PAOLO MAURIZI

VITA E OPERE DI
FRANZ JOSEPH HAYDN

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© PAOLO MAURIZI


IL TEATRO


Singspiele e Puppenoper. Fra il 1751 e il 1758 Haydn ebbe modo di familiarizzarsi col Singspiel, componendo per gli spettacoli dell'attore-regista Kurz Bernardon diverse arie staccate assieme a due versioni del Krumme Teufel (Il diavolo zoppo), lavoro che ebbe duraturo successo. La perdita di questo materiale non impedisce di valutare comunque l’esordio in un genere tipico della periferia metropolitana e culturale di Vienna, con la sua miscela di canto e commedia dell'arte, greve umorismo e satira dell'alta società, magia, colpi di scena, buffonerie grottesche e personaggi popolari come Hanswurst, multiforme replica di una maschera che in Europa rappresentava la trasgressione del peccato di gola.
Haydn inizia così sotto il segno di un gusto folklorico la cui matrice stradaiola e contadina lo distingueva dalle raffinatezze della commedia aristocratica (opera buffa e opéra-comique); autore pronto ad affrontare il teatro dei ceti dominanti ma che vive per ora fra i suoi simili e ne interpreta lo spirito senza alcun diaframma intellettuale, abbraccia quindi volentieri le forme schiette di questo genere, al quale tornerà durante il servizio presso gli Esterhàzy. Con i suoi travestimenti, le vicende avventurose e la furbizia da 'uomo di natura', ritroveremo infatti Hanswurst nel Feuerbrunst (1775/78) - unico documento superstite di tale produzione, nella copia che riporta forse l'originale - scritto in un linguaggio fresco, brioso e immediato, dalla discreta qualità melodica di stampo popolare, che assicura un efficace sostegno alla semplicità farsesca della drammaturgia.
Insieme a Die bestrafte Rachbegierde (1779), questo lavoro é però il solo vero Singspiel composto per il teatro del principe Nicolaus; Philemon und Baucis (1773), Hexenschabbas (1773), Dido (1776) e Genoveva IV° Teil (1777) sono invece opere per marionette. Con le sue meraviglie sceniche, gli splendidi fantocci mossi dall'esperto Pauersbach e l'aspetto fascinoso della sala, il Puppentheater - vezzo di molte corti tedesche - divenne una delle maggiori attrattive di quell'enciclopedia del gusto aristocratico che era la residenza di Esterhàza, caratterizzandola quanto l'opera italiana per lo spazio concessogli e per avervi coinvolto il più grande musicista del tempo. Cercando di cogliere più del melodramma lo spirito del teatro greco, dove l'attore appariva come un essere di natura artificiale, questo genere nacque nel '600 grazie a marionette che interpretavano partiture analoghe a quelle di molte opere del tempo; la stessa Didone abbandonata di Metastasio fu probabilmente composta per tale forma di spettacolo. Un titolo simile a firma di Bader venne musicato da Haydn, ma il repertorio della residenza prevedeva anche drammi agiografici come Genoveva, dove i demoni e le satire di Hanswurst contrappuntavano i motivi canonici dell'innocente che soffre e della vittoria sull'ingiustizia; Haydn compose la quarta parte, limitandosi per il resto a scegliere musiche altrui. Non mancavano poi rappresentazioni celebrative su temi mitologici come Philemon und Baucis dove, passando dall'Olimpo a scene di tempesta, selve, templi e campagne, alla fine l'ambiente si trasformava nei giardini di Esterhàza per glorificare la missione civilizzatrice dei suoi prìncipi e i valori di amor patrio, obbedienza e fedeltà. In quest'unico reperto di Puppenoper haydniana, le note idilliche si mescolano a coloriti passi descrittivi, espressioni sentimentali e ad una certa drammaticità.

L'opera italiana. Caso unico fra gli operisti di marca italiana che dominavano le scene del tempo, Haydn non si misurò con impresari, concorrenti e gusti del pubblico dei vari teatri, né respirò il clima di successi e cadute, mentre conobbe in ritardo spesso notevole le nuove partiture composte a Vienna, Napoli e in altri centri europei. Il suo isolamento ad Esterhàza, ricco di stimoli per l'evoluzione dello strumentalismo, ebbe dunque effetti negativi su una produzione che oscilla fra brani superbi ed altri più opachi, titoli eccellenti ed altri meno riusciti; ciononostante, perfezionando la versione viennese dell'opera buffa di Galuppi e Jommelli, essa diede alla commedia settecentesca un alto contributo sin quasi alla vigilia de Le nozze di Figaro. Composta a Londra nel 1791, L'anima del filosofo indica poi quale creatività il genio di Haydn fosse in grado di esprimere, sollecitato da un diverso pubblico, da un diverso clima e da un vero teatro.
