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Commemorare degnamente - e forse non inutilmente -Giacomo Puccini nel centenario della nascita vuol dire, secondo me, trarre dalla sua vita d'artista e dalle opere di Lui una lezione.
Ai nostri giorni la lezione che si può trarre dalla stupenda presenza del Maestro - più ancora delle universalmente riconosciute sue fedeltà e obbedienza alle leggi che sempre hanno retto il Teatro dalle origini, e che sempre lo reggeranno - è quella che si può e deve trarre dal riconoscimento leale, onesto e coraggioso dei fatali errori commessi nel Nostro Paese da quando, una quarantina di anni or sono, incominciò la disobbedienza a tali leggi; e da quando si volle ostentare indifferenza e disprezzo per la funzione naturale - l'ufficio, diceva Mazzini - sociale, civile, culturalmente divulgativo, sollecito delle Muse, non già di Morfeo o della mostruosa Gorgona, del Teatro stesso.
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Io sono profondamente grato al giovane amico e collega Jacopo Napoli che mi ha invitato a trattare questo tema nella sala di questo Conservatorio di S. Pietro a Maiella al quale mi legano tanto luminosi ricordi, nel quale trascorsi anni indimenticabili, dolcissimi al cuore e allo spirito. Tanto più grato, in quanto io posso oggi parlare di Puccini senza previi atti di ritrattazione o di contrizione, pubblici o segreti.
Il tema della salutare fedeltà alla grande tradizione.
Giacomo Puccini è testimonianza vivente la più alta e famosa di quanto sia feconda di bene - e sensibile, e accessibile, e sollecita anzi delle vicende evolutive - la tradizione stessa.
Pena, il dissolvimento, l'osservanza dell'antica legge e l'adempimento dell'antico ufficio sociale e civile è condizione di vita per il Teatro Lirico italiano.
Poichè si tratta di un repertorio tutto vivo, tutto presente sempre, anzi oggi più che mai, e a tutti noto, ricordiamo molto sommariamente i caratteri generali del modus agendi di Puccini.
Innanzitutto il Libretto, il testo su cui il compositore di teatro deve lavorare.
Puccini nutriva il più grande rispetto per il Pubblico, (come Verdi, come Donizetti, come Bellini, come Rossini. Tutti i veri uomini di teatro rispettano, anzi amano il pubblico al quale dedicano le loro fatiche). Nutriva il più grande rispetto per il pubblico; e teneva nel massimo conto le esperienze fatte, riconoscendo gli errori, se ne aveva commessi. E questo un dato basilare della sua biografia artistica.
Quando ricordava il pallido successo di Edgar rappresentato alla Scala nel 1889, suoleva dire: «È inutile: è un'opera codesta che non va, che non potrà mai andare. La base di un'opera è il soggetto e la sua trattazione; il libretto di Edgar... è una cantonata che abbiamo preso in due (Fontana). Ma la colpa è più mia che sua». E, alcuni anni più tardi, quando l'opera stessa ritentò nel 1902 la fortuna al Teatro Colon di Buenos Aires, ecco ancora Puccini esercitare l'autocritica: «Edgar iersera poco poco. È minestra riscaldata, l'ho sempre detto. Ci vuole un soggetto che palpiti e ci si creda, non le panzane...».
Ancora un detto esemplare di questo operista italiano voglio ricordare. Perchè il medesimo curioso parallelo fra sito per una villa e... libretto d'opera che istituiva parlando, negli ultimi anni di vita, con il suo collaboratore mº Luigi Ricci, egli lo aveva già esposto scherzosamente a me, alcuni anni prima, in uno dei nostri non frequenti, ma non dimenticabili incontri milanesi. Prova e controprova, dunque. Egli diceva press'a poco: «I denari che occorrono per costruirsi una villa, una casa, un palazzo, sono molti e molti: sia che si scavino le fondamenta in un bruttissimo luogo senza vista, male orientato e magari vicino a una cloaca, sia che si scelga, per la costruzione, un bel sito panoramico, soleggiato, ridentissimo. Ebbene, questo sito, nel Teatro Lirico, si chiama libretto».
Ancora: «Metto le mani sul pianoforte e mi si sporcano di polvere. La scrivania è una marea di lettere. Non c'è traccia di musica. La musica? Cosa inutile non avendo libretto... Il Dio Santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: «Scrivi per il Teatro... bada bene... solo per il Teatro... E ho seguito il Supremo consiglio».
Durante la laboriosissima gestazione del libretto di Manon Lescaut, al quale volta a volta lavorarono Marco Praga, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Olinto Malagodi, lo stesso editore committente Giulio Ricordi e, ultimo, come riassuntore e ordinatore del lavoro di tutti, Luigi Illica, lettere e lettere viaggiano fra Puccini e i suoi Poeti. Una scena gli sembra inutile, di un episodio la stesura gli pare contorta, incerta, lunga; il personaggio di Renato non gli piace perchè «fa una parte odiosa»; e «dove è andato a finire quel piccolo brindisi a quattro?»... Non vuole lungaggini, non vuole retorica; scrive a Giulio Ricordi: «Insomma io non posso tollerare parole inutili e sbrodolature letterarie. Ogni verso deve essere «necessario», e stimolo alla mia ispirazione».
Per il finale del primo atto di Tosca, si rivolge a don Panichelli perchè lo consigli sul testo e sui modi della funzione, e'gli spiega come il quadro deve essere musicalmente costruito, e gli domanda la sua approvazione. Per Madama Butterfly, lunghissime discussioni epistolari su una scena al Consolato, sulla divisione in due piuttosto che in tre atti: ed è sempre lui, il Puccini, a veder chiaro. A proposito di un libretto in gestazione, scriveva: «Bisogna divertire l'orbetto (il pubblico), caro Adami, se no si 'tomba', e questo non deve succedere».
Nel 1919 confessava: È così terribilmente difficile il Teatro vivo e sano!; e nello stesso anno ad Adami, a proposito di Turandot: «Dunque con Simoni siete in lizza? Forza, e spremetevi il cuore, e preparatemi quella tal cosa che faccia piangere il mondo!».
