Quando gli uomini scoprirono il mare
Repubblica — 10 agosto 2009

IL MARE è un'invenzione recente. Parrà strano, se la civiltà europea nasce, nel VII-VI secolo avanti Cristo, coll'Odissea, il più bel libro sul mare che sia mai stato scritto. Tutto, nell'Odissea, sa di mare: il mare ora biancastro, ora schiumoso, ora grigio, ora scuro come il vino. Lo zefiro urla fresco, gonfia le vele, l'onda urla forte contro la chiglia: la bonaccia dura un mese, interminabile e funeraria: Poseidone spinge le nuvole, agita le acque, aizza i venti, che si scagliano selvaggiamente contro le navi e le zattere: nella tempesta, i marinai annegano miseramente: scagliato contro le scogliere, si salva un uomo solo, che afferra di slancio la roccia, vi si aggrappa con le mani, e si regge come un polipo piagato. Ci sono i mostri, con dodici piedi e dodici teste; e si sente il profumo acutissimo e tenebroso degli abissi marini. Tutto rivela la vitalità, la complessità, la molteplicità, l'ironia, la perenne ed elusiva metamorfosi delle acque. Dall'altra parte sta la Bibbia. Là Dio non aveva creato il mare: l'aveva trovato davanti a sé, prima che egli cominciasse a creare; e quelle onde nere e tumultuanti erano il residuo dell'abisso originario. Esso continuava a minacciare la terra: l'avvolgeva, la corrodeva, rischiava di sommergerla nei suoi gorghi furibondi. Così Dio tenne lontano il mare: lo delimitò con due battenti; e gli ordinò: «Fin qui giungerai e non più / e qui le onde si deporranno con furia». Poi, nell' Apocalisse immaginò che, in un giorno alla fine dei tempi, il mare sarebbe stato abolito, mentre sulla terra scendeva soavemente la Gerusalemme celeste. Per molti secoli, la Bibbia sconfisse l'Odissea: ancora nel Cinquecento si pensava che il mare fosse Caos e Orrore. La vera invenzione del mare avvenne nel Settecento, quando il Sublime conquistò l'Europa. Il mare era il Sublime. Faceva pensare a Dio più di qualsiasi dimostrazione religiosa: provava all'uomo la sua limitatezza: attraeva per il vuoto che ne occupava il centro: suscitava lo stupore ed il terrore: risvegliava l'immagine dell'inconscio, della madre, del sonno, della morte. Non aveva limiti, e suscitava il desiderio dell'infinito. Era molteplice, contraddittorio, minuzioso, pulviscolare, iridescente. Gettarsi nelle onde significava attraversare il tempo, risalendo fino alla materia originaria. Presto nacque una terapia marina. I medici non raccomandavano, come potremmo credere, il bagno sulle rive miti e luminose del Mediterraneo. La spiaggia meridionale era pericolosa: l'ardente, il soffocante, l'umido, il vaporoso, lo stagnante, il corrotto. Il clima caldo provocava il declino delle forze vitali, la sterilità, il disseccamento. I medici consigliavano il bagno freddo. Alla fine dell'estate, quando il mare misurava meno di dodici gradi, il malato e il malinconico dovevano gettarsi nelle acque tumultuose e furiose dell'Atlantico e del Mare del Nord. La violenza delle onde gelide calmava le ansie, le angoscee le nevrosi. Byron imparò a nuotare. Varcò con noncuranza lo stretto dell' Ellesponto, (i Dardanelli) molte miglia marine. Ma confessò che era stata una cosa da nulla: solo attraversando l'estuario del Tago, aveva provato la spossatezza e la paura.

