HOME PAGE
____________________________________________________________________________________________________


ROMA 1942-XXI

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE


V

Per riassumere, sempre rimanendo agli avvenimenti più vistosi, mentre in Francia la pittura, proprio per opera di alcuni impressionisti, cerca di reagire - come abbiamo visto - ai modi dell'impressionismo dei Manet, Monet, Degas, Marisot, Renoir, Sisley, ecc.: e, nella musica, i Ravel, Roussel, De Séverac, Schmitt, seguono più o meno fedelmente le orme di Debussy, sforzandosi di staccarsene; mentre in Italia il movimento impressionista produce, sì, qualche vittima, ma giova anche grandemente agli artisti che, forti di una propria personalità, lo studiano e se ne avvantaggiano senza annegare in esso; mentre in Germania, tutta impegnata ancora nel romanticismo wagneriano e straussiano, non ha quasi seguito, proprio a Parigi, nel 1918, Jean Cocteau si fa, esso, banditore di una crociata contro ogni relitto del romanticismo tedesco e contro l'impressionismo musicale.
Le Coq et l'Arlequin è il libercolo che, dedicato a Georges Auric, uno dei sei, può essere considerato come il manifesto di quella giovine scuola. «Vive le Coq», grida l'autore, cioè viva lo spirito francese; e «Abbasso l'Arlecchino», il quale porta un costume di tutti i colori: cioè, abbasso lo eclettismo.
Ecco, allora, dalle diverse reazioni all'impressionismo, dalle esasperazioni e dalle più grottesche degenerazioni del cubismo, del (fauvismo, degli Utrillo, Matisse, Dufy, dell'espressionismo (fin la «Deposizione» del tedesco Nolde fu presa sul serio, discussa, imitata), del dadaismo, del surrealismo, e di tanti e tanti altri «ismi» apparsi e scomparsi nel ventennio della pace bugiarda, nascere in musica come nelle arti figurative e nella letteratura (un poco meno nell'architettura, che deve necessariamente obbedire a qualche legge, se non altro di statica, con la quale i vari «ismi» non hanno tanto da scherzare: a violarle, queste leggi, ne va di mezzo la pelle dell'aichitetto e quella dei suoi assistenti) ecco nascere, si diceva, una quantità di opere mostruose, inumane, antiumane, raccapriccianti , antisociali, barbariche (le varie Accademie del mezzo-lutto) o anche semplicemente sconcie: indici di una profonda degenerazione degli spiriti, dei costumi, del senso nazionale, del gusto, alle cui tenebre la Ville-Lumière non seppe offrire il soccorso di un po' di luce, come, davanti a tanti naufragi, dimenticò di adempiere il vantato tradizionale ufficio di «faro della civiltà e dell'intellettualità».
Ecco, in altro campo, il cinematografo francese produrre un film come «Age d'or», dove i più alti sentimenti dell'uomo, la passione amorosa e la religione, sono posti grossolanamente in caricatura e grossolanamente fatti oggetto di vitupero. Ecco, dopo la scoperta e la ben giustificata esaltazione del livornese Modigliani, la esagerata montatura dei contrabbandi pittorici del doganiere Rousseau.
Ecco Marcel Proust essere preso a modello della buona società non precisamente per i suoi viaggi spirituali «A la Recherche du Temps Perdu»; ecco, di un discorso del già nominato Cocteau «D'un ordre considéré comme une anarchie» accettare, dal circoli e dal salotti dei vari «movimenti», la anarchia come formula teorica e come pratica, e respingere idea e ogni forma di ordine; e allo stesso Cocteau - che si era fatto banditore della crociata per la rinascita del «puro spirito francese» al grido di «Vive le Coq», e per la lotta contro l'eclettismo - accadere la brutta, la triste avventura di vedere l'eclettismo diventare addirittura indifferentismo e cinismo davanti alle più estranee e corrosive correnti spirituali e morali che a Parigi facevano le loro esperienze, e lo stesso spirito nazionale naufragare fra le tempeste Intellettualoidi della IIIª Internazionale dell'arte; fino a che egli stesso doveva, forse inconsciamente - ed è questa la sua tragedia - rendersi simbolo e sintomo tra i più vistosi della decadenza e del marcio che minavano la sua Patria, con la tristemente famosa commedia «Les Parents terribles»; che documentario o no, è tutto un atto di accusa contro tutta una società; è per certi riguardi, la voce di Cassandra che profetizza la catastrofe.