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Quanto allo schema che egli adotta, è - tutti lo sanno - quello della grande nostra tradizione, ricca di inesauribili risorse, suscettibile d'infiniti rinnovamenti e aggiornamenti: Recitativo e Aria, ma sempre sostanziati, di Musica, di idee musicali; anche dove meno appare, di melodia.
Questo è il punto.
«Contro tutto e contro tutti, fare opera di melodia»; «Senza melodia non esiste musica»; «Soltanto con la commozione si vince e si resta»; «Vi sono delle leggi fisse in Teatro: interessare, sorprendere, commuovere».
Queste sono parole di Giacomo Puccini. Ascoltare la voce del cuore ed esprimere, rendere accessibile, comunicare agli altri ciò che esso detta: la voce, la parola che vale per tutte le lingue e per tutti i Continenti. Fedeltà alla melodia «senza la quale non esiste musica», tener fede alla …invenzione» al ritrovamento cioè di un'idea, come base indispensabile alla composizione musicale: questi sono i principi ai quali Puccini ispirò l'intera sua Opera.
Il fascino che emana dalle musiche pucciniane deriva senza dubbio innanzi tutto dalla squisitezza di alcune, dalla forza drammatica e dalla potenza comunicativa di altre sue invenzioni, di alcuni suoi motivi, e dalla totale adesione di queste espressioni ai momenti scenici cui si riferiscono.
«Motivo» non vuol dir organetto; «melodia» non vuol dir sdolcinatura; «tema» non vuol dir Wagner; e nessuno - fra i compositori teatrali - lo dimostra più e meglio di Puccini.
Pensate un momento alla scena della tortura nel secondo atto di Tosca: una delle opere più vituperate dalla critica. Quel disegno che si ripete, che insiste minaccioso sempre partendosi dallo stesso grado, e ogni volta salendo, alla fine, di un grado, prima della iterazione, per poi ripiegare sulla nota dominante, prima di sfociare nel secondo breve inciso che conduce a un accordo armonicamente sospeso. V'è, in questo episodio, l'idea fissa e la dura volontà aggressiva di Scarpia; v'è il senso del pericolo che sempre più da vicino investe Tosca; v'è lo smarrimento di Tosca anch'esso polarizzato verso qualche cosa di fisso: l'idea truce che nasce, prende forma e forza in lei. V'è, in una parola, il momento drammatico musicalmente e pienamente attuato. Questo è Teatro.
Pensate al Coro a bocca chiusa di Butterfly. Potrebbe essere, questa lunga, dispiegata melodia, di più soave e dolce invenzione, più pertinente al momento scenico, più pervasa di malinconia, si, ma anche di commovente ingenuità e di speranza? Un semplice canto corale ad una voce: una melodia che si presenta nuda nella sua casta bellezza, discretissimamente sostenuta, come da un aereo piedestallo, dall'orchestra. E dice tutto quello che deve dire. Esprime anzi - oh, potenza della musica! - anche l'ineffabile. Questo è Teatro.
Ancora la tartassata Tosca. Vi dirò come nacque l'apertura del terzo atto, l'alba romana.
Nella villetta di Torre del Lago, era in programma, una sera, il giuoco a carte. Luogo dell'azione, lo studio del Maestro, a pianterreno. Puccini era al pianoforte, e lavorava. Ferruccio Pagni, arrivato prima degli altri, riceveva gli amici Discovolo, Fanelli, Nomellini, tutti pittori, e li avvertiva: «Potete parlare, potremo giocare senza preoccuparci di Lui. Quando lavora, si isola: non sente nulla». Arrivati i ritardatari, il gioco incomincia.
A un tratto Puccini scaraventa la matita a terra, si alza dallo scanno, ed esce rapido dalla stanza. Dopo qualche minuto ritorna portando trionfalmente in mano una chiave. La chiave di un armadietto - era andato a cercarla nella camera della dormiente severissima amministratrice donna Elvira - nel quale armadietto erano rinchiuse non soltanto le bottiglie dei vini e dei liquori cari alle ugole degli amici; ma anche un servizio di bicchieri di Baccarat, che quella sera dovevano essere di scena.
Puccini distribuisce i bicchieri agli amici, li riempie parzialmente percuotendoli sull'orlo con le nocche delle dita per raggiungere i suoni voluti, e poi spiega agli amici con quale ordine di successione e di ritmo debbano suonare. Fu, questa, l'anteprima, anzi l'antiprova creativa dei poeticissimi rintocchi delle campane mattutine che, sul trasparente tessuto degli archi e col bellissimo canto del pastore, aprono il terzo atto: la più squisita, caratteristica e «autentica» interpretazione musicale che esista, di un'alba romana. Questo è teatro.
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Uomo di esemplare semplicità e di accaparrante schiettezza e assolutamente alieno da ogni ombra di posa, Puccini conosceva benissimo i limiti del «generico», dirò così, della espressione musicale per intensa che sia; e sapeva quanto - in teatro - possano l'ambiente scenico e il momento drammatico precisarla, circoscriverla, esaltarla, sì da suscitare talvolta nel pubblico determinate sensazioni: lontanissime, magari, dal segreto atto di nascita di un dato episodio, o spunto, o motivo. E, nella sua onesta e consapevole sicurezza di artista, non nascondeva affatto, quando ne venisse in discorso, gli aiuti preziosi che, talvolta, il puro caso aveva offerto alla sua ispirazione.
Il modo in cui, per esempio, come avrete visto nel film «Puccini» il Maestro trova finalmente, dopo lungo tormento, dopo innumeri tentativi, lo spunto dell'Aria «In quelle trine morbide» di Manon, è esattissimo. Egli stesso me ne aveva fatto il racconto nei primi anni della nostra conoscenza, quando Manon fu ripresa alla Scala diretta da Toscanini. Tale e quale, come è descritto nel film.
