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ADRIANO LUALDI

D'ANNUNZIO E LA MUSICA (*)

PIAZZA DELLE BELLE ARTI

RASSEGNA 1957-1958
pp. 144-168


La prima volta che potei osservare da vicino Gabriele d'Annunzio impegnato con musiche e musicisti, fu nel novembre del 1920, quando l'orchestra della Scala, condotta da Arturo Toscanini, si recò a Fiume, all'inizio del grande giro italo americano di concerti.
D'Annunzio aveva scritto a Toscanini, nel giugno di quell'anno: «... Venga a Fiume d'Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo. E l'anima del popolo è sinfoniale come la sua orchestra. I Legionari attendono il Combattente che un giorno condusse il coro guerriero».
Ad accompagnare Toscanini nel suo viaggio musicale, ma anche sentimentale, erano, con me, Leone Sinigaglia e Italo Montemezzi. Sapevamo che si sarebbero trascorse ore degne di memoria, che l'atmosfera alla quale si andava incontro non aveva nulla di comune con quella che avevamo lasciato, che d'Annunzio aveva posto la Musica alla base dell'ordinamento sociale e civile della Città, e che della Musica aveva scritto auguralmente, nello Statuto flumano: «Excitat auroram», chiama, eccita l'alba.
Ma nessuno di noi poteva immaginare la temperatura ambiente, nè l'alito di ardente poesia vissuta che avvolse l'orchestra e Toscanini dal momento dell'arrivo fino alla sera, al Teatro Verdi, durante e dopo il concerto.
Ai suoi Legionari disposti in quadrato dopo l'esercitazione a fuoco del mattino d'Annunzio aveva detto di Toscanini: «Guardatelo, guardategli la mano che tiene lo scettro. Il suo scettro è una bacchetta, leggera come una verga di sambuco; e solleva i grandi flutti dell'orchestra, sprigiona i grandi torrenti dell'armonia, apre le cateratte della grande fiumana, scava le forze dal profondo e le rapisce al sommo, frena i tumulti e li riduce in sussurri, fa la luce e l'ombra, fa il sereno e la tempesta, fa il lutto e il giubilo». E a qualcuno di noi era parso che il piacere e l'opulenza dell'ornato letterario non avessero rinunciato a sfilare anch'essi in parata nella fantasiosa e fragorosa festa d'armi.
Ma la sera, durante il concerto che comprendeva musiche di Beethoven, di Wagner, di Verdi (I vespri siciliani), di Sinigaglia (la Suite Piemonte), di Respighi (Le fontane di Roma), osservando d'Annunzio che, solo in un palco di proscenio a sinistra, ascoltava attentissimo, molte sue pagine estremamente sensibili al fascino, alla potenza, alle evocazioni, alle impennate onomatopeiche della musica, tornarono alla mente dei suoi lettori. E, più tardi, dopo il Concerto, quando - rientrato il d'Annunzio a Palazzo - noi ospiti ci riunimmo all'Ornitorinco, il Ristorante in voga, fu proprio Toscanini a confessare: «Molte cose dette da d'Annunzio questa mattina a Cantrida mi hanno lasciato incerto sui limiti fra ispirazione e virtuosismo, perchè il discorso è stato molto bello anche letterariamente; ma questa sera, mentre dirigevo e sentivo, proprio sentivo tutta la tensione del suo spirito polarizzarsi su me e sull'orchestra, mi sono accorto che con le sue parole d'Annunzio aveva esattamente presentiti i caratteri delle musiche e i limiti e la intensità dei colori che avrei toccati. Ora questo è molto al di là del virtuosismo e della fantasia letteraria. Questa è, nei riguardi della Musica, autentica sensibilità.»
***
Per l'autore del Fuoco, delle Odi navali, di Leda senza cigno, di Isotteo e la chimera, del Trionfo della morte, del Notturno, de Le vergini delle rocce, la Musica è un elemento base della vita; è, anzi, una forza della vita. D'Annunzio può dire di sè, mutando solo una parola ad una certa sua professione di fede: «Io sono un uomo per il quale il mondo sonoro esiste ».
Prima, ancora, infatti, della Musica vera e propria, il mondo sonoro è per d'Annunzio non soltanto una realtà, ma un incanto. Come del mondo delle forme e dei colori, egli ne fa il suo proprio regno. Lo anima e lo domina. Vi s'immerge, vi si abbandona, ne gioisce: e, come di ogni cosa che ami, con un ardore e con una voluttà che può arrivare fino alla frenesia.
Vicino o lontano, il bisbigliare di uccelli, il muggito di un bue o il belato di un agnello e poi, - nel silenzio improvviso, il frignare solitario di un bambino - non occorre nulla di più per commuovere e per turbar ancor più profondamente l'eroe già esagitato del Trionfo della Morte.
Giorgio Aurispa rientra un giorno nelle stanze chiuse da tempo che erano state un giorno asilo e santuario di Demetrio Aurispa, lo strano musicista da lui tanto amato. Seguiamolo:
«Nella terza stanza, severa e semplice, le memorie erano musicali, venivano dai muti strumenti. Sopra un lungo cembalo levigato, di palissandro, ove le cose si riflettevano come in una sfera, riposava un violino nella sua cutodia. Sopra un leggio una pagina di musica si sollevava e si abbassava ai soffli dell'aria, quasi in ritmo con le tende.
Giorgio si avvicinò. Era una pagina di un Mottetto di Felix Mendelssohn: Dominica II post Pascha...
Giorgio aprì la custodia, guardò il delicato strumento che dormiva in un velluto color d'oliva, con le sue quattro corde intatte. Preso come da una curiosità di svegliarlo, egli toccò il cantino che diede un gemito acuto facendo vibrare tutta la cassa. Era un violino di Andrea Guarneri, con la data del 1680.
La figura di Demetrio, alta, smilza, un po' curva, con un collo lungo e pallido, con i capelli rigettati indietro, con la ciocca bianca sul mezzo della fronte, riapparve».
