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GIULIO COGNI

INTRODUZIONE AI LIBRETTI D'OPERA DI ADRIANO LUALDI

LA BILANCIA DI EURIPIDE
pp. XIX-XXXIII

Confesso che quando, un giorno di quell'altra estate, Adriano Lualdi mi disse che stata raccogliendo in un volume, che avrebbe pubblicato la Casa dall'Oglio, il suo teatro, quantunque io ne conosca da tanto tempo quasi tutta l'opera musicale nel suo complesso, non mi parve che la decisione potesse avere molta importanza. I suoi volumi di prose critiche li conoscevo; ed erano senza dubbio di buona fattura. Ma quanto all'opera letteraria, o meglio poetica, che alcuni musicisti, facendosela da sé, sono soliti sottomettere alle loro creazioni musicali, vi sono ormai prevenzioni secolari, che dicono di non considerarle se non come utili supporti - nel migliore dei casi soltanto funzionali - ai suoni che sono destinati a coprirle quasi interamente. Tanto più che la fama del musicista, come avviene sempre in questi casi, copre essa pure completamente quella del poeta nell'opinione del mondo; e ciò avviene anche quando il poeta è un altro.
Solo Metastasio si è salvato dalle placide onde musicali che, a suo tempo, hanno avvolto le sue opere teatrali; Da Ponte viene ammirato soltanto di riflesso. Nei casi nei quali un grande poeta è stato ridotto e ritradotto in musica per un grande compositore ci si decide a considerare indipendente la sua opera originale dal riadattamento - o raffazzonamento? - per la musica, al quale non si attribuisce valore particolare; così per Maeterlink e Debussy,d'Annunzio e Pizzetti, Büchner e Berg. Isolatissimi sono i casi, essi pure poco considerati, di Hofmannsthal e Strauss, d'Annunzio e Mascagni, Valery e Honegger (o Tailleferre) nei quali l'opera letteraria è insieme autonoma e legata alla musica.
Contro una considerazione globale del lavoro letterario che dovrà accompagnarsi alla musica stanno un argomento e un fatto. L'argomento è - e sembra decisivo - che in tal caso l'opera letteraria non è indipendente, ma tracciata in vista di altro, a cui deve servire; quindi le manca l'autonomia artistica. Contro questo sofisma ho già scritto in un mio recente saggio (Wagner poeta, in «Collectanea Historiae Musicae», IV - in onore di G. Barblan, Olschki, Firenze, 1966) qualcosa che mi pare degna di attenzione.
«Per decidere se un'opera d'arte sia autonoma in se stessa e quindi valida o meno nel suo proprio ambito non è sufficiente il fatto che essa si accompagni ad altre espressioni artistiche, e neanche che senza di esse non abbia la sua ragione d'essere. Con tale misura non è arte quella del regista, dello scenografo, del costumista, e non lo è quella dell'architetto, le cui creazioni hanno per lo più finalità che oltrepassano la semplice struttura architettonica: ma non lo è neanche, se si riflette, l'arte del compositore di opere in musica, tanto meno se di struttura wagneriana, perché è evidente che in esse la musica non è arte veramente autonoma, ma, per splendida che possa essere, serve sostanzialmente al dramma. Decisivo è chiedersi se l'opera d'arte poetica abbia alla lettura vitalità in se stessa, sia cioè bella immediatamente come dramma e come poesia, oppure sia solo un mediocre canovaccio versificato, scheletro da servire unicamente al rivestimento del corpo sonoro della musica.
Qualunque opera d'arte autonoma nell'ambito dell'ispirazione in cui sorge. Se, ad un momento dato, essa viene interamente vissuta in una determinata forma, è dentro tale forma che deve venire valutata: le altre forme a cui si accompagni, e alle quali in un certo senso serva di complemento o di seme o di matrice, costituiscono altri momenti artistici, che possono anche rivestirla in altro modo, ma non la eliminano.»
Quanto al fatto, esso è di natura pratica: effettivamente il canto sommerge all'ascolto quasi completamente la poesia, e ne affirano soltanto dei brandelli; così che l'occultazione anche del più grande poema è inevitabile; e il pubblico non riesce ad afferrarne il valore se non lo riceva sotto altra forma, libera dall'avvolgimento musicale.