Della stessa Manon, egli stesso mi narrò di aver tratto lo spunto della dolorosa melodia del preludio famoso, dal lamento di una pazza la cui voce gli giungeva da una finestra alta e lontana, durante una sua visita a un manicomio.
Di Manon, ancora, lo stesso Puccini mi diceva che il Madrigale del secondo atto, che pubblici e critici trovano unanimemente pieno di sensuale grazia e di squisita eleganza settecentesca, era, all'origine, una Ave Maria per piccolo coro.
Tutti voi ricorderete il perentorio, bizzarro, estroso attacco della Bohème. Tutti, ascoltandolo e riascoltandolo, avete pensato e detto: in poche battute, l'ambiente è reso alla perfezione. Più bohème di così, non potrebbe essere. Ebbene, questo, alle origini, era lo Scherzo di un Capriccio sinfonico composto da Puccini ancora studente al Conservatorio di Milano.
Come definire questi casi? In quale casellario sistemarli? In qual modo scomporli, sottoporli ai raggi X o esaminarli al microscopio per poterli assegnare a qualche categoria di carattere scientifico?
Non saprei rispondere a domande del genere. Credo soltanto che, per trarre partito - e così brillante - da casi simili, occorre genio artistico. E Puccini questo genio lo aveva; e lo aveva da uomo di teatro, quale era.
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Nei nove anni che corrono dal 1884, apparizione di Puccini con Le Villi, al 1893 della piena affermazione con Manon Lescaut, il clima del Teatro Lirico -italiano è sostenutissimo.
La situazione che si protrasse, poi, fino al primo ventennio del nostro secolo, e che era venuta ' maturando durante l'intero XIX, presenta il Melodramma come glorioso, ma unico genere coltivato dai compositori di musica italiani; quelli degli operisti, i soli nomi che tenessero alto il prestigio e propizia la fortuna della nostra arte musicale.
Le rarissime eccezioni che si riferiscono a grandi virtuosi dell'800 - come il Paganini o il Bazzini - o al grandissimo compositore di Medea, del Requiem in do minore, della Sinfonia in re, Luigi Cherubini; o ai solitari cultori di musica da camera Sgambati e Martucci e, più tardi, Sinigaglia, non fanno che confermare la regola.
Dal 1884 in giù, dunque, Rossini, Bellini, Donizetti, erano nel pieno fulgore della gloria e della popolarità; e Verdi, risolto - tramite Franco Faccio - l'incidente che aveva turbato i suoi rapporti con Boito, riprendeva il lavoro intorno all'Otello. Ma non c'erano in circolazione soltanto i quattro grandi: c'erano anche, e furoreggiavano, gli epigoni di Verdi: Ponchielli con Gioconda, Marchetti con Ruy Blas, il Thomas con Mignon, il Gomez con Guarany.
Le commissioni dei palchettisti e gl'impresari, che governavano assai bene i Teatri, avevano dunque di che scegliere nella produzione contemporanea (allora nessuno parlava di esumazioni) andando sempre, (per quanto riguardava il gradimento del pubblico) sul sicuro.
Niente via libera, insomma, per Puccini e per i suoi più giovani colleghi della scuola verista; ma folla di qualità nelle vie dell'arte, e un livello medio di produzione tutt'altro che trascurabile. Periodo di attività intensa; di gare accesissime, ma di vita relativamente facile e di operosità davvero feconda per gli Editori di Musica e per gl'impresari.
Essi, anche quando non mettevano a rischio il proprio danaro e lavoravano sulla base di non lauti finanziamenti dei Comuni e dei palchettisti, dovevano per forza essere degli amministratori sagaci, perché sapevano che, in caso di deficit, erano essi personalmente a dover rispondere della differenza. Allora, per il repertorio, niente salti nel vuoto con esumazioni barbituriche, con opache opere nuove di sicurissimo insuccesso, o con assurde e costosissime trasposizioni dalla sala di concerto al Teatro, di Oratori o Cantate del tutto privi di mordente drammatico e di vita scenica.
Il gioco sarebbe stato, per quegli amministratori, troppo costoso. Giudiziosamente se ne astenevano; e, offrendo al pubblico un repertorio attentamente selezionato, e perciò, vitale e funzionante, tenevano vivo l'interesse, e ardente la fiducia e la passione per il Teatro d'opera.
Quanto al fenomeno che Arrigo Boito aveva osservato, in una sua cronaca musicale del 1865: il polarizzarsi del genio musicale italiano verso il solo obbiettivo del palcoscenico, esso non era soltanto vero per il passato, ma nell'immediato avvenire si sarebbe anche più accentuato. Il campo, cioè, si sarebbe ulteriormente ristretto. Perchè, nel ventennio 1890 - 1910, nell'ambito stesso del Melodramma, non si afferma, con vera forza vitale e con opere significative, che una gola tendenza, quella dei «Veristi», ai quali spetta così l'onore di concludere un intero importante periodo di storia musicale italiana.
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Ma ecco, intorno al 1910, affacciarsi alla vita militante le nuove generazioni di Compositori nostri: dal Wolf-Ferrari a Respighi e a Pizzetti; da Pick Mangiagalli a Casella e Malipiero. Con queste generazioni si manifesta un movimento compatto per la rinascita in Italia della Musica da Camera e sinfonica.
Ecco, nel 1930, significativo episodio, la scaramuccia tra due combattivi esponenti: della Scuola Verista il primo, e del Rinnovamento il secondo. Ed ecco per i due piloti del Verismo, ma specialmente per Puccini, fulmini e saette dai cieli della musicologia e dalle cattedre conservatoriali.
Pietro Mascagni aveva concluso, nell'autunno di quel 1930, un suo discorso tenuto all'Augusteo di Roma con queste parole: «Il dilagare del novecentismo, non è dovuto che, al silenzio fatto intorno alla Tradizione». Ed era stato facile ad Alfredo Casella, rispondere, nella Tribuna di Roma: «Non la vittoria attuale dei Novecentisti (la rinascita della Musica sinfonica e da Camera), ma bensì quella strepitosa del Melodramma fu fatta del silenzio intorno alla Tradizione. Del silenzio, infatti, che seppellì per oltre un secolo le grandi voci del passato nostro: quelle voci che oggi risorgono con tutta la loro maschia eloquenza.».