Ricordate adesso il ritratto più vivo, più cantante che si conosca, di un violinista in atto di suonare:
«Teneva il violino. Si passò una mano su i capelli, alla tempia, sopra l'orecchio, con un atto che gli era familiare. Accordò l'istrumento, diede la pece all'archetto, incominciò la Sonata. La sua mano sinistra correva sulle corde, lungo il manico, premendolo con la punta delle dita scarne, convulsa e fiera, mentre di sotto la pelle il gioco dei muscoli era cosi palese che faceva quasi pena. La sua mano destra eseguiva la cavata con un gesto largo e impeccabile».
Nella lettera dedicatoria del Trionfo della morte a Francesco Paolo Michetti, Calen d'aprile 1891, d'Annunzio dichiara l'ambizione che lo infiamma: «V'è, sopratuito, [...] il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca d'immagini e di musica.»
Vedete dunque come la musica e la sua terminologia gli siano necessarie a precisare il suo ideale di poeta. Ma egli farà di più e, quattro anni più tardi, nel 1898, designerà ai compositori di musica italiani di là da venire, i modelli cui ispirarsi, per rinnovare e per ingagliardire lo stile; e ad alcuni già ricordati nel Trionfo della Morte aggiungerà, ne Il Fuoco, i nomi dei Monteverdi, Marcello, Caccini, Peri, del Cavaliere, da Gagliano, e il Manifesto della Camerata de' Bardi, tutto questo ventidue e ventisei anni prima che la giovane scuola post-verista italiana lanciasse il suo Manifesto e facesse suo - senza neppure saperlo forse - l'ideale che d'Annunzio aveva additato alla nostra musica.
Ma vogliamo un'altra prova della straordinaria elevatezza del senso musicale di questo poeta, e di come egli abbia largamente precorso il gusto e preannunciato (con eccessivo ottimismo, purtroppo) l'evolversi della nostra musica nel primo novecento?
Rimaniamo al Trionfo della morte: 1891. Cioè, nel campo del melodramma (unica forma tra noi dominante allora) subito dopo la triplice esplosione di Cavalleria Rusticana, di Pagliacci, di Manon Lescaut, nel campo della musica non dirò «da Camera» che sarebbe equivoco, ma da salotto di famiglia distinta (con i 'pouff' a sussidio delle poltrone 'capitonnées'; con le teste di moretti-portaritratti; con i tappetini di figurine Liebig tenute insieme dal punto ricamato a spina di pesce) immancabilmente sonorizzato, questo salotto, a base di «O begli occhi di Fata» (Denza), di «Musica proibita» (Gastaldon), di «Vorrei morir» (Tosti).
In un tale clima cosi perfettamente stabile e universalmente gradito, a quali canti Giorgio Aurispa volge la nostalgia e la malinconia suscitategli dalla fantomatica riapparizione di Demetrio?:
«Riapparve così, a Giorgio, il violinista. Ed egli rivisse ore di vita già vissute; [...] Il superstite rivide il violinista nell'atto di improvvisare, mentre egli lo accompagnava al pianoforte con un'ansia quasi insostenibile... Gli improvvisi di Demetrio Aurispa erano quasi sempre ispirati da una poesia. Giorgio si ricordò del meraviglioso improvviso che il violinista aveva tessuto, un giorno di Ottobre, su una lirica di Alfredo Tennyson nella Principessa. Egli medesimo, Giorgio, aveva tradotto i versi, perchè Demetrio potesse intendere, e glie li aveva proposti per tema».
Leggiamo, di questa lirica, la prima e l'ultima strofa soltanto. Varranno, meglio di ogni commento, a fare intendere a quale cielo musicale tendesse lo spirito del poeta in quegli anni:
«Lacrime, vane lacrime, io non so che vogliano dire
Lacrime dal profondo di una qualche divina disperazione
Sgorgano in cuore e s'adunano negli occhi
alla vista dei felici campi d'autunno,
al pensiero dei giorni che non sono più...
Cari come i baci ricordati dopo la morte;
dolci come quelli immaginati da una fantasia senza speranza
su labbra che sono per altri; profondi come l'amore,
come il primo amore; e selvaggi, di rimpianto.
O morte nella vita, i giorni che non sono più».
***
D'Annunzio rendeva una triste visita - la visita di commiato - a Giuseppe Giacosa non lontano dalla morte. Parlavano di musica e di musicisti.
«Dove ho letto, chiede Giacosa, che ogni malattia è un problema musicale? Forse è vero. Il mio sta per essere risolto».
«Come sentì nelle mie parole il rammarico - che sempre mi punge - di non poter comporre per la mia poesia la mia musica, di non poter trattare la metrica e l'orchestra a un tempo, egli disse:
«Credi tu che si debba augurare la riapparizione dei poeti musici?»
«Risposi: La triade geometrica delle arti, che si manifestano nello spazio, già tende a ricomporsi... Su la scena dovrà necessariamente ricomporsi la triade aritmetica delle arti, che si manifestano nel tempo... Quale forma semplice e complessa nascerà dalla musica, dalla danza e dalla poesia? Taluno oggi la intravede, senza raggiungerla. Ma è certo che non potrà essere il risultato di una collaborazione ineguale. Il genio di un solo artista, sapiente nell'arte triplice, potrà crearla attingendo la sua ispirazione alle più vive fonti popolari».
Ecco, qui, il rammarico - non per la prima volta espresso - di non poter egli stesso dar suono alla sua Lirica. Ecco l'intimissimo legame che riafferma fra poesia e musica, e che gli fa auspicare, a celebrarlo, il genio di un solo artista.
Ad Arrigo Boito scrive, nel 1885, annunciandogli che sta per risorgere La cronaca bizantina: «Mandatemi qualche cosa, una fantasia, una bizzarria metrica, una strofa alata, delle note musicali; mandatemi qualche cosa, vi prego.»
Al più lento e titubante dei compositori italiani chiedeva - per una Rassegna di imminente comparsa - anche musica. Sempre la musica era presente al suo spirito, anche in sede di riviste letterarie.
