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ELVIO GIUDICI

E. W. KORNGOLD
DIE TOTE STADT
REGISTRAZIONI DISCOGRAFICHE

L'OPERA IN CD E VIDEO
sub voce KORNGOLD
pp. 549 ss
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Korngold - La città morta

Registrazioni discografiche

Opera in tre atti di Paul Schott, pseudonimo per Julius e Erich Korngold.
Amburgo e Colonia 4 dicembre 1920
Personaggi: Marietta, Paul, Fritz, Frank, Brigitta

1975 - C.Neblett, R.Kollo, H.Prey, B.Luxon, R.Wagemann; coro e orchestra della Radio Bavarese, direttore Erich Leinsdorf
RCA (2 CD) **** (su 5)

1996 - K.Dalayman, T.Sunnegärdh, P.-A.Wahlgren, A,Bergström, I.Tobiasson; coro e orchestra del teatro Reale Svedese, direttore Leif Segerstam (dal vivo)

NAXOS (2 CD) ** (su 5)


1975 RCA

L'opera ruota attorno a Paul, vedovo con molti problemi psicotici che ha costruito, attorno al ritratto della morta Marie, una sorta di altare privato coi cimeli dell'amata, primo tra tutti la sua lunga treccia. Dalla fine del primo atto a metà del terzo, Paul cade preda d'un delirio onirico che ci si materializza davanti, completo di ricorrenti processioni di monache assatanate a inframmezzare il prendere vita del ritratto della morta, la quale assume le fattezze della ballerina Marietta - conosciuta nel primo atto - e intreccia una torrida storia d'amore con un amico di Paul: questi, vedendo profanato l'altare-feticcio, strangola la donna con la treccia-reliquia. Fine dell'incubo, ma anche fine d'ogni possibile speranza: Marietta torna a trovarlo, ma lui l'abbandona partendo per sempre.