Trovano forse eccessivo - coloro che piangono sulla caduta della Francia senza volersi render conto del perchè di tale caduta - questo che andiamo dicendo? Ebbene, ascoltiamo allora ciò che scriveva poche settimane or sono un altro osservatore che conosce assai bene il paese di cui parla, Concetto Pettinato: «Non diversamente (dal provinciali che, prima della guerra del 1914 si recavano a Parigi a cercare «il piacere o si comportarono nella Parigi del dadaismo, del surrealismo e delle altre mode letterarie dell'epoca, i provinciali della cultura. Cocteau, Max Jacob, Breton, Picabia furono per la maggior parte di loro la follia d'un giorno, le svampanti etere appiccicate al tavolini del Dome o del Boeuf sur le toit, e irrimediabilmente destinate, con gli anni, a sostituire il commercio dei propri vezzi sfioriti col governo di una maison d'illusions ad uso dei forestieri. Ma sull'Europa del dopo guerra quell'immenso baccanale passò senza lasciar traccia» (non su proprio tutta l'Europa del dopo guerra, veramente; ma, questo lo vedremo più avanti).
«La gioventù francese, invece, vi si immerse fino al collo, lo prese sul serio, ne fece una malattia. Chi volesse istituire un riscontro tra i tragici eventi del 1940 e la lunga buffonata geniale del decennio 1920-30 non potrebbe sottrarsi alla impressione che, dentro certi limiti, l'una spiega gli altri. Cocteau pontificante nel suo studio adorno di palle di vetro colorato, di profili d'angelo in fil di ferro, di fotografie di pagliacci e di capigliature di donna attaccate al soffitto faceva il richiamo alla porta del circo. Max Jacob, coi calzini scarlatti fattigli dalla principessa Ghika, con la sua raccolta di pietre preziose, col suo libro da messa postillato di nomi di conoscenti da ricordare nelle sue preghiere, occupava la pista dopo i salti mortali dei trapezisti. Picabia, pittore e poeta, vendeva programmi sulle gradinate, strillando nelle prefazioni ai propri versi: «Una corrente condensatrice scalamita la scintilla, mentre l'atmosfera rarefatta all'estremo divide i fondi gassosi merce una elettricita di paraffina. Per evitare l'indicatore disponibile, il rocchetto di vetro avrà la forma di penetrazione sulla lastra visibile di un tubo fugace o sopra una soluzione simultaneamente nuova munita di un vuoto eguale alla somma delle forze fuori d'uso».
Farsa, beffa, sgambetto, mistificazione: ma tutti giochi a freddo come i lazzi dei clowns sotto il riflettore elettrico, con l'aggravante che il funambolo letterario pretendeva farla da capo scuola. Non a caso il circo doveva suscitare in quegli anni tanti fanatici. Il culto dei Breton, degli Aragon, dei Soupault coincise con l'adorazione per un Grock, un Fratellini, un Footit; Marcel Acharde Gomez de la Serna dovettero al circo i loro primi successi, e il pagliaccio Charlot, invitato un giorno al Trocadero come il più gran filosofo del secolo, dopo Bergson, vendette in mezz'ora cinquantamila franchi di autografi. Dalla guerra, che ne aveva fatta, a spese del continente, la prima potenza continentale, la Francia usciva con una voglia matta di nasi finti, facce infarinate e di capriole. So bene che la sua letteratura del dopoguerra non finì ai surrealisti e ai loro affini. Proust, Gide, Valéry, Giraudoux, Romain, Maurice non predicarono al deserto. Ma se il prestigio dovuto a costoro dalla Francia intellettuale rimane incontestabile, non è detto che il pascolo che l'opera loro forniva all'anima della nazione fosse davvero tanto più sano dell'altro... Lo stesso successo artistico a poco a poco si corruppe. Invece del giusto premio d'una ascesa tenace, diventò sempre peggio il frutto bastardo dell'arrivismo, del bluff e della speculazione. Si commerciò in pensiero come in lucido da scarpe. Valéry guadagnava somme con estratti lirici numerati su «Giappone imperiale». Radiguet, lanciato a suon di gran cassa dall'editore Grasset, toccava la celebrità in ventiquattro ore per avere, primo, detto: «M...! alla guerra»...
Le dame spendevano un patrimonio per affidare il proprio corpo astrale al pennello medianico di un Van Dongen. Era o non era ingegno? E come accertarsene, in mezzo a tanto frastuono? Quel che la gente voleva, in ogni caso, era che l'artista la divertisse, la stupisse come una scimmia o un elefante ammaestrato».
(Che è precisamente, arricchito del contributo di nuove argomentazioni e di nuove testimonianze, quello che noi abbiamo affermato fin dallo scorso luglio in questa serie di articoli. Ma se volessimo risalire nel tempo, già nel 1927 scrivemmo - e pubblicammo ne La fiera letteraria - qualche capitolo in cui era diagnosticato il male, e presagito il pericolo mortale che, per la Francia, era ad esso strettamente legato).
Quali veicolo, e incubatrice, e culla amorosa di tutte queste stravaganze decadenti, ecco il salotto prezioso, la mondanità più smidollata e luetica, il circolo degli ultraraffinati, lo snobismo, in una parola, impadronirsi e fare a se stesso nutrimento e sgabello e bandiera di tutti questi cascami di una civiltà e di una cultura che erano pur grandi, di una metropoli che era pur luminosa, di una intelligenza nazionale e di razza che era pur vasta e viva.
