Tutti i dolori di Ulisse
Repubblica — 10 settembre 2002

Da "La mente colorata" di Pietro Citati che esce oggi da Mondadori (pagg. 322, euro 17,60) anticipiamo un brano su Ulisse.

Ulisse è il signore della metamorfosi: si maschera e si trasforma come gli dei, e soprattutto Proteo, il suo equivalente nelle acque originarie, che in pochi istanti diventa leone e serpente e pantera e cinghiale e albero e acqua. Ora si camuffa come un servo per scoprire i segreti di Troia: ora diventa mendico, ora un'opera d' arte tra le mani di Atena: ora eroe epico; ora interprete dei sogni. Nessuno è più mobile di lui. Persino i suoi capelli cambiano: ora biondi ora scuri come il giacinto. Chi si nasconde, ama celare il proprio nome, perché l'essenza si rivela nel nome: lo cela a Polifemo, ai Feaci e a Itaca. Anche Telemaco, Penelope, Ermes e Calipso non ne pronunciano mai il nome: Eumeo aspetta decine di versi prima di rivelarlo: e Omero, come fosse il suo complice in mistificazioni, mentre dice subito il nome di Achille, lascia trascorrere ventun versi dell'Odissea senza pronunciare il nome di Ulisse. Così, a forza di trasformazioni e di segreti, volgendosi da tutte le parti, mostrando ora un volto ora quello opposto, la natura di Ulisse diventa la più vasta che abbiamo conosciuto. Non si può circoscrivere, perché è sempre altrove. Mentre Achille si concentra in sé stesso, egli si espande all' infinito. Così corre il rischio fondamentale della natura ermetica: quello di perdersi nelle vertigini dell' aria, come Euforione-Ermes, il figlio di Faust e di Elena nella seconda parte del Faust di Goethe. Quando dice a Polifemo di chiamarsi Nessuno, la sua non è soltanto un' astuzia: perché chi è tutto, può diventare Nessuno, e quest' aspetto della sua natura è, per noi, il più sconosciuto. Se la nostalgia lo riporta a casa, un' altra forza, più segreta, sulla quale Omero non dice niente, cerca di portarlo lontano da casa e da ogni dove. Perché vuole andare, a ogni costo, nella grotta di Polifemo? Perché resta un anno da Circe? Perché vuole ascoltare i canti delle Sirene, cercando di sciogliere le funi che lo stringono a sé stesso? Se avesse avuto un'intelligenza moderna, forse Ulisse si sarebbe perduto. Da due secoli e mezzo, crediamo che l'intelligenza sia una facoltà sopratutto, intuitiva, discontinua, improvvisa: un folgorio di sensazioni che si rapprende in una forma. Ulisse, invece, ha una mente e un discorso pukinoi. Assomiglia a un fogliame folto, a delle fitte pietre, a una macchia densa, a una casa solida, ai pali fitti di un recinto, a un giaciglio e a un letto spessi, a porte saldamente connesse, alle fitte ali degli uccelli, a uno scrigno chiuso, a un mantello che avvolge, a denti stretti tra loro, a occhiate che si susseguono, ad angosce che si ripetono senza sosta. Ciò che importa, nell' intelligenza di Ulisse, è la costruzione. E' serrata, densa, compatta: senza intervalli, né lacune, né incrinature: tessuta a maglie fitte; e produce pensieri sagaci, rapidi e precisi, come le ali degli uccelli. Questa, secondo i Greci, è la mente superiore. Non le sfugge nulla: collega tra loro le cose; e le chiude in un legame che non si può sciogliere. La sua mente conosce le passioni. All' inizio dell'Odissea, Atena ci racconta di Ulisse che piange nell' isola di Calipso; e la nostalgia di Itaca, il desiderio di vedere il fumo levarsi dalla sua terra, è così intenso, che vorrebbe morire. Quando Demodoco, l'aedo dei Feaci, racconta le sue imprese a Troia, per due volte piange disperatamente, come una donna alla quale hanno ucciso il marito, e si copre la testa col mantello per nascondere il pianto. Fin dalle prime righe dell'Odissea, Ulisse è l'uomo che «patisce molti dolori»: più di ogni altro uomo; forse come Eracle, al quale per certi aspetti assomiglia. Conosce le ansie, le angosce, le fatiche della mente e del corpo, i terrori più alti e più vili: beve il calice dell'esistenza fino all' ultima umiliazione, mendicando nella sua casa. La sofferenza lo conduce sull'orlo del rischio estremo. Quando giunge davanti a Itaca, i compagni aprono l'otre dei venti, che fuggono via e lo riportano lontano dalla patria. Allora egli - racconta ai Feaci - vorrebbe «uccidersi gettandosi dalla nave nel mare». Al rischio estremo Ulisse non cede mai, nemmeno quando a Trinachia i suoi compagni scatenano la collera degli dei, ed egli resta solo nel mare. Come dice Eschilo, egli impara a conoscere attraverso la sofferenza: gli strati accumulati del dolore producono la sua arte suprema: la pazienza ostinata, la coraggiosa sopportazione. Così apprende la pietà e la giustizia; e ciò che gli dei pretendono soprattutto da noi: che non accettiamo quanto essi ci mandano - fosse pure la più atroce delle sventure. Sopporta, china il capo, sino in fondo. Non dice mai no: non protesta, non si ribella: vive in accordo col proprio destino; e da questa profonda accettazione, trae se non gioia, una serenità grave. Mentre si addossa il peso di tutte le cose, diventa «duro». Impara (non sempre) a dominare le passioni. Lui così molteplice e flessibile, si irrigidisce, per difendersi dagli assalti della sorte. Il suo cuore diventa di sasso, e gli occhi imparano a rimanere immoti tra le palpebre, duri come il corno o il ferro, davanti agli spettacoli che lo commuovono più profondamente. Tutto l'universo odissiaco - Ulisse, Penelope, Euriclea (non Laerte) - è di roccia e di ferro. Malgrado o a causa dei suoi furori, Achille non conosce questa compattezza.