Con le sue atmosfere nebbiose e i contorni sfumati di Bruges la Morta, questa epitome del neoromanticismo simbolista si coniuga dunque perfettamente all'espressionismo di certo cinema nordico anni Venti (Ombre ammonitrici di Robinson con un po' di Destino di Lang, guardando dappresso il Tesoro d'Arne di Stiller e il Carretto fantasma di Sjöström): atmosfere, trame e financo tecniche compositive del melodramma sempre più si sovrappongono insomma a quelle del cinema in un percorso parallelo destinato a concludersi, com'era inevitabile, con la fagocitosi del primo ad opera del secondo nel favore dell'immaginario collettivo.
Molto difficile è solo suggerire simile coacervo culturale, ma anche rendere la complessa trama strutturale d'una musica che di tale cultura è allo stesso tempo causa e frutto. Struttura efficacissima nel creare un clima sospeso tra realtà e sogno; con brividi di follia allacciati a spasimi di sensualità morbosa tra disfarsi e rifarsi d'armonie preziosissime, di vampate melodiche svaporanti nel moltiplicarsi dei piani tonali; con effetti di sospensione che frantumano la narrazione in una sorta di nebbia iridescente e densa, dove i colori si sovrappongono e sfumano con affascinanti risultati espressivi.
Con Leinsdorf, non solo tale struttura emerge con nitidezza sorprendente: ma è espressivamente intrisa appunto degli acri e sfiniti umori d'una cultura di cui in tal modo avvertiamo l'atmosfera così come mai riuscirebbe alla più dotta delle esegesi.
Il che non stupisce, del resto, dato che il mondo musicale degli anni Venti e Trenta è quello in cui il viennese Erich Leinsdorf era nato e cresciuto, prima di emigrare nel '37 in America - compagno di viaggio di tanti compositori austrotedeschi dell'epoca - dove divenne responsabile in pratica dell'intero repertorio tedesco al Met per poi assumere la carica di direttore stabile dell'orchestra di Cleveland prima e di Boston in seguito.
Direttore di marcata impronta intellettuale, Leinsdorf dava il meglio di sé nel rigore strutturale della seconda scuola viennese: cionostante, a contatto con l'estetismo macerato di Korngold - in cui si condensa l'atmosfera culturale della sua adolescenza viennese - proprio la proverbiale asciuttezza espressiva (non è senza motivo che si diventa assistente d'un Toscanini!), di conserva alla precisione e all'oggettività con cui amava rendere le architetture musicali, serra la partitura in una continuità rigorosa, incisiva, capace di tradurre in forte valenza teatrale l'atmosfera greve e malsana generata, in guisa di fitta coltre nebbiosa, dal continuo stotolarsi delle modulazioni e conseguente infittirsi armonico.
La Neblett plasma una Marietta d'esangue tenerezza, cantando con stile e gusto ragguardevoli il Lied «Glück, das mir verblieb», la felicità che mi è rimasta. Brano assai celebre, un tempo, e del quale sopravvivono alcune famose incisioni storiche, tutte decisive per la comprensione della temperie espressiva d'un'epoca che l'opera di Korngold - all'incirca contemporanea - rifletteva perfettamente.
Quella dell'ungherese Maria Nemeth, la cui voce chiara e un tantino metallica imprime alla melanconia del brano - la danzatrice Marietta che tra sogno e realtà canta a Paul la canzone sempre sulle labbra della morta Marie - un che d'implacabile, di vagamente minaccioso per non dire proprio di satanico.
Quella di Maria Jeritza (che fu anche la prima Mariette al Metropolitan), a dispetto dell'asprezza e disuguaglianza vocale è una sorta di sex-appeal compresso ma sempre lì lì per esplodere, e se suscita effetto quasi ipnotico sull'ascoltatore di oggi, chissà mai quale sensazioni avrà saputo suscitare negli spettatori dell'epoca, oltre a tutto al cospetto d'una donna tra le più belle e «dalle movenze flessuose e sensuali» - come lasciò scritto Lauri-Volpi - che mai abbiano calcato la scena lirica.
Quella, più celebre di tutte, di Lotte Lehmann con Tauber e la direzione di Szell - è stata ristampata dalla Preiser e dalla Nimbus - evidenzia un conturbante coacervo di melanconia intrisa del peculiare profumo di sensualità languorosa sempre conferito dalla Lehmann al proprio canto, e che ancora una volta fa tornare in mente la sempre un po de Kirsten Flagstad la quale, nell'assistere alla Sieglinde della collega, sbottò «fa cose che una donna dovrebbe fare solo col proprio marito!».
A queste testimonianze storiche, imperativo è però accostarne una più moderna ma certo non meno valida (vocalmente, anzi, senz'altro più valida) contenuta in un celebre recital pubblicato dalla RCA: il timbro fondo, scuro, rovente di Leontyne Price srotola la densa melodia coniugando purezza di linea ed crotismo d'accento in modo a dir poco elettrizzante. E qui, a mio avviso, che sta una chiave delle più sicure per accedere all'universo espressivo di Korngold e, con lui, del decadentismo europeo che impregna il periodo tra le due guerre.
Quattro maniere diversissime, come si vede, di rendere la pagina non più bella ma certamente più evocativa dell'opera. La Neblett ha temperatura emotiva senz'altro più bassa, e della stratificatissima ambiguità del brano esprime solo la sognante nostalgia: senza preoccuparsi troppo, nonostante certe rabbrividenti increspature armoniche suscitate daLeinsdorf, di scendere oltre il levigato specchio melodico. Altrove però - e segnatamente nel grande episodio satirico della recita teatrale, dove il supporto di Leinsdorf è strepitoso - il suo fraseggio e l'imperiosità del suo registro acuto plasmano un personaggio di forte spicco.
Kollo era in cattiva forma, purtroppo. Timbro secco, emissione difficile da governare, un accento che le difficoltà vocali costringono in un realismo troppo sbrigativo per rendere come si dovrebbe l'atmosfera ipnotica e sensualmente torbida del second'atto: ma se il canto in sé lascia alquanto a desiderare nella bellissima «Ich werde sie nicht wiederseh'n» («io non la rivedrò mai più», che un'antica incisione di Richard Tauber - anch'essa riversata di recente dalla Nimbus - ha reso un classico), nondimeno il fraseggio è di acuta intelligenza, e la fisionomia del personaggio emerge con notevole suggestione.
Memorabili gli importantissimi ruoli minori: il valzer di Fritz trova in Prey interprete ideale, mentre il delicato timbro da baritono lirico di Luxon è del pari perfetto per la musica di Frank.
1996 NAXOS

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