***
Ma v'è, sopra tutto, un elemento, una forza della natura di cui il romanziere delle Vergini delle rocce ha celebrato, glorificandola, la bellezza sonora. È l'acqua, sono le grandi acque che sgorgano nei giardini solitari e sotto le mani - armoniose anche queste - delle tre principesse di sogno: Anatolia, Violante, Massimilla. Tutte e tre musicali anche quando tacciono, esse formano un perfetto accordo.
«L'acqua non è più l'acqua; diventa un'anima perduta che urla, che ride, che singhiozza, che balbetta, che sbeffa, che si lagna, che chiama, che comanda. Incredibile!, dice Antonello per giustificarsi di avere imposto il silenzio ai giuochi degli zampilli. Ma quando Anatolia richiama a vita la grande fontana marmorea - componimento pomposo di cavalli nettunii, di tritoni, di delfini e di conche in triplice ordine, dandole l'acqua, ecco che il narratore Claudio immagina la voluttà della pietra invasa dalla fresca e fluida vita: e finge in . sè medesimo «l'impossibile brivido.
Le buccine dei tritoni soffiavano, dice Claudio, le fauci dei delfini gorgogliavano. Dalla sommità uno zampillo eruppe sibilando, lucido e rapido come un colpo di stocco vibrato contro l'azzurro; si franse, si ritrasse, esitò, risorse più diritto e più forte; si mantenne alto nell'aria, si fece adamantino, divenne uno stelo, parve fiorire. Uno strepito breve e netto come lo schiocco di una frusta echeggiò da prima nel chiuso; poi fu come uno scroscio di risa poderose, fu come un rovescio di pioggia... - Senti, esclamò Antonello che guardava quel trionfo con occhi di nemico - ti sembra tollerabile a lungo questo frastuono ? - «Ah, io starei ore e giorni ad ascoltarlo - parvemi dicesse Violante mettendo su la sua voce un velo più grave - nessuna musica vale questa per me».
Sensibile anche ai più volubili trilli degli elementi più fluidi, pronto ad interpretare e a trasferire su un piano di suoni - cui la fantasia e l'estro poetico riescono ad organizzare musicalmente le voci delle cose, d'Annunzio è ancora più sensibile alla musica che nel cuore - o anche soltanto nelle ugole - nasce dallo spettacolo o nella cornice della Natura.
Ancora dal Trionfo della Morte:
«Veniva infatti, ora si ora no, un canto femminile dal poggio. Giorgio si mise all'erta, in cerca delle maggiaiuole... Giorgio non si smarriva seguendo la duplice traccia del canto e del profumo. Trovò il ginestreto... le cinque fanciulle coglievano il fiore per riempirne le ceste, e cantavano. Cantavano un canto spiegato, con accordi di terza e di quinta perfetti...»
Invitata a cantare, dopo le prime riluttanze, Favetta consentì.
«Favetta intonò, sul principio malsicura, ma di nota in nota rassicurandosi. La sua voce era limpida, fluida, cristallina come una polla. Cantava un distico, e le compagne cantavano in coro un ritornello. Prolungavano la cadenza, concordi, riavvicinando le bocche, per formare un sol flutto vocale; che si svolgeva nella luce con la lentezza delle cadenze liturgiche.»
Il quadro, anche come registrazione sonora è perfetto, pur se si trovi in questa pagina - come in alcune altre - qualche improprietà in fatto di terminologia, anzi di gergo musicale. Si avverte, nello scrittore, «uno che conosce la musica»; ma si sente anche che, quanto a scuoletta, l'ha un poco perduta di vista. Gli sarebbe stato facile trovare, fra i suoi conoscenti, l'equivalente di ciÒ che fu l'Adorno per il Thomas Mann del Doktor Faust. Ma d'Annunzio era troppo poeta e troppo italiano per abbandonarsi ai fluviali eccessi teorici e tecnici del tedesco. E le sue annotazioni nel gergo di mestiere non investono mai abissi metafisici; riguardano fatti semplici, casi comuni e lasciano sempre intendere chiaramente quel che il poeta intende dire.
***
Non profondamente connaturato nè rivelatosi col primo risvegliarsi del genio come l'imperativo della Poesia; non improvviso e totale come una folgorazione, ma pur nella sana precocità graduale e sempre più affascinate dovette apparire a d'Annunzio il richiamo alla musica. Sua vera seconda natura la musica: carattere distintivo eminente, appunto per la sua rarità in un grande uomo di lettere italiano.
A quindici anni, nella lirica Nox di Primo Vere, l'adolescente Gabriele diceva:
« ...e li usignoli tra le fronde cantano
un bel notturno in fa minore: allungansi
le note molli, carezzose, limpide...
A sedici anni, in Palude:
«Quivi non dolce canto di lieto augello al tramonto
rompe 'l silenzio lungo, rallegra i nostri cuori:
i patrii stornelli non balzano quivi da 'l petto
con i giocondi nomi d'amore e di speranza...
A diciassette anni, in Philomela:
«E va cantando la libera figlia del mare...
...esultano i flutti d'intorno alla barca sottile
con murmuri e susurri che paion preludii d'orchestra
che paion sinfonie tremulanti di violini
molli, carezzevoli, languenti lontano lontano.»
Ma proprio in quegli anni dell'adolescenza e della prima giovinezza d'Annunzio ebbe a Bologna la certezza di essere nato anche alla musica; ed egli stesso racconta in quale modo. «Rientrai nella chiesa - e il tuono dell'organo rintronò sul mio capo... Era come se il Palestrina prendesse in me la mia angoscia più profonda e ne facesse la sua sostanza musicale. In quel punto io nacqui alla musica, ebbi, nella musica la mia natività e la mia sorte... non per diletto, non per blandizia e non per oblio, ma per elezione di dolore e per vocazione di martirio.»
Ancora al periodo della adolescenza appartiene l'impressionante momento de Le faville del maglio in cui il giovinetto Gabriele si mette a piangere di gloria (non di gioia) per aver saputo che in S. Domenico il fabbriciere aveva per caso scoperto a rovescio di un marmo mortuario «il grande bassorilievo trecentesco con l'effigie di Francesco musico».