Proprio chi scrive si è trovato davanti alla manifestazione massima di questa pervicace occultazione quando si è dedicato all'interpretazione in poesia italiana dell'opera drammatica di Richard Wagner, per le edizioni della Casa Ceschina. Wagner è il caso limite, fra tutti i casi della musica e della poesia. Non si è mai dato - almeno dopo l'antichità ellenica, cioè dopo l'epoca dei grandi tragici classici, delle cui virtù musicali però non sappiamo nulla - il fenomeno di un così enorme musicista che fosse anche un così grande poeta. Chi legge spassionatamente la Tetralogia o il Tristano nella loro nudità letteraria vede chiaramente che queste sono grandi opere di poesia drammatica.
Il genio creatore vi riluce per la straordinaria potenza drammatica con cui trama ed azione sono concepite, ma anche, in quanto poesia, per la musica verbale intima che palpita, ritmicamente sonante, nei momenti culminanti dell'emozione, quando il poeta si abbandona ai grandi canti lirici. La morte di Isotta è uno dei più alti momenti di tutta la poesia germanica; ed è solo un esempio fra i tanti, che alzano l'onda del verso nella gigantesca opera di Richard Wagner.
Eppure che cosa è avvenuto? Proprio in quel saggio, che abbiamo ricordato, abbiamo avuto occasione di discutere gli argomenti, che attraverso i tempi sono stati addotti per negare a Wagner virtù di poeta. Curiosamente è accaduto che, poiché la grandezza della sua poesia non poteva non trasparire, nonostante tutto, tanta era la sua potenza lirica e metafisica, il campo critico si è diviso in due parti: quella di coloro che hanno esaltato Wagner come poeta, quasi alla medesima altezza del musicista (e fra questi v'è addirittura Thomas Mann) e quella degli altri che gli hanno negato quasi ogni validità letteraria (come Adorno e compagni).
Per negare, naturalmente, occorrevano degli argomenti. Qualche motivo addotto era di natura intima, e poteva avere buon gioco, perché i difetti non mancano a nessuno. Ma gli altri si riducevano sostanzialmente a quell'unico, di cui abbiamo parlato: la poesia di Wagner serve alla musica, quindi non è vera poesia.
Ma se si riconosce il semplicismo di questo sofisma, comincia ad affiorare un problema, che sembra completamente nuovo. Limitato a Wagner, questo problema potrebbe anche apparire superfluo; una tantum, si potrebbe riconoscere la validità eccezionale del poeta accanto a quella del musicista. Ma se si estende la ricerca ad altri poeti, che furono anche musicisti - come Arrigo Boito - e ai poeti validi che suscitarono e accompagnarono l'opera creatrice dei poeti del suono, torna ad emergere tutta la problematica del rapporto fra parola e musica; che è questione filosofica, che vorremo ora lasciare da parte. Ma affiora anche un altro problema, che concerne un genere letterario, finora trascurato, anzi negletto, unicamente perché si ritenne inesistente nell'ambito dell'arte vera e propria.
Di sorpresa a me è accaduto che la lettura di questo libro mi ha dato una lunga sensazione di paradiso umano, di fantastici mondi armoniosi esplodenti in bolle di cromatiche rotondità liriche.
Evidentemente, chi scorrerà, dapprima forse alquanto scettico, poi sempre più preso e avvolto dalla sfolgorante fantasia teatrale, dalla luminaria delle immagini, infine dalla musica stessa verbale che già in sé le pervade queste opere letterarie di Adriano Lualdi dovrà porsi la domanda: perché non ci siamo avveduti prima dell'esistenza del poeta Lualdi in quel clima letterario minore che va da d'Annunzio a noi? Nel clima cioè delle favole sceniche e delle fumisterie metafisiche, che avvolse la creazione letteraria fra le due guerre, da Morselli a Bontempelli, a Pirandello e Rosso di San Secondo?
La risposta è semplice: perchè Lualdi emerse e si affermò subito come musicista; e la consuetudine vuole che non esista musicista che sia anche poeta. La consuetudine vuole, altresì, che non esista poesia vera se non nelle opere drammatiche indipendenti: si dice che quelle scritte per la musica non hanno canto in se stesse: sono dei lacerti di servizio; nessuno li degna di uno sguardo autonomo e positivo.
