quello di Luca, a Gesù apparve un angelo del cielo che lo rincuorava - un cenno di conforto da parte di Dio. Ma Matteo e Marco sono molto più spietati di Luca, e non alleviano in nessun modo l'abisso che, per un momento, si stabilisce tra Dio e suo figlio. Nessuna parola divina, nessun angelo, nessun conforto scendono dall' alto: il cielo è muto; o se Dio dice qualcosa, solo Gesù la comprende. Noi la ignoriamo, e conosciamo soltanto il silenzio tremendo di Dio. Poi per la seconda volta, Gesù si allontana dai discepoli e prega: questa seconda preghiera non è più una domanda come la prima, ma una risposta; una risposta a una risposta ignota di Dio. "Padre mio, se non è possibile che questo calice passi da me, senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà". Ora tutte le riserve e i dubbi e i timori, sono caduti: Gesù ha accettato il calice dell' ira divina: la crocifissione, la lacerazione, la resurrezione - scendendo sino in fondo nell' abisso della metamorfosi.