Di Francesco Landino degli Organi, «il divinissimo cieco», di cui tante volte il poeta scriverà negli anni avvenire, esaltandolo, come un nume tutelare della musica.
Nel 1882, (19 anni) scrive alla sorella Nannina: «Sono stato finora sul terrazzo, solo, solo, con la chitarra sulle ginocchia, cercando accordi».
Nel 1883 (20 anni) racconta in una intervista apparsa nella «Revue hebdomadaire»: «Ebbi sempre una grande predilezione per tutta la musica per clavicembalo e la musica sacra del diciasettesimo e diciottesimo secolo... Ebbi per maestro di musica un religioso, ammiratore della semplicità antica ».
Nel 1884 (anni 21) scriveva da Pescara al suo amico Vittorio Pepe, che studiava al Conservatorio musicale di Napoli:
«Sono addirittura sitibondo di musica. Oh, caro Vittorio, che tortura! Io frequentatore assiduo di tutti i concerti romani, innumerevoli e taluni veramente eccezionali; io appassionatissimo di tutte le più pure e alte emanazioni dell'arte musicale; io che avevo delle ore di oblio vero ascoltando Chopin o Beethoven o Schumann; io, caro Vittorio, non sento musica da quasi sette mesi! Capisci?
«A Pescara nessuno ne fa. Io non vado a Pescara nè il giovedì nè la domenica perchè odio le bande e quella banda musicale di piazza è molto banda nel senso brigantesco della parola, ma è così poco musicale che perfino le orecchie bronzee di don Peppino Postiglione se ne risentono. A tutto dire.
«Ci vorrà pazienza ancora un poco. Nella primavera andrò a Torino, poi a Nizza. A Torino avremo, dicono, della eccellente musica per la Esposizione. Oh, ma chi mi rende i quintetti sgambatiani della Sala Dante e le piccole riunioni deliziose nel salotto del Tosti in via dei Prefetti?».
***
Lo abbiamo seguito nel suo sempre più ardente amore per la musica e attraverso le sue stesse confessioni, dalla fanciullezza dei quindici anni alla maggiore età. E adesso possiamo constatare, ripensando il già detto, che la raffinatezza del suo gusto musicale e quella sua precorritrice attenzione a Compositori di cui allora nessuno conosceva nè i nomi nè le opere; e quella sua nostalgia per i «quintetti sgambatiani» (il Quintetto romano della regina Margherita di cui il pianista Giovanni Sgambati, discepolo di Franz Liszt era a capo) sono estremamente significative e indicative: blasoni di un intelletto.
Ma anche quella sua «delizia» nel salotto di F. Paolo Tosti ha un significato importante. Perchè in tale ambiente di arte canora spontanea e popolaresca saranno state di scena assai probabilmente le stupende pittoresche espressioni musicali della Napoli dei Dalbono, Gigante, Petrella, Casciaro, de Nittis; saranno stati ripetuti i canti di di Giacomo e le romanze celebri del Tosti appunto, e dei Denza, Rotoli, Gastaldon; e magari le Arie antiche che Alessandro Parisotti andava in quegli anni cercando e pubblicando; ma non certamente le opere austere dei Brahms e Beethoven e Schumann, che lo Sgambati - unico, quasi, tra noi - celebrava in quel tempo.
E allora, dalla vastità del giardino musicale in cui d'Annunzio poteva spaziare godendone i fiori diversissimi - dal Palestrina abbiamo visto, a Verdi e Wagner in quegli anni: più tardi, fino a Strauss, Debussy, Scriabin, Szimanowsky, - possiamo trarre la testimonianza del grande intelligente ecclettismo del suo gusto - della libertà del suo gusto di vero artista, e della assenza totale in lui di ogni atteggiamento o limitativo pregiudizio snobistico. Ma non possiamo affatto dedurre che il suo fosse palato da accettare ogni cibo.
Non v'è dubbio, per esempio, che egli riconobbe l'importanza della scuola italiana verista, specialmente nei riguardi della riaffermantesi vitalità del nostro Melodramma in tutto il mondo; ma è anche indubbio che - se fu buon amico ed estimatore di Puccini e, negli anni maturi, di Mascagni, - egli non amò le opere dei suoi coetanei Maestri della Scuola verista.
Senza prendere a misura del suo giudizio complessivo su di esse il ferocissimo pamphlet contro Mascagni, intitolato Il capobanda e pubblicato ne Il mattino di Napoli il 3 settembre 1892, si può e si deve escludere che la sua sensibilità fosse aperta al genere allora trionfante. E si deve ancora una volta sottolineare il caso non nuovo nella nostra storia musicale (se si pensa alla Camerata fiorentina) ma significantissimo: che sia stato un uomo di Lettere - in questo caso un grande Poeta - a preconizzare la opportunità anzi la necessità di un movimento di ritorno alle antiche fonti classiche della nostra musica.
Se occorresse, un'altra prova del disinteresse di d'Annunzio per il Melodramma verista la abbiamo nei progetti di collaborazione - negli attuati come nei non realizzati - che il Poeta discusse con i Franchetti, Puccini, Mascagni, anche con Perosi, per un dramma biblico.
Con Puccini furono ventilate una Rosa di Cipro prima e La crociata dei fanciulli poi: tutte rimaste inattuate. A Franchetti diede La figlia di Jorio; a Mascagni, vent'anni dopo il 'pamphlet', Parisina. Progetti e attuazioni tutte fuori del verismo.
I testi di tragedie concessi negli anni più tardi a Zandonai, a Pizzetti, a Debussy, a Honegger, non fanno che confermare la saldezza del suo ideale di trageda, che è greco.
Egli medesimo lo dichiarò apertamente, del resto, più e più volte. Ma il modo e il momento più eloquente fu, a mio parere, quando nel 1906, ad un banchetto offerto a Riccardo Strauss, egli disse:
«Questo barbaro magnifico e temerario, dagli occhi chiari, mi piace principalmente per la sua qualità di combattente, che lo avvicina ai miei Greci.