E poi, cominciando da noi stessi che scriviamo, quando ce ne siamo accorti? Se inoltre si pensa che la maggiore vitalità fantastica autonoma, espressiva, tutta vibrante di immediati fermenti quasi di avanguardia, si raccoglie sopratutto nell'ultimo teatro di Lualdi - che in buona parte non ha ancora rivelato la sua musica - si scorge subito come il disvelarsi della poesia di Lualdi sia un fatto quasi completamente nuovo, da segnare a questa data in cui appare il volume di cui fanno parte queste povere parole introduttive.
Lualdi ha fatto a chi scrive il grande onore di chiedergli una introduzione. Ma questo onore si sarebbe risolto in cosa di poco conto se chi scrive, nella sua oscurità, avesse dovuto soltanto limitarsi ad elogiare il maestro, di lui tanto più famoso e grande. Di sorpresa invece egli si è accorto, che qualcosa di utile poteva veramente compiere, che Lualdi da solo non poteva fare; mettere in luce, cioè, non tanto il valore poetico della sua opera, che parla da sé, ma il problema che ne sorge, e che è tuttora nuovo, perché nessuno l'ha mai chiaramente posto.
Dire quanto sia bella l'opera letteraria di Lualdi che questo volume presenta è cosa tanto noiosa, che non vale la pena neanche di incominciare. Tutti sanno che l'opera bella parla da se stessa e che ogni commento, additamento, esegesi estetica non fanno che sciuparla con molto chiacchierio. La Divina Commedia viene letta in tutte le scuole: e si può giurare che nessuno, a scuola, riesce ad afferrarne la grandezza, per virtù preclara degli innumerevoli commenti che la interrompono in nota. Anche se questi commenti sono separati dal testo e messi in una introduzione, a che servono? L'introduzione non è il testo, non è l'opera d'arte: è un prosaico chiacchierare, simile a quello con cui, in certe chiese, certi frati sono soliti accompagnare, a scopi istruttivi, i concerti d'organo. E riescono così soltanto a farli divenire più noiosi di quanto generalmente sono.
Ma il problema che pone l'opera di Lualdi è veramente singolare. Perchè rarissimamente un musicista ha avuto doti di poeta. In Germania vi sono i casi notevoli di Pfitzner, Hindemith e Krenek (particolarmente valido poeta quest'ultimo). In Italia vi sono gli esempi illustri di Pizzetti e Malipiero, e fra i più giovani Vieri Tosatti, che si scrive, con geniale ingegno, i libretti da sé. In America c'è l'abilissimo Menotti. La cosa più singolare, poi, è che questo volume contiene anche degli esempi problematici; presenta infatti non soltanto l'opera letteraria teatrale di Adriano Lualdi, ma insieme ad essa testi di Luigi Orsini, che fu dolce e delicato poeta, e di Maner Lualdi. E dal confronto del primo caso si scorgono chiare non soltanto le tempere diverse degli uomini, ma le necessità diverse che hanno informato i loro lavori.
Le nozze di Haura è infatti, a guardarci dentro, un testo squisitamente letterario, non immune da convenzionali dolcezze verbali fine ottocento, ma anche pervaso da una poesia minore, che ha il suo rilievo. Si avverte però in essa come forma, struttura del verso, guscio stesso della piccola opera, quantunque scritta con la preoccupazione forse di far piacere al musicista, non vedano le cose oltre l'orizzonte letterario. Ci sono delle forme del versificare, e dei modi di immaginare che erano al suo tempo tipicamente letterari: volevano una loro autonomia; e la musica avrebbe potuto soltanto rivestirli esteriormente. Curiosamente si potrebbe dire che questi lavori, squisitamente letterari, non avevano indipendenza letteraria, in quanto obbedivano a canoni delle letteratura del momento.