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Ho conosciuto, per molti anni, due mari. Quando ero bambino, passavo le estati - lunghissime, amatissime estati, estati interminabili, che cominciavano il primo giugno e finivano il trentuno ottobre - in un paese della Riviera ligure di ponente. La costa era rocciosa: spiagge di sassi, scogli disseminati nel mare, scogliere di ogni specie - a forma di piccoli porti, di granchi, di pesce vorace, di stranissime caramelle. Lontanissima, nelle mattine chiare, si intravedeva la Corsica; e la fantasia infantile immaginava le distanze del Mediterraneo, verso le quali partivano le navi dei pescatorie dalle quali giungevano le navi dei pirati saraceni, che saccheggiavano e rapivano donne. Là, il mare era il vero elemento, che misurava la esistenza di un uomo e ne disegnava le tappe. A cinque anni, i bambini si avventuravano al largo. La meta era la Ciappa, uno scoglioa cinquantao sessanta metri da riva, che dava l'impressione di stare sempre per uscire dalla superficie. I bambini raggiungevano la Ciappa; posavano i piedi sopra un foltissimo tappeto di alghe, e di lì salutavano trionfalmente la madre e i fratelli rimasti a riva. Era una specie di iniziazione. Il bambino era diventato uno di quelli che erano stati alla Ciappae veniva guardato, dai sui coetanei, con maggior rispetto e considerazione. La vera iniziazione avveniva qualche anno dopo. Quando i ragazzi raggiungevano i quattordici anni, tentavano una prova molto più difficile. Andavano al largo, e attraversavano a nuoto i quattro-cinque chilometri che dividono la punta di Capo Cervo da quella di capo Berta. Chi ci riusciva veniva accolto in una specie di Empireo. Era una consacrazione di maturità, molto più importante degli esami scolastici, perché bisognava avere molto fiato, nessun timore, conoscere l'arte di seguire o contrastare le correnti e quella di nuotare lentamente, come Lord Byron nell'Ellesponto. Il bambino diventava adulto. La vita non aveva più segreti per lui: poteva sfidare il futuro, la guerra, la morte. Il mare era la fonte di ogni divertimento e di ogni piacere: come erano pallide, al confronto, le gioie del pallone e della bicicletta! Le onde rivelavano la natura giocosa dell' universo: un fluire e rifluire, un respirare e inspirare, un improvviso infuriarsi, incollerire, scatenarsi - e poi la beatitudine immacolata della bonaccia. Così il ragazzo doveva giocare col mare come il mare gioca con noi: ascoltare i venti e le correnti, godere le tempeste e le accalmie, solcare le onde, lasciarsi portare, vincerle con l'impeto e con la furia. Le spiagge si affollavano nei giorni di mare grosso. Arrivavano i cavalloni, moltiplicati dalla strettezza del golfo. I ragazzi erano posseduti da una specie di ebbrezza. Si buttavano nelle onde a capofitto, ne emergevano con la testa, gridavano di gioia, urlavano una parola di richiamo, si lasciavano travolgere, moltiplicavano con le braccia la spinta dell' acqua, si affollavano, si scontravano, riemergevano con le costole e i ginocchi insanguinati. Il pomeriggio era il tempo delle avventure lungo la costa. Ci si armava di reti, coltelli, fil di ferro, limoni, fiammiferi; e saltando, arrampicandosi, balzando da un sasso all' altro, nuotando, si procedeva verso oriente. La cosa più semplice era staccare le rosse e scure patelle dagli scogli, e succhiarle immergendole nel limone. l'impresa più ardua era la battaglia con le fangulle - stupendi granchi pelosi e rossastri che si annidano nelle cavità e di lì guardano il mondo con occhi balenanti e trascoloranti. Appena le avvistavamo, immergevamo il coltello o il robusto fil di ferro nella cavità: le fangulle si difendevano con le grosse chele; cercavano di spezzare il ferro, coprivano il capo e gli occhi, spossavano l'aggressore, fino a quando, con una voluttà che non avrebbe potuto essere più crudele, immergevamo la nostra arma nel capo e negli occhi sguarniti. Alla fine della caccia, accendevamo i fuochi lungo la riva: i granchi e le fangulle venivano infilate nel fil di ferro, arse, e mangiate avidamente.