Lo snobismo imperante, dilagante, dominante.
Questa fu, nel campo intellettuale, la malattia e il tarlo distruttore di molti ambienti letterari, musicali, artistici parigini (come di quelli fiamminghi, come di quelli tedeschi fino a dieci anni or sono); la malattia e la condanna di tanti nuovi musicisti e pittori e poeti francesi e di altri paesi, obbedienti più al protocollo dell'Internazionale che alle sane voci della propria terra.
Ritorniamo agli artisti-antenne, e concludiamo. Già nel dicembre del 1916 Debussy lamentava - esso che aveva tanto operato per riscattare la musica francese dalla servitù tedesca - che da qualche anno si dovessero notare incrostazioni eterogenee, e che la gioventù non avesse saputo difendersi da teorie contradittorie allo spirito nazionale.
Quindici anni or sono, nel 1926, un altro maestro, Vincent d'Indy, faceva la medesima constatazione: che se le disfatte del 1870 erano valse a far rifiorire sul vecchi tronchi la musica francese, le vittorie del 1918 avevano sortito, in quanto a musica, l'effetto diametralmente opposto.
L'arte nazionale minacciava di imbastardire ogni giorno di più, le antiche forme erano abbandonate, le frontiere aperte ad ogni influsso malsano, i vari cenacoli avvelenati dallo snobismo, dall'incapacità di scegliere, dalla poca chiaroveggenza, dalla assoluta mancanza di entusiasmo e di fede in un qualunque ideale.
«Bellezza, ideale, entusiasmo» - scriveva questo musicista; ma i politicanti francesi non si accorgevano del sintomo che preannunciava la catastroie - «vecchie parole disusate delle quali essi ridono nei loro cenacoli, senza mostrar di sospettare che tali parole, e le aspirazioni che rappresentano, hanno costituito, in ogni tempo, le vive sorgenti dell'arte».
***
Parigi! Torre Eiffel, Salotto X, Avenué Kléber, Maison C., Loggia Y., Auditions du mardi, S. I. M. C. !...
E una buona dose d'«air blasé,», per la «linea».

VI

Abbiamo accennato, molto sommariamente, quale fosse l'atmosfera spirituale del mondo artistico parigino nei suoi vari e mutevolissimi aspetti di questi ultimi vent'anni; e come i sintomi del veleno che agiva sui centri vitali della Francia - quelli dello Spirito, appunto - fossero evidenti e gravi, nel campo della musica come in quello delle altre arti e delle lettere, sì da non sfuggire all'attenzione e da suscitare l'allarme di due artisti veri e schietti francesi, Debussy e D'Indy: due, dei venti o trenta fra musicisti e pittori e scrittori che «vedevano chiaro» e che si potrebbero citare (a contare i politici di mestiere, non se ne troverebbero forse altrettanti di così lungiveggenti e sensibili. Non che ascoltare le voci e i lai della Patria e dell'antico sangue Latino, erano essi in tutt'altre faccende affaccendati).
Anche si è detto che la funzione che dovrà essere assunta dall'Italia imperiale nel dopoguerra: di equilibratrice, di presidio e faro e unica legittima rappresentante e propugnatrice del gusto della coltura dello spirito della civiltà Latina e Romana, implicherà specie nei primi decenni assai più doveri che non diritti, comporterà assai più pesi che non agi.
Perchè, questo? Perchè le difficoltà e i duri nemici che dovremo vincere sono di ordine esterno e di ordine interno: e questi, più temibili di quelli; e perchè l'assunto non deve essere poi tanto semplice e leggero se, per esempio, la Francla - che non è poi una nazione tutta d'imbecilli, e che fino a ieri doveva provvedere «solo» al suo settore - si è mostrata impari alla bisogna.
***
Le difficoltà di ordine esterno sono rappresentate sopratutto da una lunga e antica serie di leggende da sfatare, di tradizioni da rovesciare e rinnovare, di conversioni da operare, di abitudini mentali e di feticci spirituali da smontare.
Le leggende, le tradizioni, la fede cieca, gli illusori feticismi che, in tanta parte del mondo, facevano riguardare ancora in quest anni a Parigi come un grande, autentico centro dell'intellettualità latina. Non parliamo dei vastissimi e diversissimi interessi materiali legati a questa posizione morale e da essa dipendenti, che meriterebbero, per la loro mole, un discorso a parte, ma che consideriamo di secondo piano: perchè mai come oggi si è potuto constatare come e quanto lo spirito domini e vinca la materia.
