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LAURETO
RODONI
«DIE TOTE
STADT» ALL'OPERNHAUS DI ZURIGO
UNO SPETTACOLO
MAGISTRALE
MAGNIFICA
L'INTERPRETAZIONE DI FRANZ WELSER-MÖST
E PROFONDISSIMA, ORIGINALE, MAI ARBITRARIA
L'ESEGESI DEL REGISTA SVEN-ERIC BECHTOLF.
UN VERO E PROPRIO EVENTO MUSICALE!
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Maestro concertatore
e direttore
d'orchestra
FRANZ WELSER-MÖST
Regia
SVEN-ERIC BECHTOLF
Scene: Rolf Glittenberg
Costumi:
Marianne
Glittenberg
Luci: Jürgen Hoffmann
Coro:
Ernst
Raffelsberger
Paul: Norbert Schmittberg
Marietta / Marie: Emily Magee
Frank / Fritz: Olaf Bär
Brigitta:
Cornelia
Kallisch
Juliette:
Elizabeth Rae
Magnuson
Lucienne:
Heidi
Zehnder
Victorin: Boguslav Bidzinski
Graf Albert:
Volker
Vogel
Gaston:
Daniel
Chait
Apparizione di Marietta: Megan Laehn
Apparizione di Marie: Catherine Treyvaud
Il gigante:
Reto
Götschi
Il nano:
Roberto
Angeletti
La donna obesa:
Isabella
Rütschi
Chor
des Opernhauses Zürich
Jugendchor Opernhaus Zürich
Statistenverein des Opernhauses
Zürich
Orchester der Zürcher Oper
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In un mio saggio su
Die Tote
Stadt pubblicato in questo sito, a proposito del ruolo della
città di Bruges nellambito della drammaturgia
dellopera, scrissi che, quando nel fondamentale preludio del
secondo atto riappare inopinatamente la voce di Marie (la quale
ripete le ultime parole cantate alla fine del primo, sostenute
però anche dall'organo: «Dich fasst das Leben, dich
lockt die Andere. Schau und erkenne...»), si è dinanzi a
un espediente drammaturgico e musicale che il compositore impiega per
evidenziare la corrispondenza (la complicità?) tra la moglie
morta e la Città, esplicitata verbalmente nella seconda scena
del secondo atto:
Du weisst, dass ich in Brügge blieb,
Um allein zu sein mit meiner Toten:
die tote Frau, die tote Stadt, Flossen zu
geheimnisvollem Gleichnis.
e ripresa nella sesta scena, all'inizio della
lunga visione di Paul:
Du bist bei mir, bists immer, ewig.
bist es in dieser toten Stadt
Du tönst in ihren Glocken,
steigst aus ihren Wassern.»
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Il team di regia si ispira con
originalità a questa interpretazione, a questi versi. Vediamo
come. Nel primo atto, il libretto prescrive che
nellabitazione-museo di Paul campeggi un dipinto raffigurante
Marie, la moglie disperatamente rimpianta. Bechtolf sostituisce la
tela con uno schermo cinematografico collocato centralmente e chiuso
da una sorta di sipario, alla cui apertura lo spettatore vede un
bagno verde in cui giace la moglie morta (uccisa o suicida?), avvolta
nel cellophan, agghiacciante involucro della morte che compare in
altre macabre occasioni (riveste anche il letto matrimoniale di Paul
e Marie). Si tratta di unimmagine sconvolgente che sembra
alludere, anche cromaticamente, a una delle scene oniriche più
importanti del film Shining di Stanley Kubrik. La cinepresa si
sposta lentamente sul cadavere indugiando poi sulla mano pudicamente
posata sotto il grembo.
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Questa scena proiettata sullo schermo,
diventa scenografia del sogno nel secondo e nel terzo atto,
espandendosi in una enorme salle de bain dello stesso inquietante
colore verdastro, in cui la vasca non è più elemento
centrale: si trova infatti sul lato destro schiacciata contro la
parete. Il fiume di Bruges è evocato da una sorta di lungo
lavacro che separa orizzontalmente la salle de bain da uno spazio
delimitato da pannelli di vetro, probabile allusione alla cattedrale
di Bruges, le cui architetture sono quindi del tutto espunte, o
meglio trasformate, deformate, profanate dalla mente di Paul.