Ennesima pièce sui vizi del melodramma, La canterina (1766) - prima opera haydniana giunta completa sino a noi - mette in scena un'aspirante primadonna che sopravvive alle spalle di maestri e amanti in sedicesimo; l'assenza d'ironia nell'imitare lo stile serio in passi drammatici o tragicomici rende il lavoro abbastanza monotono e ripetitivo. Lo speziale (Goldoni, 1768) rappresenta il consueto intrigo fra una giovane coppia, un borioso pretendente e il tutore che vuol sposare la ragazza. La partitura é raffinata e piena di brio, pur se qualche pezzo troppo lungo e certi virtuosismi rococò appesantiscono lo stile buffo; con affascinanti giri armonici, la curiosa "Salamelica, Semprugna cara" dimostra comunque una certa conoscenza del retaggio musicale ottomano in Ungheria.
Le goldoniane Pescatrici (1769) narrano la storia di Eurilda, figlia del principe di Benevento, nascosta fin dalla nascita tra umili pescatori per sfuggire ad un orribile destino; la sua identità traspare dall'alta rettitudine e limpidezza di spirito che, assieme ad un'elegiaca sensibilità piena di tormenti, speranze e nostalgie, delinea fra colori marinareschi e vaghe tinte gotiche il commosso profilo di una creatura quasi belliniana. Scomparso tutto ciò che la riguarda nell'incendio del 1773, la sua figura sopravvive nel morbido e patetico cantabile "Questa mano e questo cuore". Nonostante la frequenza del coro, l'orchestra nutrita e varie pagine felici come "Tra cetre e cembali" e la parodia del melodramma in "Già si vede i vezzi e i vanti", Haydn offusca comunque personaggi e situazioni con squisiti ricalchi di formule convenzionali.
Il tema del nobile che è tale per intima disposizione e della natura che suscita nei semplici un animo virtuoso viene proposto dalla critica graffiante de L'infedeltà delusa (Coltellini, 1773), prima delle tante commedie morali composte da Haydn, dove, sullo sfondo di un'amena campagna, l'onestà e i buoni sentimenti vincono l'ottusità del ricco Filippo, che impone matrimoni combinati, e l'ipocrisia di Nencio, sedotto dal danaro e dal libertinaggio. La vaga tinta drammatica nel patetismo leggero e spigliato che all’inizio disegna Sandrina; l'ira di Nanni, ben calibrata fra il serio e il comico; l’arguto quadro mozartiano di una Vespina svelta e furba quanto languida e amorosa; il suo duetto con Nanni, talvolta carico di un insolito pathos, offrono un saggio della poliedricità e dell'ampia gamma espressiva raggiunta dallo stile buffo, confermata dalla scoppiettante ironia dell'aria piena d’imprevisti "Oh, che gusto! Se mi tocca". Qualche brano mostra eccessiva lunghezza, ma la scrittura luminosa, pur nei cali di tensione, conserva sempre un fresco e vivace sapore.
Il sentimento é dunque un aspetto primario dell'animo virtuoso, che a sua volta rinsalda la dote stessa della fedeltà: quella che ne L'incontro improvviso (1775) spinge Alì a cercare Rezia tra le vie del Cairo resistendo alle tentazioni dell'harem dove la donna é prigioniera; il grazioso ma generico intrigo turchesco fa tuttavia da sfondo ad uno dei lavori più smorti di Haydn, mai coinvolto dai protagonisti e dalle figure caricaturali dei comprimari, limitandosi ad un evanescente lirismo e ad una comicità manierata nell'elegante correttezza dello stile.