Proprio invece i lavori di Lualdi poeta - quando egli si risolse a far da sé - per la singolare ragione che dovevano servire alla musica senza preoccupazioni letterarie, furono stesi palesemente da lui in una forma libera da ogni preconcetto, e quindi molto più autentica e vivida di sangue, che vi scorre e si ramifica in tutte le variegature della sconcertante fantasia teatrale dell'autore. Che sembra sempre presentare al boccascena delle sorprendenti luminarie, di una tecnica di ribalta così complessa di intrecci di situazioni a destra e a sinistra, che a prima vista sembrano persino inafferrabili; eppure formano un arazzo di gran vestito mondano, dove la sensualità di quel parco di giochi che è la vita si rispecchia e accende sventagliando i suoi artifici. Una limitazione c'è; ma non è un limite; è un genere. E appunto il fatto, assai semplice, che a leggerli questi lavori sono più racconti che cose rappresentabili nude e crude, per la naturale ragione che la musica deve riempire i vuoti sinfonici - accennati con vivide parole ogni volta che l'immagine è sonora - che temporali e ritmici. Il testo per musica va giudicato alla lettura; non bisogna domandarsi, per apprezzarlo, se da solo potrebbe venire rappresentato e fare la sua figura; che è un problema palesemente storto.
Poichè esso in teatro vivrà unicamente insieme alla musica è come un racconto che, per venire rappresentato in televisione, dovrà subire un'interpretazione speciale e un riadattamento. Quindi va letto come opera pura di poesia; esattamente come le creazioni scenografiche di Wieland Wagner o di Kokoschka o Conti non vanno guardate come pittura ma nell'ambito del fine a cui devono servire; eppure possono venire vissute e godute nei bozzetti quali opere d'arte completamente autonome, perchè nate da un circolo completo di visione creatrice, a cui la musica e il dramma servirono di fonte zampillatrice o vulcano di eruzione.
La Luna dei Caraibi è una libera traduzione da O' Neill; ma come non apprezzare l'armonioso gusto del traduttore? Chi ha vista l'opera in teatro sa quanto questa matrice letteraria abbia determinato la tessitura molto moderna di suoni, rumori, clangori, sussurri, vertici sonori dell'opera musicale, in una perfetta fusione di musica e poesia.
Ma anche chi legge quella straordinaria fantasia hoffinanniana che è Il diavolo nel campanile, oppure La grançeola (liberamente ridotta dal racconto di Bacchelli) oppure la commedia da concerto in un atto dal titolo impronunciabile (Lualdi è un giocoso energicamente melanconico, e ha sempre un forte vinagro di fumismo nel suo carattere divagato e polemico) avverte come queste creazioni poetiche, belle in se stesse, siano sostanzialmente dei racconti metafisici e fantascientifici oppure ironici, dietro le cui lievi musiche verbali si attende la musica amplificatrice. Essenzialmente sono racconti musicali. Come certi poeti sono tutti visivi, e si avverte quasi la possibilità di tradurre le loro opere in visioni pittoriche, come è avvenuto per Dante e per Ariosto, altri - i musicisti - sono auditivi; Lualdi è però visivo e auditivo contemporaneamente, ma è, oltre le luminarie immaginative, tanto uditivo, che i suoi racconti teatrali producono gia nuvole di immagini sonore; ed ecco forse perché queste sono valide e autentiche come poesia pur affermando la loro vitalità nell'ambito della musica. Quasi come i racconti di Hoffinann - che fu anche musicista - essi sono autonomi, eppure si continuano naturalmente nella musica, che poi li porterà, in occasione della rappresentazione, allo splendore sinfonico ed entusiasmante, che solo il teatro lirico può liberamente effondere.
Lo strano è che, in certi sensi bizzarramente metafisici, alcuni grotteschi lualdiani - Il diavolo nel campanile, la commedia radarstratotropojonosferaphonothetica del Lunapark - hanno quelle caratteristiche di teatro arbitrario, fatto sostanzialmente di maschere tipiche senza vita autonoma, che oggi taluno, come Moravia, vorrebbe introdurre sulla scena. I risultati sono deprecabili nel teatro puramente verbale, che diventa così soltanto superficiale e cartellonistico; ma prendono vigore dalla realizzazione musicale, come elementi di visione lirica. Alla lettura questi racconti, nei quali la visione lirica musicale si immagina, riprendono vita, e sono quello che un po' sempre fu il teatro musicale, il quale vive ben più di elementi lirici che strettamente drammatici, e permette al testo letterario infiniti arbitri, che sulla scena, da soli, rimarrebbero troppo scoperti e vuoti.