Limitiamoci al fenomeno spirituale che dovrà operarsi per impulsione e per influenza dell'Italia fascista e imperiale presso intere nazioni, presso interi popoli e continenti, perchè si accorgano finalmente e si convincano che la fiaccola della eterna coltura e dell'arte e della civiltà Latina - negletta e abbandonata dalla Francia - splende ora, per la miracolosa virtù spirituale di un Uomo al quale un grande popolo ha saputo degnamente rispondere, sul colle capitolino: perchè imparino a guardare, come al loro giusto faro, non più a Parigi, ma a Roma.
È rivoluzione di così imponente grandezza e di così vasta portata storica, questa che dovrà compiersi oltre i nostri confini, oltre i nostri mari e gli oceani, che basta considerarla un momento solo in estensione - non diciamo in profondità - per misurare quale enorme somma di luce spirituale, di vigore di pensiero e di azione, di calore d'entusiasmo e di fede dovrà sprigionarsi e diffondersi dall'Italia imperiale e da Roma, perchè i dormienti siano destati e gli ignari informati e gli scettici convinti: perchè si formi, insomma, una nuova tradizione e si accenda una nuova fede.
***
Ecco: com'era naturale, il discorso ci ha portato spontaneamente a misurare con la mente l'enorme vastità dello sforzo che solo da noi italiani potrà e dovrà essere sostenuto per vincere - dopo la guerra - anche la pace, e per essere ancora degni della Età di Mussolini e della nuova grandezza della Patria.
Ecco: dopo avere superficialmente e per sommi capi accennato a quelle che saranno le difficoltà d'ordine esterno da superare, possiamo ora, altrettanto fugacemente, considerare le più appariscenti ed intuitive difficoltà d'ordine interno o, per dir meglio, «intimo»; riferentisi cioè ai caratteri e alle doti peculiari del nostro istinto e del nostro temperamento. meridionale.
Il compito che spetterà agli italiani è molto arduo, e non occorre ripeterlo. Ma a porre la nostra Nazione su un piano fin d'ora superiore rispetto al Paesi che sono caduti o che stanno per cadere, e a tenerci lontani dalla china pericolosa che li ha condotti e li conduce alla catastrofe, sta innanzi tutto l'innata qualità dell'italiano vero e schietto, fedele alla migliore tradizione nazionale e aderente per natura al severo e saldo costume morale predicato da Mussolini: la qualità di essere molto bene informato della vita e delle avventure, delle vicende e della coltura dei popoli a lui vicini, e dei lontani: dei consanguinei e degli estranei. Questo «essere informato» gli ha permesso e gli permette di vivere e pesare e saggiare al vaglio della critica - altra qualità nostrana - ciò che è stato tentato o fatto, realizzato o sbagliato in questo ultimo ventennio dagli altri popoli: il bene e il male, i successi, gli insuccessi e - quel che più conta - le loro cause lontane e vicine. L'italiano vero e schietto, il fedele di Mussolini è «informato»: e può dunque far tesoro delle esperienze altrui: specialmente di quelle negative, per non ripeterle; in quanto le altre - a esito positivo - gli potranno, anche, servire; ma soltanto come punto di partenza, per procedere oltre.
Di quale portata sia questo vantaggio non occorre chiarire: basta ricordare che la cieca e gretta ostilità della Francla contro di noi e la causa prima dei suoi errori in questo ventennio, fu dovuta al «non essere informata» della vera essenza, del vero spirito, delle reali possibilità sociali e politiche e spirituali del Fascismo e al «non essere informata» di quanto grande sia, e quanto latino e umano, il genio del Condottiero; basta ricordare che il primo clamoroso scacco inglese - quello delle sanzioni - fu dovuto al «non essere» quella Nazione «informata» dell'effettiva forza di coesione, di sacrificio, di decisione e d'armi dell'Italia fascista.
Essi, gli inglesi, hanno l'«Intelligence Service» e, a furia di «non essere informati» corrono alla rovina; il popolo italiano ha, al suo servizio, l'intelligenza: che gli permette di latinamente «intelligere» quello che avviene nella sua propria casa, e nelle case degli altri.
Questa medesima qualità di saper capire e valutare esattamente e uomini, e fatti, e cose, farà sì che ogni vero e schietto italiano sappia domani valutare l'altezza e la difficoltà del compito che lo attende, la parte di individuale responsabilità che gli compete, il carico di maggiore e più severa fatica al quale dovrà sobbarcarsi per la affermazione e per la esaltazione - a base di fatti e di opere compiute, non di sparate retoriche - dell'ideale Latino e dell'Italia fascista nel mondo. Farà si che ogni vero e schietto italiano si senta come investito di una altissima missione religiosa e spirituale, e con ardore mistico la assolva.
Perchè è lo Spirito che dovrà operare quando siano dimesse le armi - e, questa volta, si può davvero credere e sperare che lo saranno per lungo tempo; ed è lo Spirito che dovrà potenziare la vittoria delle armi - non sono forse, oggi, le armi, che potenziano lo Spirito della Rivoluzione? e conferire all'Impero italiano quel significato, quella verace autorità, quella forza di attrazione, quel «senso di una grande civiltà» che mai avrebbe potuto avere l'Impero inglese, e che la Francia, che pure avrebbe potuto, mai seppe o volle dare al suo.