Fra queste opere, il goldoniano Mondo della luna (1777) é l'unico titolo che affronta il tema delle virtù rovesciandone le prospettive; se la trama sembra infatti riproporre il motivo del vecchio che vuol combinare lucrosi matrimoni per le figlie e sposare la cameriera ma che viene gabbato dai loro amanti, essa serve in realtà per denunciare il cinismo profittatore dei giovani: guidate da Eclittico, sedicente astronomo che scuce danaro ai creduloni, le coppie organizzano una burla ai danni di Buonafede fingendo di condurlo sulla luna per incontrare l'Imperatore, che ben pagato le sposerà; ma Buonafede stesso, digerito l'inganno, apre la borsa per assicurare a tutti una vita felice. Simpatico é quindi questo personaggio, chiuso e testardo ma umano nel credere tanto agli altri quanto ai sogni; sebbene la fantasia venga derisa e il teatro ridotto ad un espediente carnevalesco, grazie a lui la magia della natura e la suggestione della scena conservano il loro fascino, velato da un'ombra nostalgica per l'illusione perduta. In fondo, anche la buona fede può essere una virtù. Nel II° atto, la rappresentazione della corte lunare ironizza sulle meraviglie del décor seicentesco, ma il realismo goldoniano s'interessa di più agli sviluppi della burla, costruita però da una ridondanza di scenette che cristallizza il ritmo e appesantisce la drammaturgia; in questa trappola cade anche Haydn, con un'altrettanto lunga serie di pezzi generici e calligrafici. La caustica veracità della commedia e il suo mondo fantastico di cartapesta gli suggeriscono invece molti brani eccellenti: oltre agli splendidi Finali, ai godibili episodi sinfonici e alla devota malinconia del primo coro, ricordiamo l'intensità melodica dell'aria di Ernesto "Begli occhi vezzosi", sorretta da una forma magistrale; l'aria lirica e pungente di Clarice "Son fanciulla da marito", col suo carattere volitivo e appassionato; l'insinuante morbidezza e le astute espressioni di Eclittico nell'aria "Un poco di denaro", come il suo aspro livore che turba il sorriso di "Voi lo sapete". Sempre piacevoli e ben riusciti nelle opere di Haydn, i duetti offrono un versatile scambio fra Lisetta e Buonafede e il toccante lirismo dell'incontro finale fra Eclittico e Clarice, sospinti anche loro nel sogno da incantate modulazioni alla luce di quella luna che continua ironica e impassibile a diffondere la sua malìa.
Con La vera costanza (Travaglia/Puttini, 1778), i motivi del libertino e del conflitto tra matrimoni d'amore e d'interesse appaiono in veste più drammatica, ma anche più edulcorata sul versante della critica sociale, rispetto a L'infedeltà delusa: il conte Errico bilancia infatti libertinaggio e amore verso la sposa Rosina, che non trova quasi mai nella Baronessa una vera grande antagonista; moglie e madre abbandonata da un marito che alla fine si pente, questa eroina subisce comunque le più atroci delusioni gettando di riflesso una luce cruda sulla nobiltà. Sebbene il ritmo scorra piuttosto fluido, per la metrica incerta e una trama snodata con poca fantasia il testo non onora i propri contenuti; Haydn riesce invece a coglierne l'essenza grazie ad uno stile limpido, concentrato e lineare, che rappresenta con forza la vivacità del comico, le passioni e il dramma. Il grado più intenso della sfera affettiva viene raggiunto nel II° atto dall'aria del conte "Or che torna il vago Aprile", ma si concentra soprattutto in Rosina, che vibra di palpitante lirismo nel manifestare la tristezza, gli affanni e le tempeste di un animo capace anche di dolci e toccanti emozioni. Il virtuosismo conferisce alla Baronessa un forte rilievo da personaggio serio, mentre Lisetta, Masino e Villotto presentano tratti arguti, coloriti e graziosamente sensibili.