Tutti lo sappiamo. L'azione svolta ai primi di questo secolo dalle nuove generazioni che, riallacciandosi all'opera solitaria dei ricordati pionieri, vollero richiamare a vita l'antico, e costituire un nuovo patrimonio di musica da camera e sinfonica, fu molto importante.
Importante ed apprezzabile azione, anche se i suoi frutti appaiono oggi, dopo quasi cinquant'anni, molto meno ricchi di come si sperava; non in quanto a vastità di produzione, ma quanto a diffusione, a presenza nel mondo internazionale ed anche nazionale dei concerti.
Importante ed apprezzabile azione, anche se i suoi frutti appaiono oggi, dopo quasi cinquant'anni, molto meno ricchi di come si sperava; non in quanto a vastità di produzione, ma quanto a diffusione, a presenza nel mondo internazionale ed anche nazionale dei concerti.
Basti osservare che di Ottorino Respighi, il più fecondo nostro sinfonista, è caso frequente leggere il nome nei programmi d'oltre confine, mentre è rarissimo trovarlo nei concerti di casa nostra; e che il gruppetto degli «oltranzisti», dei pompieri di destra e di sinistra (la cui triangolazione è determinata a tribordo dall'estremo della noia e dell'immobilismo spirituale; a babordo dall'estremo della sgradevolezza ermetica e della preziosità «linguistica»; e al vertice meridionale del triangolo ottuso, dall'estremo della candidezza d'animo) [fra l'uno e l'altro paletto, il ferro spinato; e - confinati nel silenzio e nel buio -, i Melodrammi e gli Operisti «validi»] vive la sua grama vita nel recinto di qualche tempio di cui si è assicurato il monopolio per evitare vicinanze scomode, e nell'olimpico reticolato della S.I.M.C. e sue filiali, con il Festival settembrino di Venezia Primo della Classe.
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La crociata per la ripresa della musica da camera e sinfonica e per il Rinnovamento, dette però luogo a qualche eccesso. Avvenne, per esempio, che per resuscitare la «Musica pura», si ritenne necessario polverizzare il Melodramma.
Alfredo Casella vede che all'Italia sta per sfuggire la bisecolare supremazia incontrastata nel campo operistico, attribuisce la causa di ciò al «fatto indiscutibile, dice, della universale, inesorabile decadenza mondiale di cui oggi è vittima l'opera in musica», presagisce di questa l'imminente tramonto, e preconizza l'avvento del Balletto.
Gian Francesco Malipiero riesce con poca fatica ad affermare - se non a dimostrare - che i nostri letterati del '700 disprezzavano il Melodramma e cercavano di riformarlo, e che intuivano i pericoli che minacciavano la Musica e il gusto musicale se si accordava l'egemonia all'opera in musica e al famigerato «bel canto». Dopo di che, constatato che questa egemonia si era davvero affermata, e solidissima, propone che per cambiare aria e lasciar posto alla musica «pura», sia proibita - per non so quanti decenni - la rappresentazione dei Melodrammi ottocenteschi.
Di Ildebrando Pizzetti Enrico Sacchi scrive, nella biografia di Arturo Toscanini: «Pizzetti fu uno dei detrattori più decisi e intelligenti di Puccini (di questo giudizio Pizzetti ebbe a fare ammenda tre anni fa commemorando, nel '49, Puccini a Viareggio), e non soltanto: ma Débora e Jaèle rappresentava proprio l'applicazione rigorosa di quella riforma contro la lirica intermittente e il discorso musicale assoluto, in nome del quale il giovane Pizzetti condannava Puccini e il puccinismo». Pizzetti vuol ritornare, insomma, per rimanervi, a più di tre secoli addietro: ai predecessori romani del Monteverdi, e dintorni.
Qui, dunque, si esce dal generico, e si dice NO non soltanto a Puccini, ma alla gloriosa tradizione di cui Puccini era ed è il più acclamato esponente. E la negazione doveva avere, lo vediamo oggi, conseguenze assai gravi per la nostra vita musicale specialmente da quando il mondo ufficiale fece sua la divisa dei nostri «Filistei», discendenti diretti, attraverso Wagner, dei «Filistei della cultura» messi in berlina da Federico Nietzsche nella sua polemica con Davide Federico Strauss.
Si trattava, insomma, secondo i principi estetici proclamati e da quarant'anni spietatamente applicati, di ripetere (fatte le debite proporzioni e trasposizioni, si sa) una certa operazione di cui il Nietzsche appunto incolpa Socrate: «Socrate, dice, è la ragione, ossia la ragionevolezza dalla corta veduta. Socrate è nemico dell'istinto benefico, è il non-mistico, è il creatore dell'uomo teorico e della dialettica che scaccia, che espelle, ohimè, dalla tragedia la musica, cioè l'elemento fondamentale».
Quanto a Fausto Torrefranca, Goffredo di Buglione del momento, egli si era gettato a corpo morto, due anni dopo il Pizzetti, contro tutti i compositori di teatro italiani che erano sul candeliere, col saggio: «Giacomo Puccini e l'opera internazionale». (E i miei ascoltatori hanno già capito che a questi saggi e al clima donde nacquero si riferisce il titolo e il contenuto della mia lettura di oggi.)
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È di queste settimane la pubblicazione di un grosso volume su G. Puccini, dovuto al dott. Claudio Sartori. È un libro di notevole interesse e sotto alcuni riguardi originale; nel quale, però, l'autore, un erudito storico e musicologo, cade in alcune contraddizioni e in curiose amnesie. Accennerò a due sole. Nell'introduzione, il Sartori qualifica di «errore giovanile» e di «libercolo di sapore scandalistico» il saggio del Torrefranca che ho citato, e dice che «non è il caso di controbatterlo». Riconosce però che «nella sua burbanzosa condanna turbò la critica dotta per lunghi anni» e precisa che «tali affermazioni scavarono a fondo nelle coscienze degli studiosi e germinarono il dubbio, non più vinto, di una propria debolezza spirituale nel compiacersi della musica pucciniana, e li persuasero a evitare con preoccupata cura l'argomento».