Come i tragedi del Teatro di Dioniso, egli compone per vincere. La sua arte è guerriera. Anch'egli è un agonista.
Per ció mi sembra degno d'incoronarsi d'un lauro cresciuto su la riva del Mediterraneo; il plauso recente glie lo ha decretato.
E noi, in questa mensa latina, vogliamo bere alla sua incoronazione prossima.»
Sì, Riccardo Strauss, e abbiamo visto con quanta indipendenza di giudizio rispetto ai feticismi e agli iconoclasmi del momento (ricordiamoci l'invettiva «vetrioleggiatore dell'arte» di Arrigo Boito); sì Szimanowski, sì Scriabin al quale dedica tante pagine e tanti ritmi di poesia nel Notturno; sì tutti gli altri, e sono molti, che nomina nei suoi più che trenta volumi di prose e di versi. Ma a due possono ridursi i grandi amori musicali che si divisero l'anima tempestosa del Poeta: quello della antica Italia, con Palestrina e Benedetto Marcello e Claudio Monteverdi fra i prediletti; e quello di Riccardo Wagner.
Il trionfo della morte è senza dubbio, fra tutti i romanzi contemporanei, quello più direttamente ispirato da Tristano e Isotta. Dal principio alla fine, e specialmente verso la fine, ne porta il segno fatale e la grandiosa impronta. L'ultima parte del romanzo contiene un'analisi del Tristano di cui non conosco l'eguale per intelligenza e per fedeltà, per il compiacimento che lo scrittore pone nel riconoscersi e nell'ammirarsi - sotto le vesti del suo eroe - nel suo terribile, funesto modello.
«Nel preludio del Tristano e Isolda - scrive - l'anelito dell'amore verso la morte irrompeva con una veemenza inaudita, il desiderio insaziabile si esaltava in una ebrezza di distruzione. Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore eterno, io voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte.»
Là dove rievoca l'ora di Bayreuth: «Nell'ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio trepido di tutte le anime, su dal golfo mistico un sospiro saliva, un gemito moriva, una voce estenuata diceva la tristezza dell'eterna solitudine l'aspirazione verso l'eterna notte, verso il divino originario oblio».
La morte proposta, in luogo della vita, come fine e come ideale dell'amore, tale è la insana bellezza sempre presente, sempre onorata e glorificata: così nel commento e nella chiosa letteraria, come nell'opera musicale stessa.
D'Annunzio rivela e traduce in parole, nel Preludio di Tristano, l'insaziabile desiderio esaltato fino all'ebrezza della distruzione. Ma, più avanti, chi potrebbe accusarlo di calunniare Isotta in questa pagina stupendamente descrittiva del primo incontro di essa con Tristano? Ricordate?, quando Tristano le «appariva in piedi, immobile, con le braccia conserte, con lo sguardo fisso nelle lontananze del mare», e quando nell'orchestra gli ottoni espongono per la prima volta il tema del destino, con quella formidabile forchetta di crescendo che esaltata dalla perentorietà della cellula ritmica dopo la lunga nota tenuta, mette i brividi in chi ascolta, e fa intendere l'ineluttabilità, la tragica ineluttabilità del fato che si annuncia?
«Mentre gli occhi di Isolda, descrive il D'Annunzio, accesi d'una cupa fiamma, contemplavano l'eroe, sorgeva dal golfo mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo d'amore e di morte, in cui è racchiusa tutta l'essenza della tragica finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la condanna: «Da me eletto, da me perduto.
La passione metteva in lei una volontà omicida, e svegliava nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un bisogno di dissolvimento, di annientamento. Ella si esasperava cercando in sè, intorno a sè una potenza fulminea che colpisse e distruggesse senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al conspetto dell'eroe calmo ed immobile che sentiva sul suo capo addensarsi la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa.»
E nel secondo atto, dopo l'Inno alla notte ascoltiamolo, questo ineguagliabile traduttore in poesia ed interprete sensibilissimo della musica wagneriana:
« ...Nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le gioie, piangevano tutti i dolori, che mai voce umana espresse. Su dalle profondità sinfoniche le melodie emergevano, si svolgevano, si interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano, si stemperavano, si dileguavano, sparivano per riemergere. [...] Nell'impeto delle progressioni cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del desiderio sempre deluso e mai estinto.»
E più avanti:
«Le parole si udivano distinte sul pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e li sollevava alla soglia del meraviglioso impero notturno. Essi pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano già liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine, senza risveglio, senza tema, senza nome».
Se il Tristano, l'opera di Wagner più wagneriana ira tutte, ispira e, si può dire, condiziona Il trionfo della morte, fino a quasi farne in alcuni momenti un parallelo e in altri una stupenda interpretazione letteraria, v'è l'altro romanzo dannunziano, Il fuoco, nel quale la figura stessa di Riccardo Wagner passa ad intervalli.
Venezia, tutti lo sanno, è il luogo dell'azione: Venezia, il soggiorno preferito da Wagner in ltalia; Venezia che fu in un dato momento il rifugio del suo dolore e del suo genio, l'uno e l'altro esasperati fino al parossismo; Venezia, che doveva essere un giorno l'asilo della sua morte.
La fine, le ultime pagine del romanzo, non sono che il racconto dei funerali del Maestro germanico, descritti da un testimone oculare - anzi da uno che partecipò alle onoranze.
Così, come Il trionfo della morte è in certo modo tutto immerso e permeato del pensiero wagneriano, la suprema visione di Wagner in persona riempie e domina le ultime pagine de Il fuoco.