Sul piano della drammaturgia musicale, questo lavoro mostra comunque una svolta. Fino al 1777 Haydn si era limitato a costruire un’equilibrata collana di pezzi chiusi, tale da rendere omogeneo e scorrevole il profilo degli atti; qui la disposizione lineare si trasforma invece nell'organizzazione di episodi che raggruppano arie e 'ensemble', orchestrando con la loro dinamica e ampiezza variabile i ritmi del racconto. Una simile tecnica era già emersa ne L'infedeltà delusa, limitando l'overture vera e propria ad un fresco primo tempo mentre il secondo introduce il clima agreste, seguito da un quartetto e da un più veloce concertato; l'introduzione ambientale pari a un tempo lento, l'agitazione del primo concertato indifferente all'elegiaca poesia del testo e il taglio medesimo dell'ultimo brano indicano però come Haydn abbia voluto usare criteri astratti, ricalcando gli schemi di una sinfonia quadripartita. Per contro, ne La vera costanza l'architettura delinea con plasticità sistole e diastole del dramma, che a sua volta ne guadagna esprimendosi con maggior evidenza. Così, l'overture finisce descrivendo una tempesta e sfociando nel quadro sobrio e vario dei naufraghi salvati, che termina con un delizioso quartetto sereno e spumeggiante; le arie della Baronessa, Masino e Villotto, usando il topos della presentazione, si susseguono impostando con brevità la trama; un'aria di Lisetta, graziosa e sensibile, abbassa il ritmo fungendo da cerniera per passare alle due arie del conte e di Rosina; il Finale coglie il mutare degli affetti, articolando con sapienti modulazioni i vari episodi scherzosi, intriganti, lirici e drammatici, entro un arco mobilissimo il cui respiro corona l'insieme delle scene precedenti. Se la più matura espressione di Finale tripartito è quella del I° atto de Il mondo della luna, dove dall'agrodolce morbidezza che ospita un bellissimo concertato si passa all'allegria, al cordoglio e al gioioso cinismo fino a chiudere con un vivace terzetto, questo Finale rappresenta uno dei migliori esempi premozartiani di organismo governato da un flusso drammaturgico continuo. A sua volta il quintetto dei protagonisti, che funge da spartiacque fra le due metà del II° atto, introduce l'uso degli 'ensemble' anche nel corso dell'opera.
Haydn elabora dunque un moderno senso del dramma, certificato poi dall'inedita presenza di grandi arie che si muovono fra espressivi cantabili e palpitanti agitazioni del cuore, nell'ampiezza di una forma più elastica rispetto agli schemi dei consueti pezzi chiusi. Come in ogni altro lavoro, ciò che nella medesima Vera costanza rende purtroppo debole la drammaturgia, costituendo il tallone d'Achille dell'operismo haydniano, é la scrittura monotona, stereotipa e superficiale del recitativo; dai primi titoli agli ultimi, la povertà dei giri armonici e delle formule melodiche riduce l'eloquio ad un limitato e prevedibile repertorio, ingessando dialoghi e battute nell'uniforme piattezza della recitazione. Se molte commedie ristagnano e procedono a fatica, principale imputato non é dunque il pezzo chiuso - le arie comiche trovano ben presto un equilibrio interno, perfezionato nella forma magistrale di molti brani lirici col nitore stilistico e l'elegante purezza della tessitura - ma il collegamento fra di essi, che l'opera postbarocca non relega più al semplice raccordo fra un brano e l'altro, comprendendo la sua importanza decisiva nell'articolare con vivacità il flusso dell’azione.
La prigionia di questi schemi si fa ancor più evidente negli ‘obbligati’, dove la plasticità della scrittura orchestrale viene contraddetta dai rigidi calchi di un recitativo sempre ‘secco’ e che non si scioglie mai in arioso; parziale eccezione é costituita da qualche pagina de L'isola disabitata (1778), in cui Haydn traduce melodicamente la linea del canto con un certo successo. Elaborando la celebre tematica settecentesca del contrasto fra natura e civiltà, il libretto metastasiano lo spinge a creare un'opera fra le più attente al manifestarsi delle passioni, centrali nell'esprimere la palingenesi dell'animo che riacquista le sue maggiori virtù fra le selve di un Eden incontaminato. Spiccano infatti l'innocente spontaneità di Silvia e il forte lirismo di Costanza, che viene ritrovata dopo lunghi anni dallo sposo Gernando, anch'egli espressione di una ricca e profonda vena sentimentale; ma il più duttile strumento linguistico risulta l'organico sinfonico, che interviene di continuo traducendo con efficacia la sostanza e il mutare degli affetti. .