Per tradurre in chiaro l'«ibis redibis» e per poter apprezzare i frutti opimi del fenomeno registrato dall'aruspice attentissimo, bisogna riconoscere che questa «perplessità» astensionista annuncia con otto lustri di anticipo, e prepara, il fatale odierno «terrore dell'edonismo», e la sadica «vocazione al martirio» oggi in piena auge fra i nostri filistei e i loro mecenati e buttafuori.
Quella di Claudio Sartori è, senza dubbio alcuno, osservazione acuta, purtroppo fondata e perciò abbastanza umiliante per la Critica musicale del nostro Paese, e anche troppo suffragata a posteriori dal fatto che su Puccini abbiamo una letteratura critica scarsissima, quasi imponderabile, mentre su musicisti ai quali mai arrise il successo abbiamo libroni a cinquantine. È la prassi filistea.
Questi riconoscimenti del Sartori, per altro, e di tanta gravità, dimostrano da soli che sarebbe stato, da parte sua, non soltanto opportuno, ma doveroso raccogliere e controbattere le affermazioni del Torrefranca, per «avventate» che fossero; e che è stato molto avventato non farlo. Innanzitutto perchè - come giustamente osserva Gianandrea Gavazzeni in un recentissimo suo scritto - «nulla importa che in anni a noi più vicini il Torrefranca sconfessasse verbalmente tanto eccesso»; e poi, perchè tale «temperie critica», come dice, ebbe conseguenze cosi gravi e durature, da rendere storicamente necessario conoscere, di tanto effetto, le cause.
Ma ancora più strano è che il Sartori dimentichi completamente che due anni prima del «libercolo» di Torrefranca, cioè nel igio, Pizzetti, il commemoratore ufficiale di oggi, aveva lanciato - da La Voce di Firenze - il segnale d'attacco dell'accademia e della cattedra scolastica contro Puccini e i trionfanti artisti della scuola Verista con quel severissimo capitolo che poi ristampò nel volume «Musicisti contemporanei», edito dal Treves nel 1914.
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Puccini, il bersaglio più colpito, è individuato dal Torrefranca «come l'operista nazionale per eccellenza in un momento in cui - tòltone il breve episodio di Cavalleria e l'esempio isolato di Falstaff - l'arte nazionale non aveva da dire al mondo una parola sua profondamente espressiva di un suo momento storico».
Dal Pizzetti, Puccini è trattato come poco più che un dilettante improvvisatore, incapace d'inventare e di svolgere un vero tema, modestissimo contrappuntista e orchestratore, melodista dal fiato corto, incapace di caratterizzare personaggi e di creare atmosfere musicali, preoccupato soltanto di indulgere ai più bassi gusti della piatta borghesia italiana.
Ora, a parte il fatto che una cosi trascurabile costellazione come questa dei Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano è, da cinquant'anni in qua, unica e sola a testimoniare la presenza e la durevolezza della musica teatrale italiana nei teatri di tutto il mondo, e che non sembra corra pericolo, per ora, di essere offuscata da altre luci più fulgide; - a parte, dunque, tale considerazione, quelle che vorrebbero essere limitazioni dell'importanza dell'opera di Puccini, ne sono invece il giusto riconoscimento da parte di giudici non sospettabili.
Perchè la grande importanza di Puccini, il suo più spiccato carattere è proprio che l'arte sua è stata profondamente espressiva del momento storico nel quale fiorì e di una classe borghese niente affatto spregevole.
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Per ciò che riguarda il teatro, l'opera di Puccini rappresenta infatti la musica italiana del periodo 1880 -1910 molto più veracemente che non il capolavoro Falstaff e molto più fedelmente che non la Cavalleria Rusticana.
Per ciò che riguarda, poi, il momento storico attraversato dalla nostra Nazione e inteso come complesso di tendenze spirituali e del gusto, esso è espresso perfettamente dal Puccini e dagli altri compositori veristi suoi contemporanei. In quanto l'arte loro che è stata - specie da chi volle classificarla e condannarla con una sola parola - definita borghese (e si intendeva colpirla, così, non soltanto nello spirito informatore, ma anche nella espressione) può essere considerata, più esattamente, come l'espressione fedele e genuina di quello che fu lo spirito della borghesia italiana dell'ultimo ventennio del XIXº secolo. Il quale era ben lontano dal frigido accademismo, dal grigiore vuoto, dal retorismo dell'ambiente musicale e scolastico del momento, anche se non si dava a gesti eroici.
Chi voglia dunque guardare con serenità l'opera dei «veristi», e non scelga come osservatorio la vetta del Parnaso, non può non apprezzarla grandemente, in quanto essa rispecchiò il nostrano più alto spirito borghese del tempo che fu.
Puccini e i suoi coetanei, figli dei loro tempi, sono perfettamente intonati al momento storico nel quale comparvero; sono i legittimi e genuini rappresentanti della classe che dominò l'Italia fra l'80 e il 1910.
Se essi non mirarono, con l'arte loro, ad abissali altezze, seppero però esprimere con parole oneste, chiare, ed ovunque ascoltate, quello che di buono e onesto rimaneva dell'antico sangue canoro nell'anima italiana.
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Con il loro assolutismo, col volere incominciare daccapo la Storia della Musica Italiana mutilandola del Melodramma - oppure mutilando il Melodramma dei suoi attributi vitali - invece di accontentarsi di riaprirne il capitolo «musica pura» rimasto interrotto, le nostre Penelopi parnassiane, tutte intente a tessere le lenzuola del perfetto candore, non è che lo abbiano fatto becco, il Melodramma, perchè incapaci anche di questo; ma lo hanno svirilizzato, lo hanno inaridito e messo nei guai, e lo hanno lasciato in solitudine, fra i surrogati e gli enigmi delle 'cliques' nell'empireo intellettualoide e i triboli delle 'claques' in terra.