Parte essenziale, ufficio decisivo avranno senza dubbio le Arti e le Lettere nella attuazione, nel concretamento, nella espressione di questa che sarà l'anima e la forza dell'Italia imperiale, baluardo e simbolo della civiltà Romana.

VII

I maggiori doveri e i più gravi pesi che dovranno essere assolti e sopportati dagli artisti e dagli intellettuali italiani per il potenziamento spirituale dell'Impero saranno «fatica senza fatica»; su questo non si può metter dubbio. Partendosi dalla buona conoscenza della coltura e delle civiltà (e vissute anche delle degenerazioni) artistiche oltremontane; ormai, come osservatori, non come attori o complici, e passate al filtro infallibile del gusto latino tutte le altrui esperienze; e tratta l'essenza che a noi può convenire anche dai fiori del male, si può esser anche sicuri, fin d'ora, che a nessun italiano verrà in mente di, inventare l'ombrello, o di scoprire che esiste un quadrupede che si chiama cavallo.
Questo vuol dire anche che non v'è gran pericolo che l'imperioso «richiamo all'ordine» che a tutta l'umanità viene oggi non da una scuola di esteti, non dalla singola voce di un politico, ma addirittura dagli eventi storici sa provocare nell'Italla fascista e negli artisti e intellettuali italiani eccessi di reazione in senso retrogrado o anche solamente un periodo di arresto nel naturale cammino evolutivo dell'arte: che è legato semplicemente e ineluttabilmente al calendario e all'atmosfera della Nazione in marcia. È ben giusto, a questo proposito, ciò che scriveva ultimamente Corrado Pavolini: «La liberazione dalle retoriche formali, dal classicismo ricevuto, è, insieme al riconoscimento della classicità come esempio di metodo, la novità sostanziale dell'Italia contemporanea. Innamorata come non mai dei suoi antichi, la cultura italiana d'oggi si è accinta a rimeditare quelle esperienze solenni con libero ingegno, in quanto esse dimostrino di essere ancora operanti e dunque «utili»: non oltre quel segno. E dall'Europa assimilerà - come già col gotico e col romanticismo - i succhi di talune inquietudini profonde.
«Il tempo di Mussolini trova l'Italia artistica e letteraria a questo punto del proprio sviluppo. Rifiutato il classicismo esteriore a beneficio di una umana classicità, ogni esperienza anche estrema e rischiosissima potrà essere compiuta senza più danno per l'originalità italiana.»
Escluso dunque il pericolo del cammino a ritroso o della paralisi - anche la naturale irrequietezza dello spirito e la ricchezza di fantasia proprie dei latini concorrono a queste difese - è appena da accennare l'altro, concomitante: quello dell'arte pacchiana, della banalità, della trivialità sbracata (o anche con le brache): quello che di peggio - o di meglio può venire, insomma, dal nuovo ricco, dal villan rifatto e dalle clientele degli ignoranti e dei mediocri che di solito fanno corona a questi avventurieri del mondo intellettuale. Grosso modo, tutto quello che in ogni arte corrisponde al drammaccio da arena presentato con la scusa (e con la pretesa) di «andare verso il popolo», dimenticando semplicemente che le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide furono, quelle sì, Teatro del Popolo.
Ma non vale la pena di soffermarci su ciò. La trivialità pacchiana è da mettere sullo stesso piano e in stretto contatto col preziosismo e con lo snobismo di cui rappresenta l'estremo opposto. Ciò che si è detto per quello può valere in gran parte anche per questa, in quanto l'una e l'al tro presuppongono una mancanza di gusto, un difetto di senso critico e di discernimento, una minchionaggine da cafone, che non saranno mai dell'italiano «vero e schietto» del quale ci occupiamo.

VIII

Il dovere più grave e quello più,difficile da adempiere, il peso più grosso da portare, il nemico più duro da vincere fra quelli interni o interiori che abbiamo accennati nel capitoli precedenti sono costituiti dalle nuove necessità in cui verrà a trovarsi ogni italiano fedele di Mussolini, ogni fascista che voglia attivamente servire la causa della Rivoluzione e collaborare - per modeste che siano le sue forze - alla affermazione e al potenziamento spirituale dell'Impero fascista. La necessità di elevare al più alto grado possibile il livello spirituale culturale e artistico della Nazione, ciò che importerà prima di tutto, negli artisti e negli intellettuali, una maggiore severità di controllo e di critica verso il proprio operato e verso i propri atteggiamenti che non potranno nè dovranno più essere inspirati soltanto a quell'individualismo che è, sì, dote preziosa e fortunatamente incoercibile del temperamento italiano: ma che non può esser portato alle estreme conseguenze dell'isolamento senza cadere, anche qui, nella grettezza, e in una specie di egoistica sordità morale e intellettuale della peggiore risma.