Da Le Pescatrici all'Isola ogni lavoro si preoccupa dunque di esprimere messaggi morali, tramite una commedia dove i personaggi buffi s'intrecciano in vario modo con l’altrettanto graduata seriosità dei protagonisti. Nell'ultima fase l'operismo haydniano reca tuttavia l'impronta di significative mutazioni, dirigendosi verso una nuova teatralità che valorizza la pura essenza ludica dello spettacolo. La fedeltà premiata (1781) si articola seguendo complesse trame di coppie, minacciate dal sacrificio della più fedele ad un mostro inviato da Diana che, impietosita da giovani pronti alla morte, assolve poi dal crudo vincolo la comunità dei pastori. Il poeta Giambattista Lorenzi manipola con disinvoltura la sofisticata drammaturgia dell'opera buffa in vista di un recupero del teatro anteriore al classicismo, riconducendo la moralità entro un gioco leggero, elastico e disimpegnato che unisce il comico, il dramma, il patetico e rende credibile ogni valenza espressiva con l'ironico distacco dovuto al filtro del mito, ad una stilizzazione arcadica della natura e alla compresenza di personaggi in vesti antiche e moderne tipica di certa Commedia dell'Arte. Haydn risponde allora con una limpidissima stilizzazione di formule convenzionali, che sintetizza il linguaggio settecentesco e i vari modi della propria scrittura operando quel distacco richiesto dal gioco in una raffinata ed elegante leggerezza, capace di rappresentare al meglio i diversi stati d'animo; l'equilibrio fra dramma e commedia governa quindi la pregnanza lirica di brani melanconici, elegiaci e agitati, favorendo l'aspetto giocoso, satirico e frizzante ma anche i toni tragici come nell'aria di Celia "Ombre dell'idol mio": dall'accorata e solenne cantabilità, che anticipa il lirismo del primo '800, il pezzo sfocia in una pulsante sequenza drammatica chiudendo poi con una ripresa più decisa e solare che illumina la salda e fiduciosa volontà della protagonista. Un forte senso drammatico si esprime anche in pezzi chiusi dove il recitativo obbligato, che inizia sensibilmente a migliorare, diviene parte integrante del brano fino a trasformarlo in una vera e propria scena, con l'aprire e chiudere ad esempio l'aria di Fileno "Recida il ferro istesso".
La Fedeltà inaugura dunque una sorta di revival dell'opera barocca, che nel prosieguo non dimostra tuttavia di possedere un'adeguata lucidità, limitandosi a rispolverare immagini, temi e formule senza un approccio moderno e originale. Così il testo dell'Orlando paladino (Porta, 1782) non va oltre un miscuglio di amori, scene comiche, incantesimi e avventure, senza comprendere le potenzialità della materia e usare quindi l'ironia, l'esagerazione e il nonsense per un'autentica metafora del teatro e della condizione umana. Haydn soffre di simili carenze, cogliendo qualche spunto ma rinunciando poi a seguire le proprie intuizioni; se quindi l'overture fotografa con parodismo sarcastico la natura eroicomica del lavoro, il meraviglioso si limita ad una pallida cornice mentre solo nel duello fra Orlando e Rodomonte compare un taglio burattinesco. Il protagonista risulta una debole caricatura e vive di episodi, come nel III° atto dove un cantabile svagato riflette il suo disordine mentale; Rodomonte viene invece ridotto a un tipo senza diventare maschera. Escludendo anche l'opaco personaggio di Alcina, rimangono Angelica e Pasquale: quest'ultimo, tra i servi buffi più esilaranti e simpatici di Haydn, é un personaggio dalle colorate sfaccettature pungenti, farsesche, amabili e spassose; Angelica colpisce invece per il taglio preromantico della sua figura dolente, lirica e disperata, che dà vita a grandi arie drammatiche. Senza dimenticare lo splendido Finale II° della Fedeltà, il primo di quest'opera supera comunque in bellezza tutti i precedenti per il genio drammatico, la coerenza e la libertà di un organismo che valorizza i diversi passaggi, esaltati ancor più dalla magnifica conclusione.
Sul versante del Tasso, il filone cavalleresco dà vita all'opera seria con Armida (1784), unica esperienza di Haydn in questo settore dopo la giovanile Acide e L'isola disabitata. L'apertura verso un genere che il principe Nicolaus scarsamente gradiva era frutto del successo riportato ad Esterhàza da diversi titoli di Sarti, Cimarosa, Traetta e Zingarelli; ma la versione proposta in loco esclude la forma neoclassica del melodramma, optando invece per modelli barocchi più o meno vetusti con la scelta di pezzi raccolti da varie opere in una galleria di manichini e valori stereotipati. Haydn riprende lo stile pomposo dell'opera protosettecentesca con perizia e qualche passaggio riuscito, ma senza quel filtro critico che avrebbe potuto correggere le decalcomanie del testo; compone quindi una scialba partitura, in ritardo di cinquant'anni sulle scene europee. Solo nel III° atto, con la scena di Rinaldo che libera i compagni dall'incantesimo di Armida, raggiunge un'alta qualità e costruisce un'unica sequenza drammatica grazie all'accesa fantasia orchestrale, al fascino dell'atmosfera magica e all'espressione di un intenso variare degli affetti.