O solo, e circondato (quello buono e valido) di scientifico silenzio.
O scientificamente sezionato e - per incapacità di ricucirlo a dovere - massacrato.
Si è venuto così a formare nel nostro mondo ipermusicale, iperaccademico, ipercritico, da una trentina d'anni a questa parte, l'atmosfera identica a quella che un cronista d'eccezione - Riccardo Wagner - descriveva con amaro umorismo nel 1869, riferendosi precisamente ai Filistei della sua Germania, ma profetando anche quel che sarebbe avvenuto anche da noi, ottant'anni più tardi. Lo zelo ufficiale e organizzativo per le opere e gli operisti antisociali. Lo stesso fenomeno che si manifesta nel campo delle Arti figurative: vedi Biennale di Venezia.
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Ma forse alcuni di voi non si sovvengono delle caratteristiche - sempre uguali nei cinquantenni passati e nei secoli avvenire - di questa onorata società, tanto cara a Nietzsche e a Riccardo Wagner.
Ci siamo presi dentro. Bisogna ricordare.
Alla loro iniziativa, alla loro sotterranea potenza e stratosferica improntitudine Riccardo Wagner attribuiva il morbo del suo momento, che intitolava: La vernice dell'educazione (corrisponde allo snobismo, al collotorto, al gagaismo intellettuale dei nostri giorni) e - come Nietzsche - definiva Filistei gli affiliati alla setta, coloro che dal morbo erano colpiti, e coloro che zelantemente lo propagavano.
Sentitelo. Stralcio, dalle molte pagine, poche righe soltanto. «La massima da osservare è: componendo (musica), non bisogna pensare nè all'energia, ne all'effetto; e bisogna evitare tutto ciò che vi potrebbe condurre»... «Noi non ci occupiamo dei loro successi politici» (anche allora la politica infestava la vita musicale) «tanto più che i nemici dell'effetto dominano oggi il campo di attività della produzione comune» (anche allora erano, in superficie o sottopelle, i padroni della situazione). «Sotto questo punto di vista, la massima prima ricordata: soprattutto niente effetto, è diventata - da una delicata misura precauzionale che era - un dogma veramente aggressivo. I suoi partigiani distolgono con ipocrita spavento gli sguardi, come se vedessero qualche cosa di osceno, quando, in musica, si imbattono in un uomo completo».
E poi ancora: «La principale ricetta di questi dottori è una certa riserva prudente riguardo a ciò che non si sa fare, aggiunta alla denigrazione di ciò che si vorrebbe bene saper fare. (È proprio il nostro caso, come vedete). E poi: «Lo scopo di lor signori è di convincere il pubblico che precisamente ciò che non produce effetto alcuno» (ciò che annoia, dunque) «è bello». Ecco, infine, per chiudere le poche citazioni: «L'aspirazione spasmodica verso l'Opera di Teatro, nella quale finisce col perdersi tutta la santità dei nostri asceti, distingue in modo evidente i gradi elevati e superiori... Se un giorno essi riuscissero ad abbracciare l'Opera» (e ad esserne abbracciati) «ci sarebbe da temere l'esplosione della Scuola. Ma siccome questo non avverrà mai, la Scuola può rimanere tranquilla, perchè ogni tentativo fallito può sempre essere spacciato per rinuncia volontaria».
Ma facciamo anche noi un po' di archeologia.
La faziosità e il conformismo dei filistei dei nostri giorni sono tali da suggerire un altro ricordo storico; la protesta innalzata appena 350 anni or sono dal modenese Orazio Vecchi contro il settarismo e il conformismo accademici del suo tempo. «È venuta adesso la mania - scriveva il libero Orazio - del Dramma, - e sembra che, se non si la musica rappresentativa seguendo quest'andazzo nuovissimo (allora era lo stile monodico) piuttosto che osservando le buone regole del contrappunto, si debba essere radiati dal ruolo dei musici». Oggi siamo, mutatis mutandis, a questo punto.
Siamo al punto che proprio in quest'anno centenario v'è stato il tentativo - rinnovato in grande stile, questa volta - da parte di quei tali nostri «spasmodici aspiranti verso l'Opera di Teatro» sempre respinti o mal tollerati dai nostri pubblici - di confinare l'Autore di Bohème e di Turandot nel limbo dei «dilettanti» (cioè, di radiarlo dal ruolo dei musici) perchè a suo tempo,... non si era regolarmente diplomato in un Conservatorio. Se questo si osa tentare contro di Lui, se questo è il clima morale, figurarsi ciò che - con ignobili manovre di «veto» e di denigrazioni - si riesce a fare, nei bassifondi del nostro Teatro Lirico, contro altri, minori di Lui.
Del resto tutti ricorderete che fino a non molti anni or sono, in Firenze capitale della sua Toscana, Puccini era snobbato nei grandi Maggi musicali fiorentini. Troppo cordiale e alla mano, troppo «edonista», non abbastanza «interessante»; non faceva fino, non era chic.
Quello che Wagner scriveva nel 1869 previene, collima e spiega perfettamente ciò che Verdi avrebbe scritto sette anni più tardi, proprio perchè si erano intanto veduti in Italia i primi effetti di un, diremo, imbarazzo in cui si trovavano alcuni nostri musicisti, fra i contrasti di questa e quella tendenza, e di questo e quel nuovo verbo. Imbarazzo che, in sostanza, si concretava in una terribile paura di non mostrarsi all'altezza dei tempi.
«Guai se l'artista ha paura» - scriveva Verdi nel 1876; - «tutto quello che si produce oggi è figlio della paura. Non si pensa più alla propria ispirazione, ma si è preoccupati di non urtare i nervi dei Filippi, dei d'Arcais, e di tutti gli altri».
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In ossequio ai sacri principi dei nostri novecenteschi Filistei e al conformismo che è cronica nonchè preclara virtù dell'itala gente, abbiamo dunque avuto, in questi ultimi venticinque anni, lo zelo ufficiale e organizzativo per le opere avitaminose o antisociali, e l'ostracismo più o meno larvato per quelle - non molte, ma pure esistenti - valide e vitali.