Produrre, agire, diffondere con tutti i mezzi ed elevare l'amore dell'arte e le conquiste dello spirito sempre nel quadro dei grandi interessi nazionali, questo è il primo compito che spetta agli italiani del Fascio e dell'Impero.
«Sempre nel quadro dei grandi interessi nazionali», si è detto; ed è bene qui insistere nella affermazione che il primo e il più urgente di questi interessi è costituito dal raggiungimento di un autentico, gelosissimo, scontrosissimo senso di libertà e di dignità individuale e nazionale rispetto a tutti i barbarismi e le storture e le degenerazioni che hanno prodotto tanti mali (e non soltanto artistici) nel Paesi oltre confine; tanto più che la nostra stessa natura di italiani e di figli spirituali di Roma è spontaneamente disposta e orientata verso una intelligente e niente affatto misoneistica difesa da tali pericoli e lusinghe.
Quello, infatti, che fortunatamente ha tenuto e tiene lontana non tutta, ma molta parte dell'arte nostra dalle malattie contagiose e dagli snobismi ed estremismi d'oltr'Alpe, è non soltanto l'innato senso e l'istinto e l'educazione del «bello» in arte, e la nostra istintiva resistenza alle troppo astratte astrazioni di questa o quella scuola filosofica: istinto e resistenza che, soli, basterebbero a salvarci da molte depravazioni; ma, a difendere la nostra salute morale e artistica è anche, qualche cosa di più lontano ancora, e profondo, e augusto: un innato sentimento religioso, di arte cristiana, di spirito «romano» (questo che la Francia, sia pure di origine latina, ha dimostrato di non possedere), che si contrappone e resiste per sola forza d'istinto, forse, contro tendenze e gesti che hanno, per noi, qualche cosa di anticristiano, di irreligioso, di ateo: sul piano della civiltà, di antiromano; e che sono infatti rappresentati, nel loro elementi più significativi e fanatici, da campioni e condottieri a noi completamente remotamente stranieri.
Se già abbiamo in noi questo sano istinto di difesa che è costituito dalla nostra romanità e, per conseguenza, dall'innato senso nazionale, ebbene, dobbiamo renderlo anche più geloso e più attivo. Pericolo di regredire, o anche soltanto di arrestare il cammino, non v'è, come già si è detto, perchè questo senso romano e nazionale si è già mostrato in mille circostanze di così larghe braccia, da poter comprendere le più varie tendenze dei singoli artisti. Si è mostrato così multiforme (e così elementare, in fondo) da potersi riflettere nelle opere individuali anche le più diverse; tanto da permetterci di estendere a tutte le nostre arti il giudizio che Beniamin Crémieux esprimeva sulle nostre lettere: «Di tutte le letterature europee, l'italiana è la meno soggetta alle grandi correnti collettive, la più ricca di opere autonome, di contraddizioni e di svolte impreviste».
Questa caratteristica che rappresenta forse una incomodità per gli stranieri che ci osservano e che, in fatto d'arte moderna, sono avvezzi a marciare per plotoni e a catalogare gli artisti per mezze dozzine, è uno dei grandi segni in quanto sintomo di uno spirito di indipendenza che resiste a tutti i calcoli - della nostra sana italianità e della nostra tradizione che è fatta appunto di indipendenza spirituale, di cristiana pietà per l'arte, di chiarezza e di gusto, di equilibrio e di buona (perchè vetusta) educazione.
Dev'essere intesa anche in questo senso la severità di controllo e di critica verso il proprio operato alle quali accennavo più sopra. Da questo più alto livello, una volta che sia raggiunto, gli altri compiti appariranno man mano chiari, in ordinata vicenda, come altrettante tappe necessarie a raggiungere, per la via più breve, la meta.
Tutto questo complesso di azioni e di reazioni, di disegni e di opere divisi nel giorni e negli anni avvenire, costituisce, per la sua vastità e complessità, e per l'altezza cui deve mirare affinché la luce di Roma giunga al popoli anche più lontani, un compito del tutto nuovo. Nasce con la guerra di oggi, e non è lieve.