La morte del principe portò alla rapida chiusura del teatro di corte; ma L'anima del filosofo (1791), pur a distanza di anni e in un contesto come quello londinese, prosegue il revival barocco tornando al mito di Orfeo ed Euridice. La continua presenza del coro, in funzione di personaggio e di commento, sembra recuperare l’autentica drammaturgia greca unendo azione tragica e forme oratoriali; la tematica, esoterica come quella del contemporaneo Zauberflote, comprende i motivi della luce, delle tenebre e del viaggio iniziatico dell'eroe, accompagnato dalla propria anima in sembianze femminili. Il divieto reale bloccò le rappresentazioni dell'opera fin dalla prima prova, impedendole così di raggiungere una fisionomia definitiva. A tale incompiutezza si devono forse certe lacune del libretto, che comunque ha trovato in Badini un ingegno disposto a riesumare la drammaturgia del primo melodramma, citandola con intenzionale lucidità e producendo una sorta di effetto straniante nel tradurre forme arcaiche in chiave moderna; lo stesso contributo del ritmo poetico, che traduce i personaggi in maschere, risulta decisivo per creare un clima irrealistico e quasi rituale, che trasporta scena e attori nel mondo archetipo del mito. Mondo evocato dall'atmosfera onirica e fanciullesca di cui si veste la partitura, rappresentando lo spirito di vicende in apparenza umane tramite una grazia che smaterializza personaggi ed episodi; separando alcune parti col recitativo secco da altre orchestrali e melodiche comprendenti ampie scene, Haydn opera inoltre un sottile distinguo fra quanto concerne la mera esistenza terrena e un piano superiore dove l'umanità vive a contatto del sacro. Entrando in questa dimensione grazie ad una profonda esperienza del pathos, la coppia esprime con sobria ma pregnante sensibilità un'ampia gamma di affetti, oscillando fra l'agitazione, il dolore, la melanconia sfibrata di Euridice e il commosso lirismo di Orfeo, sofferto ma capace anche di tratti vigorosi e drammatici; la parte del Genio, che nel guidarlo agli Inferi gli suggerisce di liberarsi dal dominio dei sensi con la forza della sapienza filosofica, é invece marcata da un virtuosismo aereo, pomposo e brillante, che riprende con efficacia la retorica musicale delle figure angeliche. Come già nel testo, il coro svolge un ruolo essenziale sul piano drammaturgico ed espressivo: lieto e sereno, lamentoso e dolente, solenne, fosco e terribile, contrappunta lo svolgersi dell'azione fino al misterioso quadro di cupa e inesorabile tragicità che chiude l'opera con un colpo di genio, unico nel teatro del '700 assieme al finale del Don Giovanni, quando Orfeo viene ucciso dalle Baccanti che salpano ebbre verso l'isola dei piaceri facendo naufragio in un mare in tempesta.