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Dopo tanti anni, ho cambiato mare. Ora sono nella Toscana meridionale, nel luogo dove Italo Calvino ha scritto Palomar, dove Carlo Fruttero si è divertito ad imitare tutte le voci femminili del Piemonte, in Donne informate dei fatti. Gli alberi si sono moltiplicati. Quei pochi ulivi, quei magri carrubi liguri sono diventati immense foreste di pini. Come sono grandi questi pini; e come è bello restare per ore a seguire con lo sguardo le altissime ramificazioni, i complicati intrecci, i fantastici ricami arborei, che Altdorfer avrebbe adorato. In basso si affollano i cespugli della macchia mediterranea: invadono i prati artificiali, nascondono le case; l'erica, il mirto, il rosmarino, il corbezzolo, il lillastro, il sorgo, a cui qualcuno ha aggiunto le foglie brillanti del pittosforo. A primavera, il profumo degli arbusti è così intenso che colora e odora i pensieri, e nella mente non rimane nulla di vuoto. Nessuno nuota, tranne una signora bolognese dalle possenti braccia, e un delfino dagli occhi celesti di cui non conosco né il nome né la provenienza. Il mare non appare più come un elemento, né la fonte e l'origine delle cose. Non c' è più il gusto di odorare il salso, di seguire e contrastare le correnti, di guardare le isole sullo sfondo, di intravedere l'infinito. Mi sembra una gravissima perdita dei sensi e dell'anima. Appena le signore arrivano sulla spiaggia, si ungono e domandano. "Come è il mare oggi? Fa freddo?" (siamo nel caldissimo luglio) "E ci sono le meduse?" (le meduse sono diventate le incarnazioni moderne della Piovra). Poi immergono un piede, o al massimo un polpaccio, e nel caso estremo il bacino. Il bagno è finito. Ritornano sulla sdraio, o sotto i capanni, o sui lettini: prendono il sole e chiacchierano inesauribilmente; cosa possano dirsi per tre o quattro ore di seguito, senza interrompersi mai, non riesco a capire. Se sono sole, non giungono nemmeno alla riva: parlano con il telefonino, per tutta la mattina o il pomeriggio. Quando arrivano i mariti, li odi raccontare barzellette: ciò che le mogli non fanno mai, a segno della superiorità definitiva della donna sull' uomo. I bambini si affollano sulla riva. Vorrebbero fare il bagno. Ma i padri e le madri sono sempre lì a sconsigliare. "Non, non si va in acqua, stamani hai il raffreddore. Stanotte - sai che mammina non dorme mai, si appisola appena - ti ho sentito tossire. No, hai gli occhi rossi. No, hai il cerume nelle orecchi. No, ieri hai avuto male al pancino. Nient'affatto, non se ne parla nemmeno, stamattina in mare hanno visto delle meduse, grandissime, e ti fanno bruciare la pelle. No, c'è la tracina, e ti punge il piede". Così il mare, che guarisce tutte le malattie, diventa un incubo inattingibile e popolato da mostri. Per fortuna, ci sono i bambini. Quando li vedo correre in bicicletta nella pineta, mi viene in mente la bellissima scena di E. T. di Spielberg, quando i ragazzi corrono, infuriano, danzano, si inseguono in bicicletta sulle colline degli Stati Uniti. Anche qui, la mattina verso le nove, e poi alle quattro del pomeriggio, la pineta si riempie di bambini velocissimi che si slanciano verso il mare. Sono in gruppi: corrono, si sopravanzano, si arrampicano su brevi rialzi, scendono, sfiorano gli alberi di pinoei cespugli di rosmarino, si scontrano, cadono, si sbucciano le ginocchia. Nessuno, per fortuna, li controlla. Poi giocano: con l'acqua e la sabbia, elementi coi quali si può fare assolutamente tutto. Costruiscono castelli, con torri, alti ponti levatoi, merli, cannoni fatti di stecchi: ciò che i bambini facevano già nell'Iliade, e li buttano giù con le mani e i piedi, senza nessuna ragione, esattamente comei bambini dell'Iliade. Costruiscono porti profondi, che l'acqua invade: o meravigliose piste per giocare con le biglie, con sottopassaggi, incroci, ostacoli, precipizi e trucchi; o indossano le pinne, o spruzzano gli amici, giocano al pallone in acqua, o scivolano lungo le tavole da surf. Ma nessuno nuota. C'è una sola eccezione. Una bambina di circa sette anni, con un viso sfrontato, impudente, avventuroso, che sembra creato dal genio del riso. Trascura i giochi sulla spiaggia. Appena arrivata, infila il costume, come uno strumento di guerra. Non ha paura di niente. Nuota benissimo. Quando la madre l'accompagna, appoggiandosi ogni tanto ad un canotto (ma il meno possibile), nuota verso la boa, che sta a duecento metri da riva: è il suo Ellesponto. Ritorna a terra, si asciuga, ritorna subito in mare, nuota sott'acqua, spruzza il fratello e due amiche. Continua così, sfrenata e insaziabile, per tre ore, convinta che i piaceri della via sono inesauribili. Quando è sfinita, le viene sonno: non ha la forza di tornarea casa in bicicletta; e mentre si siede a tavola si addormenta sulla amatissima pastasciutta al pomodoro.