Ma, nel romanzo veneziano, Wagner non è solo a regnare. Un musicista italiano, e di Venezia, e della Venezia d'altri tempi, gli contende pimpero, si che sembra vederlo opporre - alla apoteosi del maestro straniero, del creatore barbaro - la protesta dell'ideale classico e del vecchio genio latino. È questi Benedetto Marcello, che con la sua Arianna suggerisce al poeta pagine le quali dimostrano una profonda conoscenza dell'opera, (è molto dubbio però, quanto a verosimiglianza cronistica, che questa Arianna possa essere stata esumata ed eseguita a Venezia nel 1883 anno dell'azione) e che meriterebbero uno studio a parte su cui oggi non possiamo indugiare.
È bene da Venezia che poteva e che doveva elevarsi tale riaffermazione dell'ideale classico. Da Venezia, la città melodiosa fra tutte le italiane, e di cui nessuno sentì e comprese la musica e la musicalità profonda - dai Canti più gravi alle più lievi canzoni - come il poeta de Il fuoco.
«A Venezia, dice Stelio Effrena, è impossibile sentire in modi diversi dai musicali... tutti i rumori vi si trasformano in voci e spressive.»
Ma vi è una specie di gerarchia nella espressione di queste voci. Una sera di Settembre, una barca illuminata da lanterne multicolori, piena di musicisti e di cantori, si era fermata davanti al palazzo di Desdemona. Una serenata in dialetto veneziano saliva dolcemente verso una donna attenta e sorridente.

«Do' beni vu ghavè:
beleza e zoventù;
co' i va no i torna più,
Nina mia cara...»

«Non vi sembra che sia questa la vera anima di Venezia e che quella da voi figurata alla folla non sia se non la vostra, Effrena?» domanda la Foscarina.
E Stelio risponde:
«No, non è questa. A dentro di noi, vagante come una farfalla volubile su per la superficie della nostra anima profonda, un'animula, un esiguo spirito giocoso che spesso ci seduce e ci persuade a inchinarci verso i piaceri blandi e mediocri, verso i passatempi puerili, verso le musiche facili. Questa animula vagula è pur nelle nature più gravi e più violente... e talvolta inganna il giudizio. Voi udite ora canterellare su le chitarre l'animula di Venezia; ma l'anima vera non si discopre se non nel silenzio e più terribilmente - siatene certa - nella piena estate, di mezzogiorno, come il gran Pan.»
A proposito del silenzio, più avanti Daniele Glauro dirà:
«Hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni? Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi palpiti non sono uditi se non durante la pausa dei suoni».
Il ragionamento, un po' molto sottile è proprio da quel dottor mistico e metafisico che è Daniele Glauro. Ma vale a meglio chiarire, per contrasto, quello che Stelio Effrena ha detto prima, ad esaltazione della parola, per la quale anche si potrebbe dire consistere la sua essenza nel silenzio che la precede e che la segue.
«Tra le materie atte ad accogliere il ritmo, la parola è il fondamento di ogni opera d'arte che tenda alla perfezione. Stimi tu che nel dramma wagneriano sia riconosciuto alla parola tutto il suo valore? E non ti sembra che il concetto musicale vi perda la sua purità primitiva, dipendendo spesso da rappresentazioni estranee al genio della musica? Riccardo Wagner, certo, ha il sentimento di questa debolezza e lo confessa, quando in Bayreuth si accosta a qualcuno dei suoi amici e gli copre gli occhi con le sue mani perchè quegli si abbandoni interamente alla virtù della sinfonia pura e sia quindi rapito in una più profonda visione da una gioia più alta».
Qui ora, sarebbe da fare un lungo ragionamento innanzitutto per placare lo spirito di Wagner al quale il poeta attribuisce un sentimento di debolezza che mai confessò, che nulla ci autorizza a credere lo abbia turbato, e che qui vede messo in dubbio uno dei cardini della sua concezione drammatica: i rapporti di uguaglianza fra parola e musica.
Ma, a parte questo, quando Wagner il quale era giustamente, esigentissimo; e che con i mezzi limitati di cui disponeva non riusciva certo a realizzare, a Bayreuth, anche in quanto spettacolo visivo, ciò che aveva immaginato componendo i suoi drammi (posto che, musicalmente, riuscisse a tanto); quando Wagner, dunque, copriva gli occhi dell'amico impedendogli la vista, non è che isolasse la parola dalla musica restituendo a quella tutto il suo valore. Egli isolava, invece, la musica da tutto ciò che, nello spettacolo, si rivolgeva all'occhio, (e che certamente corrispondeva ben poco a ciò che Wagner aveva visto con gli occhi della mente nell'attimo creativo) ed era allora la musica, non già la parola «fondamento di ogni perfezione» che veniva ad essere esaltata da questa momentanea mutilazione e dal più totale rapimento e dalla più profonda e gioiosa emozione che ne seguivano.
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Su Il fuoco e su tante e tante altre opere del poeta, tutte permeate di musica, di amore per la musica, di sensibilità squisita alle voci della musica le più diverse e lontane, sarebbero da fare molti diligentissimi discorsi, e non uno solo.
Come Il trionfo della morte, Il fuoco si chiude nel grande nome di Wagner. In quello, la esegesi anzi la trasposizione sul piano poetico della melodia infinita e del tragico canto di Tristano e di Isotta; in questo Fuoco, dopo i pittoreschi malinconici incontri con Wagner, con Cosima, con Liszt, troviamo la commossa e commovente - la struggente e piena di rilievo e di forza nella sua cronistica semplicità - descrizione del trasporto della salma di Riccardo Wagner da palazzo Vendramin alla stazione ferroviaria.
E Gabriele d'Annunzio, non ancora ventenne - vedete la illuminata previdenza del caso e la presaga elezione di uno spirito giovanile - volle essere e fu tra i sei portatori a spalla dei feretro dell'Eroe.
Nell'uno e nell'altro romanzo, nella intera opera poetica e prosastica sono, voi lo sapete, non diecine, ma centinaia di pagine che meriterebbero di essere citate e penetrate e discusse anche, e molte, ben degne di essere tenute a modello - nei nostri giorni di flemmatico distacco, e di freddezza ostentata per le cose dello spirito - se non altro per il fervore d'entusiasmo e per il calor di passione e per l'acume di sensibilità onde nascono.