I frutti di questo curioso modo di amministrar l'Arte, i pubblici italiani e gli artisti italiani indipendenti li godono da più di trent'anni ormai. E si concretano nel doloroso bilancio consuntivo che oggi si può trarre, e di cui nessuno può negare la gravità.
Il teatro Lirico contemporaneo italiano è stato del tutto assente dalla rassegna mondiale di Bruxelles. Con questa umiliante assenza - della quale, per altro, pare che nessuno si sia accorto, se nessuno ha protestato, -l'Italia ha ufficialmente dichiarato che con i Maestri della Scuola verista dell'ottocento si chiude la storia del nostro melodramma.
Non soltanto Germania, Russia, Francia, ma furono presenti alla grande EXPO, con opere di oggi, non dell'altro ieri, perfino l'America del Nord e la Gran Brettagna, queste ultime venute della scena lirica contemporanea. Unica e sola la Madre Augusta del Melodramma ha accettato, anzi ostentato la Lamartiniana etichetta di «Terra dei Morti».
Ebbene: questa umiliante ammissione autolesionista ha tutti i crismi della ufficialità, ma io vi dico che mentisce il vero. È un falso in atto pubblico. Il Melodramma italiano - in onta ai suoi oppressori - è oggi ancora vivo.
E se il grande pubblico ignora questa assoluta e documentabile verità - il pubblico che ama il Teatro lirico, intendo, e che paga per andarvi -, e se, a sentir solo parlare di Opere contemporanee si mette a scappare, invece di correre ad ascoltare, il merito e i ringraziamenti debbono andare tutti ai nostri bravi Filistei, ai loro ancora più bravi Protettori, o succubi, e a Pantalone bravissimo, che ha pagato le spese della brillante operazione.
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«Guai se l'Artista ha paura», scriveva dunque Verdi nel 1876.
Ma Puccini non aveva di quelle paure. Era quello che di meno soggetto a pregiudizi e a frigoriferi intellettualistici e a pose di superuomo si potesse immaginare.
Egli non è paragonabile, certo, per leonina potenza di genio, a Verdi; nè lo è - per monumentalità di concezioni e per l'assunto rivoluzionario - a Wagner, nè a questo è avvicinabile per i giorni della vita: nel tedesco tempestosi, combattutissimi, eroici; nell'italiano, turbati veramente, si può dire - mi tengo al campo dell'arte - solo dalla difficoltà di trovare buoni libretti, da qualche scontro epistolare con i suoi poeti o con Tito Ricordi, o da qualche momento di nero pessimismo.
Per la maggior parte, questi giorni, tinti di malinconia, sì, ma abbastanza sereni. Tanto che neanche le bordate di Torrefranca e di Pizzetti valsero a commuoverlo e ad amareggiarlo profondamente. A proposito di quest'ultimo, non si conosce che qualche arguta reazione verbale: disse una volta a Umberto Giordano: «Noi si scrive per il teatro; lui, per le biblioteche». E di reazioni scritte alle requisitorie dei critici non se ne conoscono che due: la lettera a Giuseppe Adami a proposito di un articolo di Vittori Gui: «È la prima volta che sento rivendicarmi di tante accuse e di tante dimenticanze e omissioni» e, l'altra, una lettera datata da Milano e indirizzata ad Alfredo Vandini, Roma, nel 1915, che si riferisce al Torrefranca e che dice «Leggi il caro Torrefranca? Bella scarica di legnate, ci vorrebbe!».
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Semplice uomo - anche le legnate sono un modo semplice di risolvere una questione - e guardato con simpatia dalla Fortuna, Puccini non era dunque affatto succubo della paura che Verdi aveva denunciata, presentendo quanto sarebbe stata esiziale a molti artisti. E davanti all'accusa che gli si rivolgeva di essere soltanto operista, e non anche sinfonista e compositore di musica «pura», si protestava a don Panichelli «Musicista impuro» ribadendo tutto il suo amore e la sua fede nella musica scenica e insistendo nell'aforismo: «Ci sono leggi fisse in teatro: interessare, sorprendere, commuovere.» Poi: «Dicono che è segno di debolezza il sentimento. A me piace tanto essere debole. Ai così detti forti lascio i successi che sfumano. A noi, quelli che rimangono».
Riassumendo: questo che accadeva a Puccini e ai suoi correligionari coetanei, e ai suoi successori nell'ordine della grande tradizione operistica, non era forse accaduto anche a Verdi? Quando io, nel 1905, entrai al Liceo Musicale di S. Cecilia di Roma, e Verdi era scomparso da quattro anni, non tirava, forse, in taluni circoli di certa élite musicale, aria di fronda contro di Lui? E chi erano gli Arcais e i Filippi del suo momento, se non i precursori di quei ridimensionati d'Arcais e Filippi ai quali Puccini urtava i nervi, ma dei quali per altro nè aveva paura, nè minimamente si preoccupava?
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La petizione, anzi l'ansia del Rinnovamento fecero dunque così, che esso fosse affrontato nel campo del teatro non già come un problema di natura squisitamente spirituale, di contenuto, di significato intimo e trascendente la finzione scenica; ma come un freddo calcolo di forme, di generi, di tecnica armonica e istrumentale e - con l'andar degli anni - addirittura di linguaggio.
In tal modo, ad onta della crescente popolarità di cui Verdi e Puccini - i due grandi campioni - godevano anche oltre i confini e oltremare, le più grandi conquiste che, equilibrandosi, avevano durante tre secoli perfezionato l'organismo del Melodramma, venivano neglette e lasciate in disparte. Il nobile tormento dei restauratori dell'antico e dei ricercatori cerebrali del nuovo si rifletteva fatalmente nella produzione, e diventava un tormento anche per chi li ascoltava.