L'anima del filosofo costituisce l'unica eccezione al rifiuto di scrivere ancora per il teatro dopo Armida; limitandosi a comporre brani sostitutivi (peraltro di grande qualità) da inserire nelle partiture rappresentate ad Esterhàza e declinando numerosi inviti, Haydn abbandonò le scene non solo per un rinnovato interesse verso la musica strumentale ma soprattutto a causa della forma d'opera nuovissima esposta dai capolavori di Mozart. Pur conosciuto anche in Francia e in Germania, avvertendo i limiti nei quali si era svolta la sua attività, sosteneva di aver creato i propri lavori solo per il pubblico e i cantanti della residenza; comprendeva inoltre che bisognava proporre qualcosa di nuovo ma diverso da una forma inimitabile come quella mozartiana, compito che tuttavia non si sentiva in grado di assolvere. Mentre Mozart stava cercando nuove strade per la commedia musicale con i tentativi abortiti de L'oca del Cairo e Lo sposo deluso, anche i suoi ultimi lavori esprimono il bisogno di rinnovare profondamente l'opera settecentesca intuendone in qualche modo la crisi, ma non riescono ad indicare strategie precise. Tramite arie brevi, connesse fra loro da ariosi e recitativi col supporto dell'orchestra, l'adesione agli schemi fondamentali della tecnica operistica premozartiana viene infatti sospesa ne L'isola disabitata per giungere a un'immediatezza espressiva che implica un omogeneo flusso drammatico; nonostante il risultato, mirabile fino alla ridondante conclusione, questo approccio rimarrà senza seguito dimostrandosi incompatibile con un'estetica sempre fedele alle forme oggettive, che garantiscono l'autonomia della musica. Alla Fedeltà premiata viene quindi affidato l'incarico di celebrare quell'estetica, tornando ai classici schemi di recitativo e pezzo chiuso in un quadro di perfetto equilibrio drammatico e formale; ma tale sintesi dello stile settecentesco, raggiunta con lucida penetrazione in una splendida tessitura, é anche sintomo di uno spirito che considera quel tipo di opera giunto al termine della sua parabola. Brancolando nell'incertezza, Orlando paladino e Armida dimostrano come Haydn avesse bisogno di un librettista capace di fornirgli la chiave per elaborare certe sue intuizioni; solo l'incontro col Badini riuscirà quindi a produrre un lavoro che non regredisce confusamente verso il passato ma che, nel suo profilo arcaico e moderno insieme, riflette gli interrogativi di un operismo tardosettecentesco cosciente della propria crisi e ricco di suggestioni per il futuro melodramma.

Musiche di scena. Oltre all'opera, sulle scene di Esterhàza fioriva anche la prosa, perlopiù leggera; non mancavano tuttavia occasioni di grande rilievo, come Re Lear, Amleto e l'Emilia Galotti di Lessing. Haydn offrì il proprio contributo a questi spettacoli con musiche di scena delle quali sopravvive qualcosa in alcune sinfonie. Scomparse le partiture originali, é arduo comunque supporre l'esatta funzione drammaturgica di quanto resta: molti pezzi sono stati talmente rielaborati da perdere la loro fisionomia per acquistarne una sonatistica e strumentale, come nella Sinfonia n.63 (1777/81) il cui titolo La Roxelane chiarisce almeno la provenienza di certa sua materia dalle musiche per Les trois sultanes di Favart.
In una redazione senz'altro più fedele a quella primitiva, conservata forse grazie all'insolito schema di sei movimenti vicino alla suite, la Sinfonia n.60 (1774) riprende diverse pagine per la commedia Il distratto di J.F.Regnard. Appurato il valore di un repertorio operistico ricco di bellezze ma privo di forte originalità creativa, si resta allora sorpresi nello scoprire qui un modo nuovo di affrontare la scena che apre inedite prospettive, capaci di mutar segno a quel rapporto fra musica e teatro nel quale Haydn non si era mai trovato del tutto a suo agio. Dopo una solenne introduzione, il primo tempo esplode nella gioiosa vitalità di uno spirito esuberante da opera buffa, portato avanti a gran ritmo con scioltezza e trasparenza; certi toni militareschi forniscono all'Andante un volto piuttosto eccentrico, mentre la pomposità del Minuetto, ironica e divertente nel suo fare minaccioso, lascia spazio nel trio a magnetismi lunari; segue un Presto dal travolgente sapore di commedia e quindi un Adagio dal purissimo lirismo di stampo gregoriano, spezzato dagli echi stranianti di squilli e marcette che intensificano la carica poetica di un'atmosfera liquida e sospesa; l'effervescente Prestissimo chiude la sinfonia col più arguto umorismo, grazie anche al famoso episodio della scordatura corretta dai violinisti senza sospendere l’esecuzione.
Con la straordinaria capacità illustrativa, ricca di colorate immagini e di una vivida fantasia che reinterpreta le vicende drammatiche secondo un’ottica libera da modelli convenzionali, questi sei brani elaborano dunque un nuovo senso ironico, burattinesco e una nuova immagine della commedia, di schietta modernità; al tempo stesso rivelano in Haydn l'esistenza di una natura teatrale, evocativa e allusiva, che riesce finalmente ad esprimersi sciogliendo la musica dall'obbedienza verso ritmi e sequenze della drammaturgia operistica. Grazie a questo legame non immediato con la scena, Haydn trova infatti la misura per rendere non solo compatibile ma anche creativamente fruttuoso il rapporto fra mondo della rappresentazione e la sua mentalità prettamente strumentale.