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Ma Gabriele d'Annunzio non fu solo un contemplatore, un esegeta, un traduttore volta a volta delicato e potente di atmosfere, di fatti, di fenomeni musicali.
Egli, col suo Martirio di S. Sebastiano, rese possibile il primo - rimasto purtoppo unico - grande e impegnativo saggio con il quale Claudio Debussy mostrò di volersi staccare dai modi e dall'atmosfera di Pelléas et Mélisande per trovare, alle sue musiche sceniche, altri modi, altre atmosfere. Ecco qui il poeta, dunque, farsi ispiratore e scopritore, al musicista ansioso di trovarli, di nuovi orizzonti. Da esegeta, rendersi partecipe all'atto creativo anche musicale.
Di questa mutazione di concetti ispiratori che - pur non essendo compiuta - è già cosi profonda da rendere molto diversa questa maniera del Debussy anche da quelle inirnediatamente precedenti - nelle quali già si avverte la volontà di evasione - ho già lungamente parlato e scritto in tempi lontani e vicini; e non mi piace ripetere a voi cose già dette.
Allora, per chiudere questo discorso forse troppo lungo da ascoltare, ma certo troppo breve per la vastità dell'assunto, mi soffermerò piuttosto a scorrere qualche pagina dannunziana su alcuni momenti dei rapporti che corsero tra d'Annunzio e Debussy proprio in relazione del Martirio di S. Sebastiano, l'opera che consacrò l'amicizia e l'ammirazione reciproca dei due grandi artisti.
Nel Libro segreto (del 1935) si legge:
«...allevato sulle ginocchia della musica» (in altro luogo dirà: «su le ginocchia congiunte di G. S. Bach»), diceva di me Louis Vierne organista di Nostra Donna di Parigi, dopo avermi dato le più alte ore del mio esilio... Ricordati, Ariel, dell'organo di poco fiato che t'intonava il Mistero di S. Sebastiano nell'eremo della Landa... Claudio di Francia, al mio primo modo di leggergli le parti del poema ansiose di compirsi nella musica, comprese: non si maravigliò se non per amarmi.. egli che pareva tuttora offeso dalla presuntuosa ottusità di un altro poeta affascinato in ogni stagione dal ritornello del merlo melenso e inemendabile...
E perchè, in que' primi incontri con Claudio di Francia, le memorie della mia più lontana puerizia rivivevano con tanto melodiosa freschezza?»...
Guy Tosi nel suo prezioso volume sulla corrispondenza inedita fra Debussy e d'Annunzio e poi nell'informatissimo articolo pubblicato nell'ultimo fascicolo dei Quaderni dannunziani risponde, con parole di d'Annunzio e di altri a questa e ad altre domande.
Per consiglio di Ida Rubinstein e di Robert de Montesquieu il poeta aveva scritto a Debussy:
«La scorsa estate, mentre disegnavo un Mistero lungamente meditato, un'amica aveva l'abitudine di cantarmi le più belle vostre canzoni con l'intimo sentire che ad esse conviene. La mia opera nascente ne tremava, talvolta. Ma non osavo sperare. Amate voi la mia poesia? Ormai non posso più tacere. E vi domando se accettiate di vedermi e di sentirmi parlare di questa opera e di questo sogno ».
Prontamente Debussy risponde: «Come potrei non amare la vostra poesia? Tanto la amo che il pensiero di lavorare con voi mi dà fin d'ora una specie di febbre.» E d'Annunzio sottolinea gioioso con un tratto di penna queste ultime parole.
Questo, per coloro che durante e dopo la collaborazione, e durante la vita di Debussy e dopo la sua scomparsa - avvenuta giusto quarant'anni or sono - vollero vedere e riconoscere non si sa quale sforzo e quale costrizione nelle pagine musicali composte dal francese per il Mistero dell'italiano.
Qualche tempo dopo compiuta l'opera - altra testimonianza dall'interno: «Io non domando che di rivivere quei giorni di ardente animazione» scrive Debussy. E la moglie di lui, signora Emma, fa eco: «Sì, vedere voi due pensare. lavorare insieme sarebbe anche per me un nuovo incanto. Voi potete fare che ciò sia, e allora lo spero».
Fra le testimonianze dall'esterno, ecco questa di Jacques Durand: «Debussy fu conquistato dal soggetto di S. Sebastiano... egli scrisse questa partitura ammirevole in uno stato di esaltazione. Quanto «al misticismo» che lo stesso Durand volle riconoscere in questa musica debussyana, è il maestro medesimo che lo delimita e lo precisa: «Io non sono praticante secondo i riti consacrati. Io mi sono fatto una religione della misteriosa natura. Sentire quali spettacoli conturbanti e sublimi la natura offra alla effimera smarrita umanità, ecco quello che io chiamo pregare. D'altra parte vi confesso che l'argomento del Martirio mi ha sedotto soprattutto per questa mescolanza di vita intensa e di Fede cristiana... La fede espressa dalla mia musica è dunque ortodossa, o non lo è? Lo ignoro. È la mia fede; la mia, che canta qui in piena sicurezza.»
Questa confessione vale a documentare quanto fosse meditata e cosciente in Debussy l'evoluzione del modus agendi resa possibile dai caratteri compositi del Mistero dannunziano, e con quanto ardore il musicista perseguisse il suo nuovo ideale d'arte.
Negli anni successivi alla comparsa di Pelléas si era infatti potuto osservare in lui un graduale distacco dai poeti fin allora prediletti, e una tendenza sempre più sensibile verso i vecchi poeti e le vecchie poesie di Francia.
Dopo i Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Debussy chiede ora i suoi testi ai Charles d'Orléans, ai Tristan Lhermite, ai François Villon; e si allontana dal nebuloso teatro maeterlinckiano per volgersi alle novelle di Poe, oppure - in contradittorio, evidentemente, con Wagner, nei riguardi del quale fu assai meno libero ed esente da influenze di quello che avrebbe voluto essere - alla leggenda medioevale di Tristano e di Isotta.