Un'altra cosa strana: questo volume contiene anche Lumawig e la saetta, fantasioso balletto primordiale (africano?) di Maner e Adriano. L'avevamo visto alla Scala, ma non ne ricordavamo il testo. Che è appunto, questa volta, soltanto un racconto. Ciò che si vede subito è che il carattere dei Lualdi, padre e figlio, è identico, cioè fatto della stessa sostanza chimica - appariscente del resto anche dalla somiglianza fisica fra loro. La medesima fumisteria polemico-metafisica, spremuta nella medesima follia immaginativa, che rasenta la febbre fantascientifica.
E questa febbre che fa la bellezza libera e senza limiti della fantasia di Adriano Lualdi subito all'atto della creazione poetica; e si avverte che è proprio questa creazione poetica, che in lui - eccezionalmente capace di voltare poi in orchestra le fantasie - genera il musicista; proprio come avveniva in Wagner, che fu enorme musicista, ma in quanto poeta. La poesia, anche in questi casi, è forse inferiore alla musica: ma resta vero che essa è la radice e il fusto di ciò che diviene successivamente musica di fogliame e magnificenza di fiori. Poiché i fiori sono il sesso del mondo vegetale, è naturale che poi dalla musica, come dall'onda del mare, risorgano a loro volta altre vite e altre piante di radici e di fusti, che genereranno nuove nuvole, di fiori.
Nell'Euridikes Diatheke - Il testamento di Euridice - la più matura, la più profonda, la più bella di tutte le opere musicali di Lualdi - v'è anche uno scoperto intento di pensiero; l'esaltazione dell'arte come consolatrice della vita in un mondo interamente armonioso di classica favola, e la polemica contro l'arte degenerata dei nostri giorni. È un'opera melismatica e melodiosa, di infinita durata (più di tre ore) ove Lualdi - che spesso si prende giocoso scherzo della vita - ha fatto completamente sul serio, quasi a voler lasciare il suo testamento spirituale al mondo. Assurge musicalmente a una potenza melanconica e cosmica, che non gli era neanche abituale.
Nel Diavolo nel campanile - il più bello, musicalmente compiuto e potente degli altri drammi musicali di Lualdi - l'intento metafisico della favola trapela; tempo, spazio, relatività degli uomini e degli animali, di bene e di male, astrazione eppure provvidenza della legge in un mondo che sostanzialmente non ha fondamento se non nella convenzione, sono palesi. L'intento polemico del Luna Park radarstratotropojosferphonothetico - ove si raggiungono livelli musicali elettronici e atonali - è nudo e chiaro: vuol essere una rappresentazione divertita dell'astrattismo avveniristico spaziale contemporaneo. L'intimismo cabarettistico della Maga senzapena è uno scontro fra la verità poetica trasfiguratrice e la realtà dura e pure patetica del mondo fatuo. Anche Lumawig e la saetta di Maner Lualdi ha momenti di metafisico sguardo diagonale sul globo terrestre. Ma tutto ciò non fa metafisica; troppo svagato ne è l'intento: fa soltanto paradiso di rappresentazione poetica del mondo.
Quanto alla Figlia del re - una delle prime creazioni del musicista, eppure già così bella e matura, anzi la più artisticamente viva e grandiosa nel teatro dell'opera - essa è un forte poema, che ha verbalmente, secondo i modi del primo novecento, la sua melodia e la sua interiore poesia.
Se ora tiriamo le somme e ci domandiamo dunque a che cosa approdi la lettura di questo singolare volume di libretti d'opera, la risposta ci pare chiara come l'acqua trasparente. Il volume vince la naturale diffidenza del lettore ponendogli - a lui e ai critici letterari - il problema imperioso della validità del genere: l'autonomia artistica del poema drammatico per musica. Non è del tutto inattesa, questa problematica: negli ultimi tempi la storia del libretto ha cominciato ad attrarre l'attenzione; ma ancora senza risultati concreti, al di fuori dell'ambito della musicologia. Troppo pochi sono, in realtà, i testi veramente validi: troppi gli echi negli orecchi di ognuno dei falsi melismi letterari di quasi tutti i libretti delle opere che vanno ancora per il mondo; mascheronate, persino accanto a Verdi, che la musica digerisce, assorbe e reca a volo nelle sfere immortali dei capolavori. Il pollice verso dinanzi alla produzione librettistica è dunque istintivo. Il grande esempio di Richard Wagner - che suscitò infatti libretti letterariamente migliori, e sempre più alta attenzione ai testi in tutto il teatro lirico posteriore - è fenomeno per noi straniero e in se stesso isolato; un genio universale della musica e della poesia.