***
Alcune evasioni - non molte, ma rumorosissime per i clamori degli eureka e degli osanna e del gemere di torchi che di volta in volta le hanno accompagnate nei clan delle «tendenze» e dei «movimenti» e nei chierici delle varie Loggie - alcune evasioni ci sono state: qualche rilassamento in questo prezioso spirito di difesa, in questo preziosissimo orgoglio nazionale si è osservato; e le une e gli altri durano ancora, sebbene un po' giù di tono, e non con la sfacciata sicumera di dieci anni fa: per via, se non altro, delle lezioni impartite in questo lasso di tempo dalle cronache e dalle esperienze: tutte negative. Ma, quello che appare molto strano, tanto strano da parer quasi buffo, ed un po' preoccupante per certi riguardi, è che questi disertori, e questi pescatori nel torbido dell'arte, cacciati per dieci e quindici e venti anni di seguito dal teatri, dalle sale di concerto, dalle mostre d'arti figurative, dagli editori di libri, e trovando ora, per il senso di sazietà e di noia che hanno prodotto in tutti gli strati degli esperti e del pubblico, sprangate tutte le porte, tentano di rientrare dalle finestre, ben muniti di lascia-passare, di «segnalazioni» e di spintarelle di autorevolezza non precisamente artistica o spirituale; e fatti segno, in periodici semi-ufficiali, ad intenzionali apologie (le quali però sono redatte ini uno stile ancor più problematico, ermetico e «contro le tentazioni» dell'arte che vogliono esaltare; e in ogni caso - se si tratta di pittori - sono immediatamente polverizzate e rese innocue dalle riproduzioni, in nero o a colori, delle «opere») che non ci paiono proprio le più adatte a confortare quel processo di chiarificazione che gli artisti italiani hanno già compiuto per conto loro in venti e trent'anni di durissimo lavoro, di durissime fatiche e di severissimi esami: dell'opera propria, e della altrui; e che la critica, l'opinione pubblica, l'affannoso torneo delle succedentisi mode, il tempo hanno largamente collaudato.
(Qui bisogna aprire una parentesi. Non si illuda, chi non ci conosce abbastanza, che noi ci battiamo per un pompierismo spirituale e artistico che sarebbe agli antipodi delle nostre necessità presenti e avvenire; o che siamo per partito preso contro le manifestazioni dell'arte di eccezione. Abbiamo anzi l'orgoglio di poter affermare che tutta l'opera nostra e la nostra azione sono per natura anticonformiste e se mai molto più vicine all'arte di battaglia e di eccezione che non al quietismo dell'ordinaria amministrazione. Noi siamo soltanto contro ogni spirito settario - che vuol dire limitazione di orizzonti, servitù spirituale, anticamera delle più varie camorre - da qualunque parte esso sia e operi: a destra o a sinistra, in alto o in basso. E se un pittore vuol dipingere solo bicchieri e non uscire da una data gamma di colori o di toni; e un poeta vuol poetare usando cinquanta vocaboli e non uno di più; e un musicista comporre musiche su quarti di tono; e un critico scrivere prosa che per chiarezza di forma e per profondità di concetti somigli a quella, già da noi citata, del Picabia, facciano pure. Anche queste voci, sebbene espressioni di uno spirito individualistico e chiuso in se stesso, debbono trovar posto in un grande Paese, e possono collaborare a formarne la fisionomia spirituale. Ma nessuno deve pretendere di stabilire e di far credere che «solo questa» è l'arte o la poesia nostra, solo questi i modelli degni di considerazione e da imitare, le espressioni della nostra modernità e le prove della nostra esistenza, le vie che al giovani conviene seguire se vogliono «arrivare presto»).
Ai molti geniali fortissimi artisti italiani di tutte le arti che nel trascorsi venti anni vissero in mezzo alla mischia internazionale e vi presero parte e «difesero strenuamente la nostra civiltà e la nostra spiritualità» (quelle che hanno radici profonde, non fiori di serra; e che resistono ai capricci delle mode e delle tendenze), questi vecchi criteri del provinciale e del borghese che si lascia incantare dalla prima capriola, appaiono in pieno contrasto e in grande ritardo rispetto alle esperienze già fatte e alle battaglie già combattute e vinte.
Tutto questo è, oggi, ormai superato. L'opera di selezione, delicatissima, difficilissima in alcuni casi, è già avvenuta; il tempo ha già pronunciato il suo verdetto, e mandato agli archivi le biografie tronche di diecine e diecine di artisti che facevano i rivoluzionari perchè non avevano talento e senza sapere - o perché non sapevano - il mestiere e centinaia di opere di scultura, di pittura, di musica che la moda di una settimana aveva di volta in volta indicato al mondo come altrettanti capolavori immarcescibili. L'esperienza, la dura esperienza di Parigi è servita, se non altro, a questo: che gli artisti italiani - quelli dagli occhi e dalle orecchie aperti, si'ntende - hanno imparato a conoscere, senza rimetterci le penne, tutta la vanità di certe montature, e la balordaggine di certe tendenze, e l'inutilità di certi conati, e soprattutto la profonda immoralità, la cinica empietà della III Internazionale dell'arte, alla quale tali montature tendenze e conati sempre e per vie diverse si riallacciavano in qualche modo.
