Quando la città non ha più confini
Repubblica — 23 marzo 2004

Pubblichiamo una parte del saggio di Massimo Cacciari contenuto ne "La città infinita", a cura di Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese, in uscita da Bruno Mondadori (pagg. 320, euro 25).

La storia della città è la storia di diverse forme di organizzazione dello spazio. Non esiste LA città, ma LE città soltanto. La polis greca NON è l'urbs, tanto meno la civitas; la città mediterranea medievale Non è quella barocca; la città moderna Non è la metropoli contemporanea, e quest'ultima NON è la «città» dove ora abitiamo. La città mediterranea è anti-classica, non «applica» alcuno schema ideale, concresce nell'uso, nel determinarsi temporale delle sue funzioni. La città moderna ne costituisce il violento superamento: essa impone sullo spazio-tempo della città medievale un Ordine a priori, una Forma a priori, fondati, sempre più chiaramente, sulla sinergia tra fabbrica e mercato, spazio di produzione e spazi di scambio e consumo. Il tempo del rapporto produzione/consumo regola tutti gli altri; la sua logica viene applicata ovunque, dalla scuola, all' ospedale, al teatro. Possiamo parlare di «attrazione ipnotica» esercitata da essa su ogni funzione e ogni aspetto della vita collettiva. La città moderna, nel suo evolversi metropolitano, irradia dal suo centro, travolgendo ogni antica persistenza. I suoi insediamenti divengono «casi» del suo sistema irradiante, lungo gli assi centro-periferia. Ma si assiste ad un fenomeno che, ad un certo punto, appare irreversibile: questa espansione si fa sempre più occasionale, sempre meno programmata e governabile. Quanto più la «rete nervosa» metropolitana si dilata, quanto più divora il territorio circostante, tanto più il suo «spirito» sembra smarrirsi; più essa diventa «potente», meno sembra in grado di ordinare-razionalizzare la vita che vi si svolge. l'intelletto metropolitano, il suo Nervenleben, subisce una sorta di «crisi spaziale» - che è perfettamente analoga a quella che subisce lo Stato Leviatano, lo Stato moderno nella sua sovranità territorialmente determinata. I poteri che determinano la crescita metropolitana faticano sempre più a «territorializzarsi», a «incarnarsi» in un ordine territoriale, a dar vita a forme di convivenza leggibili-osservabili sul territorio, spazialmente. (E' immaginabile un mondo-metropoli? Nel 1950 erano 83 le città con più di un milione di abitanti, di cui 49 nei paesi industrializzati; oggi sono 300; nel 2015 saranno 33 almeno le «città» con più di venti milioni di abitanti, di cui 27 nei Paesi più poveri). La perdita di «valore simbolico» della città cresce proporzionalmente: assistiamo, o ci sembra di assistere, ad uno sviluppo senza meta, cioè, letteralmente, insensato, ad un processo che non presenta alcuna dimensione «organica». È davvero la metropoli dell'intelletto astratto, del general intellect, dominato soltanto dal «fine» della produzione attraverso la produzione e dello scambio di merci. È assolutamente «naturale» che il «cervello» di un tale sistema consideri ogni elemento spaziale come un ostacolo, un'inutile zavorra, un residuo del passato, da «spiritualizzare», da «volatilizzare». Ma, nello stesso tempo, e per la medesima ragione, ciò produce l'improgrammabilità dell'«occupazione» del territorio. Il territorio, letteralmente, non conosce più alcun Nòmos (poiché Nòmos, Legge, significa all' origine, appunto, suddivisione-spartizione-articolazione di un territorio o «pascolo», nomòs, determinato). La città è ovunque: dunque, non vi è più città (~). Non abitiamo più città, ma territori (territori da terreo, aver paura, provare terrore!?). La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o, meglio, si è ridotta ad un affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città quest'«area» per ragioni assolutamente occasionali. I suoi confini non sono che un mero artificio. Il territorio post-metropolitano è una geografia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi. Il limite dello spazio post-metropolitano non è dato che dal «confine» cui è giunta la rete delle comunicazioni; man mano che la rete si dirada possiamo dire di «uscire» dalla post-metropoli, ma è evidente che si tratta di un «confine» sui generis: esso esiste soltanto per essere superato. Esso è in perenne crisi. Certo, polarità esistono ancora in questo «spazio»; esistono ancora attività che possiamo definire «centrali», e che orientano intorno a sé le forme di connessione, la mobilità, ecc. Ma sempre più queste polarità possono organizzarsi ovunque. Gli «eventi» prodotti dalle decisioni di investimento produttivo, commerciale, amministrativo, ecc. possono localizzarsi ormai senza tener conto degli assi tradizionali di espansione della città. I ruoli di centro e di periferia possono scambiarsi incessantemente. Ma tutto ciò avviene occasionalmente, o sulla base di logiche mercantili e speculative, che rifiutano ogni «griglia» precostituita di funzioni. Il territorio continua a «specializzarsi», ma al di fuori di ogni progetto complessivo. È davvero la morte di tutte le «codificazioni» del Movimento Moderno, del suo pensare la città come aggregazione successiva di elementi, dall' abitazione all'edificio, al polo funzionale, alla città intera come «contenitore di contenitori». È la morte di ogni astratta tipologia. Che significa? È necessariamente la fine di ogni «forma» comunitaria, o un processo di «liberazione» dai vincoli che la caratterizzavano? (~) In altri termini: il territorio post-metropolitano è la negazione di ogni possibilità di luogo, o potranno «inventarsi» luoghi propri del tempo in cui la sua vita sembra essersi risolta? Dobbiamo affrontare questo paradosso filosofico ed estetico. l'energia che sprigiona il territorio post-metropolitano è essenzialmente de-territorializzante, anti-spaziale. Certo, è possibile affermare che questo processo era già iniziato con la metropoli moderna, ma oggi soltanto tende ad esprimersi nella sua compiutezza.