I dizionari Baldini&Castoldi

Jonny spielt auf di Ernst Krenek (1900-1991)
libretto proprio

Opera in due parti e sei quadri

Prima:
Lipsia, Stadttheater, 10 febbraio 1927

Personaggi:
Anita (S); Jonny, negro e violinista di una jazz-band (Bar); Max, compositore (T); Daniello, virtuoso di violino (Bar); Yvonne, cameriera (S); il manager (Bar); il direttore dell’hotel (T); un impiegato della ferrovia (T); tre poliziotti (T, Bar, B)



Rappresentato a ridosso di Orpheus und Eurydike , Jonny spielt auf ne offuscò rapidamente il successo in virtù del tono più vivace e del linguaggio più accessibile; ideato e redatto dallo stesso Krenek (autore di tutti i suoi libretti con l’unica eccezione di Orpheus und Eurydike ), il soggetto è ambientato in epoca contemporanea e utilizza con spiritosa disinvoltura le tecniche registiche più ardite per simulare la presenza di una locomotiva in scena. L’elemento di maggior spicco resta comunque l’infiltrazione nel tessuto musicale di calchi jazzistici, riferiti al personaggio di Jonny e spesso affidati a un’apposita band situata sul palcoscenico e autonoma rispetto all’orchestra.

Il musicista Max incontra, durante un’escursione alpinistica, la cantante Anita e se ne innamora: lei però sembra perdere la testa per il virtuoso di violino Daniello e non solo dimentica Max, ma respinge anche il negro Jonny, strumentista jazz. Questi, indispettito, ruba il prezioso violino di Daniello e innesca una gustosissima e intricata sequela di inseguimenti. L’ultimo quadro si svolge in una stazione ferroviaria, con Max ingiustamente accusato del furto, Anita decisa a discolparlo e Daniello, inviperito, che cerca di trattenerla, finendo nel trambusto sotto un treno. Eliminatosi con le sue stesse mani l’antipatico rivale, Max può partire con Anita per una tournée in America, mentre il gioviale Jonny si slancia in una beneaugurante improvvisazione jazz, appigliandosi con gesto da musical a un orologio che si trasforma in un mappamondo.

Le polarità espressive che l’opera mette a confronto si specchiano apertamente nella dicotomia in cui è scissa l’ambientazione: da un lato la solitudine immota e sovratemporale del ghiacciaio, dall’altro le effimere frenesie della vita cittadina. Protagonista morale della vicenda è Max, il pensatore che riesce a superare l’isolamento spirituale imposto da una creatività fine a se stessa e giunge a integrare l’arte nella vita; complementare a lui è Jonny, motore pratico dell’azione, che fa scaturire la sua musica dalle pieghe accidentali degli eventi quotidiani, ma che in fondo aspira a un’arte più raffinata, come dimostra il furto simbolico del violino. Nel personaggio di Max Krenek ritaglia una silhouette autobiografica, adombrandovi nel medesimo tempo una sorta di sinossi teatrale del ‘romanzo dell’artista’, in quanto ripercorre con efficacia lapidaria le tappe di una sofferta iniziazione interiore. La chiave di volta della vicenda si avrà con la scena dell’ammonizione del ghiacciaio (tre voci femminili sfumate in vocalizzi arcani, a suggerire l’incorporeità del vaticinio): l’idealista deve ritornare nel mondo, afferrarsi saldamente alla speranza e affrontare il turbinio e le vicissitudini dell’esistenza quotidiana. In questo modo Krenek affossa la concezione dell’artista Taugenichts, ovvero dell’intellettuale sfaccendato che si fa scudo dell’arte come di un alibi e che si rifugia negli ozi letterari eludendo le responsabilità della vita; e quest’uscita dalla torre d’avorio si invera nell’inconsueta scorrevolezza del linguaggio musicale, inducendo ad accantonare le durezze di Orpheus und Eurydike in favore di una maggiore comunicabilità. In luogo del rigore avanguardistico dei lavori precedenti, Krenek adotta il principio della ‘contaminazione’ dei generi, avvalendosi in particolare di stilemi jazz; Jonny segna quindi il rientro nell’orbita tonale, con una svolta dettata non da opportunismo, quanto piuttosto dal sincero proposito di ripristinare un più fecondo dialogo con il pubblico; questa è la funzione dei ritmi di danza di cui l’opera pullula, dal fox-trot al tango alle inflessioni blues che contrassegnano le sortite di Jonny. L’interesse per il mondo del jazz va ricondotto comunque a un fenomeno di ampio riscontro nell’Europa di quel periodo (si pensi alle esperienze del Gruppo dei Sei, a certi spunti di Ravel, alla diffusione di iniziative editoriali dedicate alle danze americane). È curioso notare, in ogni caso, che il tono da musical a cui Krenek piega il ‘suo’ jazz fu sufficiente a far scalpore in Europa come materiale eversivo, ma suscitò risentite critiche nel Nuovo Mondo per le movenze edulcorate e ‘occidentalizzate’ che qui si attribuiscono al folklore negro. Effettivamente alcuni passi hanno quasi un sapore hollywoodiano, ma riscattano la loro ingenuità in un’euforia liberatoria, come nel giubilo finale; e anche in questo caso Krenek sa porre un freno alle enfasi mettendo a tacere all’improvviso la danza e concludendo l’opera su una ‘pausa di riflessione’ in cui riaffiora al violino l’eco del song di Jonny. La vivacità delle sfumature interne è esemplificata molto bene da passi come il monologo di Max all’inizio del secondo atto, che trascorre da una frivolezza cabarettistica (siamo in un hotel) a una tempesta interiore; lo xilofono sembra misurare le accelerazioni del battito cardiaco e gli archi sono percorsi da fremiti nervosi, quasi a scaricare in guizzi improvvisi la tensione febbrile che va accumulandosi nell’attesa delusa di Max e che troverà sfogo e balsamo nell’arioso accorato “Ich habe geschlafen und ich habe geträumt” (‘Ho dormito e ho sognato’). Dopo il pathos della scena sul ghiacciaio si trapassa senza soluzione di continuità al vivacissimo quadretto dell’orchestrina jazz, trasmessa via radio in chissà quale spensierato e mondanissimo caffè; e un’analoga volontà di smorzare sul nascere ogni sospetto di patetismo si incontra nel quadro ambientato alla stazione, in cui gli accenti nostalgici di Max vengono sempre zittiti con un’ombra di divertito cinismo e soffocati dalle peripezie che si accavallano. Dopo il putiferio che culmina nell’investimento di Daniello (con grida d’alterco, fischi di locomotiva e strilli di orrore) interviene un momento affidato ai soli archi, come un requiescat su cui però si riverbera il sogghigno degli ottoni con sordina. Ad Anita, la cantante d’opera, sono riservati i vocalizzi di esultanza della sezione conclusiva; così il retaggio del belcanto si affianca all’impiego spregiudicato della componente rumoristica, e la contaminazione si arricchisce di una scintillante mescolanza di stili ed epoche diverse, in un clima che sposa i valori espressivi all’ideale di un teatro pensato per divertire.

e.f.

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