Chiunque sappia quanto sia stata dura la lotta di questi ultimi trent'anni di vita artistica italiana (e gli artisti militanti di tutte le arti bene lo sanno) per impedire che il gusto della Nazione fosse inquinato e pervertito dal due estremi opposti: dell'arte barbara, nichilista e snobista e del dilettantismo pacchiano e ignorante; chiunque sappia, per avervi partecipato, quale faticoso, lungo, delicato lavoro di decantazione, di selezione, di valutazione si sia venuto operando in questi decenni in mezzo alla solita, e anche questa di prammatica e di ogni tempo, folla di centinaia di aspiranti al posto al sole: gara di ingegni, di operosità, di tenacia, di coraggio, di possibilità necessariamente diverse; difficilissima gara, ma che pure è potuta svolgersi e portare ad un risultato e ad una selezione; e trovi oggi una barricata là dove era pure una strada, e gli scagnozzi al posto dei Parrochi, può ben dire che tutto questo è, e dovrebbe essere, così definitivamente superato, è stato così ponderatamente visto esaminato e deciso che nessuno, fra noi, sente il bisogno di ricominciare daccapo per far piacere a quel cinque o sei ritardatari che si svegliano adesso, al rumore della guerra «armi alla mano»; quando l'arte, anzi tutte le arti e gli artisti della buona milizia, la loro guerra l'hanno già combattuta e vinta: proprio nel venti anni trascorsi; negli anni della falsa pace e del tempestoso armistizio.
***
L'hanno combattuta e vinta la loro guerra, perchè «anche questa volta», come quasi sempre è avvenuto, «l'arte e gli artisti hanno presentito» ciò che di grande e terribile si preparava nella vita dei popoli, e lo hanno espresso e - ciascuno sotto la sua propria bandiera (quelli che credevano ad una bandiera) - e nel nome del proprio ideale ha valorosamente, eroicamente combattuto.
E in prima linea, proprio e «soltanto» gli italiani; perchè gli altri artisti delle altre nazioni - francesi, inglesi, tedeschi (fino all'avvento di Hitler), cecoslovacchi, austriaci, svizzeri - si erano, nell'enorme loro maggioranza, imbrancati nelle sezioni e sottosezioni della vasta e potente massoneria dell'arte nichilista; e Parigi, anche in questo, era luogo delle grandi adunate, quartier generale delle grandi offensive, rifugio e pascolo di questa grande democrazia senza spina dorsale, borsa di tutte le speculazioni, estrema ridotta di tutte le sfumature della III Internazionale.
È pensando a questo che, nel precedente capitolo, abbiamo fatto qualche riserva ad una affermazione contenuta nella citata bellissima pagina del Pettinato: «Ma sull'Europa del dopo guerra quell'immenso baccanale» (delizia ed ebbrezza dei provinciali della cultura) «passò senza lasciar traccia».
Effimere quanto si voglia, ma traccie ne lasciò a suo tempo, vittime ne fece, aborti ne produsse, nella musica, nella pittura, nella scultura, nella poesia, di tutti i paesi che si sono nominati; e, qualcuno, anche in Italia. E la massoneria era così perfettamente organizzata, che per molti e molti anni il mondo intero credette che, di legittimi e degni rappresentanti dell'arte, ogni paese non potesse vantare che coloro i quali erano a quella affiliati e da quella lanciati. Gli altri, zero. E l'equivoco dura, in parte, ancora.
Ma per tornare agli italiani schietti, bisogna ripetere che essi soltanto hanno saputo resistere a tanta offensiva; essi soltanto hanno osato difendere, tra la perversione universale, l'arte sana; essi soltanto si sono mostrati fedeli, fortissimi custodi propugnatori dello Spirito, della coltura, del gusto latino e romano. E, finito il baccanale, sbaragliati tanti bugiardi feticci, tramontati tanti falsi idoli, essi soli sono rimasti in piedi in numero abbastanza rilevante, con stature abbastanza alte, per potere rappresentare ed esprimere lo spirito di una grande Nazione; a significare l'arte del presente, e a costituire l'anello di congiunzione tra il Passato e l'Avvenire.
Ecco dunque che, veri artisti, hanno presentito e precorso i tempi, e individuato l'avversario, e tenuto fede al loro ideali nazionali e di stirpe, e vigorosamente lottato, e bravamente vinto la loro ventennale profetica battaglia prima che la guerra cruenta, delle armi e dei popoli, ricominciasse.
Per essi, per gli artisti italiani, è venuto ora il tempo di lavorare seriamente, di consolidare le posizioni che si sono conquistate con tanta fatica e con tanto disprezzo dei facili successi societari.
Anche per questa ragione - ove non bastassero gli ammaestramenti delle già ricordate, recenti, cronache oltremontane - l'epoca degli esperimenti, delle ricerche di laboratorio, delle montature a vuoto e della mediocrità e del dilettantismo autorevolmente raccomandati è bene sia considerata come chiusa. Appartiene al passato. Ci ha gia dato quello che, di insegnamenti, ci poteva dare. E giù di moda. Adesso non è più tempo di giuocare. E tempo di fare.