Ecco dunque che come all'inizio del nuovo cammino noi troviamo i vecchi poeti di Francia, e come alla mèta cui il viandante non potè giungere sapevamo essere,le angosciose vicende immaginate dal Poe, così a mezza strada noi troviamo la musica scritta per questo Martirio di San Sebastiano nel quale sogno e realtà, tragedie di uomini e serena poesia delle cose talvolta si compenetrano, tal'altra cozzano fra loro. In questa non definita fisionomia del poema - «mescolanza di vita paganamente intensa e di fede cristiana», com'egli diceva - Debussy dovette vedere lo specchio del suo stato d'animo e la migliore occasione per saggiare discretamente, senza impegnarsi a fondo, i limiti della raggiunta libertà rispetto al prossimo passato, e le forze su cui poter contare per il domani.
Sullo sfondo grandioso e caotico del mondo romano dei primi secoli dell'Era volgare, rappresentato dal d'Annunzio, Debussy compose i suoi quadri musicali di secondo e di primo piano; i quali sono tutti, anche come atmosfera, molto lontani dall'impressionismo e dal naturalismo. In queste nuove musiche, tutto assume un aspetto direi più concreto, più grave e logico. Tutti gli elementi - melodia, armonia, colore, sinfonismo - riprendono il posto che è ad essi assegnato dalla loro stessa natura.
L'idea immortale, plastica, di ben definito disegno riafferma, nelle intenzioni almeno, la sua supremazia sullo sfumato delle brume, e sul fascino delle atmosfere crepuscolari.
Quando l'opera venne rappresentata, nel 1911, a Parigi, non tutti gli esperti più autorevoli furono d'accordo, e il pubblico la accolse con un successo, più che di convinta adesione, di reverente stima. Pierre Lalo considerò la musica come «un incidente, una parentesi nell'opera e nell'arte di Claudio Debussy». Reginaldo Halin la qualificò del più agnostico e diplomatico aggettivo di moda: «interessante». Maurice Barrès, al quale il Mistero è dedicato, rimase profondamente turbato dall'opera poetica; non vide in d'Annunzio che un esteta - l'osservazione è di Guy Tosi - e non si soffermò punto sulla musica di Debussy.
Ma i due artisti erano ormai legati da nuovi progetti, e se Debussy non fosse mancato, ne avremmo ricevuto chi sa quali generosi doni.
Nel 1913 d'Annunzio scrive a Debussy: «Io mi auguro che un nuovo sogno e un nuovo lavoro ci riavvicini»; e, nel 1914, Debussy scrive a d'Annunzio: «Finalinente lavorerò con voi: è ciò che più mi importa».
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Ma, ahimè, nel 1918 l'arte era colpita dal grave lutto, e d'Annunzio doveva soffrire acerbamente il grande distacco.
Misurai la durevolezza del suo dolore quando, nel 1926, fui per la prima volta ricevuto da lui al Vittoriale, in vista della esecuzione alla Scala del Martirio di S. Sebastiano appunto.
Già nell'arredamento della «Sagrestia», mentre lo aspettavo, si avvertiva qualche riflesso dell'opera nella sensuale, ornata raffinatezza pagana del gusto che dava il braccio ad una castissima compunzione cristiana. E quando il «Comandante» venne, mi condusse in un suo grande studio, e subito mi parlò di San Sebastiano e di Debussy; e mi disse l'affetto che gli portava, e la fedeltà che gli serbava «Al punto, disse, che quando, fra qualche mese, Ida Rubinstein rappresenterà a Roma la mia Fedra con musiche di scena di un compositore a lei caro, Arthur Honegger, sarà molto difficile che io mi rechi a Roma. Io penso che solo Debussy potesse intonare con perfetta armonia le mie invenzioni sceniche. (Questo non potei narrarlo allora perchè Honegger era vivente e operante).
Più tardi poi, durante la stessa mia visita, d'Annunzio mi diceva ancora:
«Quando seppi che Debussy era morto, ero al campo e mi preparavo per un volo di guerra. I miei amici, che mi videro triste, mi furono intorno per confortarmi. Mai, come in quella notte di volo, io mi sono esposto cercando, quasi, la morte. S'era spezzato un altro dei pochi fili che ancora mi legavano alla vita.»
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Proprio il ricordo della scomparsa dell'amico tanto amato ci riconduce in questo momento a Fiume, d'onde abbiamo preso le mosse.
Nel ritratto di Luisa Baccara, disegnato dal d'Annunzio e da Adolfo de Carolis a Fiume d'Italia, appunto, nella primavera del 1920, il Poeta scrive, dopo aver ascoltato musica di Debussy eseguita dalla squisita pianista: «Ci sono attimi, fra la vita e la morte, fra la terra paziente e il cielo clemente, ci sono attimi colorati da uno spirto che non è la gioia e non è il dolore, nascosti dove non può ritrovarli se non l'indovino errante. E hanno le loro cadenze in questa musica.
«Penso a quel che può essere il sepolcro di Claudio. Dove?, nell'lsola di Francia tremolante di pioppi e di rivi? Non so immaginare la tomba di questo aereo inventore. Non so immaginare sopra lui quel che pesa e suggella. L'epigramma greco, che invoca la leggerezza della terra coprente, conviene alla sua sensualità senza came...
[...] Sera lontana sopra un campo di volo terminato da montagne di zaffiro, dove la notizia improvvisa giunse per entro al rombo della guerra e non fece tremare nessuna ala! Un lembo dell'antico lamento di Sicilia palpitò fra le macchine alate pronte alla distruzione atroce, governate dal ritmo assordante dello scoppio.
Usignoli! Annunziate ad Aretusa ch'egli è morto, e che il canto è perito con lui... Omai chi canterà sulle sue canne?
Se vivesse, io gli condurrei questa flessibile compagna di Bilitis, a cui sembra che egli abbia appreso in sogno il suo divino segreto.»
(i) Lettura tenuta per l'Accademia Naz. Cherubini, in Firenze, il io marzo 1957, a Milano il is aprile 1957.