E poi, in quasi tutti i casi, il poeta è diverso e staccato dal musicista, anche se ne subisce le imposizioni, e, sotto sotto, come avveniva con Verdi e Puccini e chi sa con quanti altri, gli presta in molti casi soltanto il nome e dei consigli sintattici. Il fenomeno di un musicista poeta è rarissimo. Lualdi e un caso tanto raro, specialmente in Italia, da neanche pensarci. Eppure questo libro induce a pensarci.
Perché induce a dire che Lualdi, fra gli scrittori italiani di teatro, esiste come poeta. I suoi poemi drammatici, a guardarci bene dentro, non hanno ombre, non fanno grinze, non hanno momenti costruiti letterariamente press'a poco. La loro struttura sintattica è precisa e calzante; la musica verbale e completa in se stessa; solo la concezione scenica aspetta il riempimento della musica per poter valere teatralmente. Sono opere dunque letterariamente condotte a finitezza. Non che si avverta che il musicista abbia scritto alla meglio, pensando che poi tanto verrà la musica; come si avverte invece in tutti i libretti verdiani, per fare un esempio massimo. Oseremmo dire che il poeta è così lucente - anche se inevitabilmente bisognoso di musica in quanto dramma scenico - che non è di molto inferiore al musicista. E ciò non è dir poco. Lualdi è sovente così visivo, oltre che auditivo, che si sente proprio che la musica non poteva bastargli; era nato scrittore; uno dei validi scrittori fra le due guerre; eppure divenne musicista; ma certe cose con la sola musica non le poteva dire, tanto sono visive, corpose, cogitative; le poteva dire soltanto come scrittore.
E cosi, egli è, in certo modo, un caso analogo, e aggiornatissimo, a quello ottocentesco di Arrigo Boito, praticamente rimasto, peraltro, senza seguito alcuno fino a cinquant'anni fa.
Sarebbe inutile, infatti, cercare un continuatore del Boito, un discepolo coevo - un musicista - poeta, come nel 1836 aveva vagheggiato Mazzini. Ma un predecessore sì, e di prima grandezza, lo si può trovare e lo si deve ricordare; occorre però risalire alla seconda metà del 1500: Orazio Vecchi.
Anche Orazio Vecchi «artista - antenna» come lo definì Lualdi in Tutti vivi; anch'egli ribelle alla moda imperante e prepotente; anch'egli dédito - con la strenua difesa e celebrazione, a suon di capolavori, della polifonìa vocale - a vogar controcorrente.
Proprio come avrebbe fatto Boito musicista e poeta trecento anni più tardi vogando anch'esso controcorrente, e auspicando un profondo rinnovamento dell'arte e del melodramma.
Perché Ranieri Calzabigi, il librettista di Gluck, l'Algarotti librettista critico scrittore d'arte di nuove vedute (il Saggio sopra l'opera in musica) e il Da Ponte librettista di Mozart, e il Romani, tutti belli ingegni, non erano anche musicisti.
Ci sono artisti che ascoltano interiormente soltanto musica e sono musicisti; altri che vedono immagini ordinate in logiche di pensiero e di vita, e sono scrittori; altri che scorgono l'energia del mondo in immagini visive; ed altri che ne sentono soltanto l'astrazione strutturale: e sono architetti. Ma vi sono anche coloro che hanno più larghi orizzonti interiori; vedono le cose e i pensieri per immagini logiche e insieme il loro agitarsi in energie sonore; ed è giocoforza che scrivano in poesia e che giochino altresì con orchestre e pentagrammi, sempre inquieti a completare gli emisferi della loro visione del mondo.
Comunque tutti i temperamenti lirici sono tendenzialmente portati verso l'espressione musicale. Ed è indubbio che la musica eleva ad una straordinaria potenza lirica il teatro, anche se questo vi sacrifica l'immediatezza drammatica e verbale. Perciò ci furono sempre poeti di teatro, anche grandissimi come Goethe, che sentirono nostalgia per la musica, e avrebbero voluto essere musicisti: e quelli, rarissimi, che anche veramente lo furono.
A questa categoria di musicisti poeti appartiene Lualdi.