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In questi spazi, reali ed onirici,
Bechtolf esplora con folgorante acume la complessa personalità
di Paul, protagonista devastato dalla depressione (allamico
Frank, egli attribuisce genialmente anche il ruolo di medico che cura
la grave malattia mentale di Paul con iniezioni e pillole), alla
disperata ricerca di un aboutissement della sua vita, da anni
esclusivamente incentrata sul culto morboso della moglie
morta. Laboutissement sembra incarnarsi in Marietta, donna
di prepotente ed esuberante vitalità, ma troppo sarcastica e
cinica nei confronti dei riti morbosi di Paul: dopo il crudele,
insostenibile dileggio delle reliquie di Marie, Paul la uccide nel
sogno: una punizione per indegnità e sacrilegio, in quanto
profanatrice della santa memoria della moglie scomparsa. |
Com'è noto, il finale del libretto
è borghesemente tranquillizzante: «Paul se ne
andrà da Bruges, la città della morte. Sulla terra non
ci può essere alcun ricongiungimento con quelli che ci hanno
lasciati, alcuna resurrezione», scrisse infatti Korngold stesso
nella trama dellopera redatta per il pubblico della prima
rappresentazione viennese. Con un altro formidabile coup de
génie, Bechtolf risolve i conflitti di Paul facendogli
indossare, tra spasmodici, devastanti rovelli, i capelli della moglie
morta. Il dualismo su cui è fondata tutta lopera,
evidenziato nella scenografia da elementi specchianti sparsi
ossessivamente ovunque: specchi veri e propri nella salle de bain,
sul soffitto, lacqua, i vetri della cattedrale; il
dualismo, si diceva, converge in un unico personaggio, nel
protagonista, che diviene una sorta di ossimoro vivente, stilema
drammaturgico di enorme pregnanza semantica, che valorizza al meglio
l'apparentemente scialbo finale dellopera.
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Una regia superba, quella di Bechtolf,
nella quale gli elementi nuovi rispetto alle indicazioni del libretto
non sono arbitrio ma intenso lavoro di scavo, profonda esegesi del
testo e della musica, sia sul piano sincronico, sia su quello
diacronico, alla luce delle ricerche psicanalitiche condotte attorno
a Freud in quel periodo.
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Sul piano musicale chi scrive non
può che condividere lopinione di Michael Eidenbenz
espressa sul Tages Anzeiger: «Was Dirigent
Franz Welser-Möst und ein
Riesenapparat von einem Orchester mit dieser Partitur anstellen, ist
nichts weniger als sensationell.» Il grande maestro austriaco,
riconosciuto specialista della musica di Korngold, ha infatti offerto
uninterpretazione di sconvolgente intensità della
Tote Stadt, in mirabile simbiosi con la regia di Bechtolf: il
secondo atto, da questo punto di vista è, senza retorica,
letteralmente stupefacente. E stupefatto era il pubblico che ha
decretato il trionfo dello spettacolo prima che terminasse.
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Per nulla intimorito, stimolato anzi
dall'estrema complessità stilistica della partitura,
Welser-Möst ha sovranamente guidato lOrchester der
Zürcher Oper, splendida in tutti i suoi settori;
unorchestra che, giova ripeterlo, egli ha portato in pochi
anni, con umiltà, pacatezza e competenza, ai vertici mondiali
in ambito operistico. Cesellati con certosina precisione e
raffinatezza i non pochi momenti cameristici dell'opera;
al calor bianco le tumultuose, violente esplosioni di tutta la
gigantesca orchestra, con però sempre un rigoroso controllo
del suono, assolutamente necessario per evitare che il fortissimo
sconfini nello stentoreo, nel fracasso (come purtroppo di frequente
capita nelle rappresentazioni di routine). Soavissimi i momenti
elegiaci; dionisiaci gli spasmi, le tensioni, le lacerazioni dei
protagonisti. Un diluvio di applausi e grida di assenso hanno accolto
il maestro allinizio del secondo e del terzo atto e,
ovviamente, alla fine dellopera. Un'interpretazione che
eguaglia e in certi momenti supera quella di Leinsdorf, per nostra
fortuna consegnata alla Storia dell'Interpretazione da una memorale
registrazione RCA, riversata su CD.
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Il tenore Norbert Schmittberg,
alle prese con la «höllischte Tenorpartie der
Opernliteratur» (Welser-Möst), ha offerto una magnifica
interpretazione di Paul, sia sul piano musicale, sia su quello
teatrale: il timbro bellissimo, il fraseggio vario, morbido e
fluente, leccellente emissione della voce, la facilità
nel raggiungere le vette tenorili, uniti alle non comuni doti di
attore, hanno conferito al protagonista uno spessore inusitato.
Qualche comprensibile, lieve cedimento dovuto al fatto che il ruolo
è veramente massacrante, ben poco ha tolto all'interpretazione
nel suo insieme.
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Emily Magee, anche
grazie alla sapiente, illuminata guida di Bechtolf, ha
saputo evidenziare le stratificazioni psichiche, le innumerevoli
sfumature di Mariette, che rendono il personaggio sfuggente,
inafferrabile: dolcissima, nostalgica da una parte, sfrontata,
cinica, sarcastica dall'altra. Al debutto nell'impervio ruolo, la sua
performance è stata di alto livello tecnico-vocale e
interpretativo. |
Memorabile è stato pure Olaf Bär nel doppio ruolo di Frank e
di Fritz (il Pierrot della compagnia di Mariette). Il grande
liederista tedesco ha impressionato non solo per il bellissimo timbro
della sua voce, per il fraseggio morbido e fluente, ma anche per come
ha saputo assimilare e padroneggiare, al debutto nel ruolo, la
complessa vocalità di Korngold.
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All'altezza della situazione gli altri
interpreti e bravissime le comparse. Successo clamoroso per tutti. I
timidi tentativi di stroncare la regia sono stati subito sommersi da
boati di assenso, in parte dei quali era malcelata una certa ironia
nei confronti dei fans dello spettacolo museale. Uno spettacolo da
non perdere per chi ama questo tipo di repertorio.
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