La spontaneità era così frenata e soppressa dai preconcetti teorici e dai dogmi ironizzati da Wagner; la chiarezza, offuscata dalle paure fustigate da Verdi e dalla carenza di autocritica. E veniva ribattezzata - anzi sconsacrata - con la formula dispregiativa «Effusione lirica» la invenzione melodica: la capacità, cioè tutt'altro che comune, d'inventare belle melodie specialmente vocali e diverse da quelli dei nostri padri, dei maestri, cioè, della scuola Verista; melodie nuove, viventi del respiro, dello spirito, del ritmo del nostro tempo e della nostra porzione di secolo; ma melodie e declamati sostanziali di musica, cioè nati da una idea musicale: che dessero modo agli artisti interpreti (e negli italiani il canto è connaturato, anche quando non ne conoscono nè la grammatica nè l'alta tecnica) di cantare.
La cospicua, la gloriosa eredità lasciataci dai nostri Padri perchè la mettessimo a buon frutto, così come essi avevano messo a buon frutto quella ricevuta dai grandi Quattro dell'Ottocento, veniva, dunque, in sostanza, respinta con superbiosa sufficienza.
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Ma, come la Natura, neanche l'evoluzione delle Arti 'facit saltus' (per quello che, dopo le clamorose scorribande, rimane poi di vitale, di autentico, di inanellato e necessario alla secolare catena).
E il risultato finale di questo accanimento iconoclasta, fu che il meraviglioso equilibrio, frutto dell'esperienza e della spontanea evoluzione artistica di tanti secoli e di tanti genî, veniva rotto ad un tratto. Parlo dell'equilibrio raggiunto da Verdi nel Falstaff, da Puccini nella Bohème, nel centro del IIº e nell'apertura del IIIº atto di Tosca, in Madama Butterfly, in Turandot; da Mascagni in Cavalleria Rusticana e in molti altri episodi di Iris, de Le Maschere, di Parisina; da Giordano nelle pagine più forti di Andrea Chénier e di Fedora; dal niente affatto verista Wolf-Ferrari nei Quatro Rusteghi.
Meraviglioso, perfetto equilibrio fra vocalismo e sinfonismo, fra recitativo ed Aria, fra epoca, luogo, vicenda scenica e atmoslera musicale: equilibrio al quale solo il Melodramma italiano aveva saputo giungere con un gruppo cosi folto di opere tanto ricche di vitalità e di comunicativa (perchè non lo si può certo riconoscere, questo perfetto equilibrio nè a Wagner, nè a Debussy, ne a Strauss).
Veniva rotto questo equilibrio meraviglioso, dall'uno in favore del sinfonismo e a danno della troppo comune vocalità; dall'altro in favore del recitativo o declamato perpetuo musicalmente arido e statico e a dispregio della vituperata «effusione lirica»; da altri ancora in ossequio a mode e a modi forestieri del tutto estranei al nostro sentire, a ripudio del «vieto pregiudizio» dell'italianità.
La denigrazione dei Puccini, Mascagni, Giordano ecc., non potendo operare sulle loro fortune, già solidamente affermate, raggiungeva invece pienamente il suo scopo negativo nei riguardi dei loro successori, molti dei quali avversi al verismo, ma fedeli alla tradizione e solleciti del rinnovamento - nelle tradizioni - del Melodramma italiano.
Alla applicazione rigorosa - in alcuni casi addirittura cannibalesca - dei criteri esclusivisti ricordati, e così eloquentemente illustrati da Orazio Vecchi e da Riccardo Wagner, si accompagnava, nel nostro mondo organizzativo ufficiale, una totale indifferenza agnostica davanti alle nuovissime forme di spettacolo che clamorosamente si affermavano, come il cinema con i suoi grandiosi film, e la Televisione con i suoi telequiz.
Qui bisognava in qualche modo, almeno, cercare di fronteggiare il nuovo pericolo con coraggio (ma il coraggio non nasce che dalla fede) con fantasia, con qualche trucco, magari, che valessero a difendere questo illustre, glorioso Istituto che è il nostro Teatro Lirico, e ciò non avvenne.
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Come inevitabile conseguenza di una così imprevidente politica artistica, ecco, da più di venti anni, ma specialmente in questo dopoguerra, prodursi una grave frattura fra questo genere d'arte e il pubblico pagante.
Fin che si tratta delle generazioni mature e delle anziane, le quali vivono anche di ricordi, pazienza. Ma l'aspetto più grave e minaccioso di questa mai prima verificatasi frattura, consiste nella incomprensione e nella quasi incompatibilità che si manifestano sovente contro tale genere, nelle giovani generazioni dei nostri figli e nipoti.
Parliamone, di queste nuove generazioni. E domandiamoci innanzitutto: hanno esse ascoltato davvero e totalmente l'invito di voltare le spalle, di ribellarsi contro gli operisti della scuola verista italiana?
Per quanto riguarda Puccini, no. Si deve dire che ciò non è avvenuto. Dell'ancora accogliente, dell'ancora pronta sensibilità delle nuove classi alle voci del Melodramma nazionale, derivato, cioè dalla grande tradizione, proprio le opere di Puccini mi hanno offerto l'indice.
Da me interrogati, alcuni giovani, mi hanno risposto: per la Bohème; «La morte di Mimì mi ha fatto piangere, ma il Colline non si mostra abbastanza filosofo, con quella sua zimarra». Per la Fanciulla del West: «Come western, ci sono troppo poche schioppettate, e poi non è abbastanza cinema». Per Suor Angelica: «È troppo dolciastra e caramellosa». Ma Butterfly, Il Tabarro, Gianni Schicchi, Turandot li conquistano, li tengono pienamente.
È già molto. È un segno di ricettività che conforta a sperare, anzi ad avere fede in queste nuove generazioni. Ma non bisogna chiedere troppo ad esse, come oggi si chiede. E nessuno ha il diritto di scandalizzarsi del loro atteggiamento genericamente negativo; perchè del Teatro lirico si offre loro, oggi, quasi esclusivamente il vecchio abusatissimo repertorio, o pezzi archeologici di esclusivo interesse erudito e libresco, o «novità» nella grande maggioranza negative.
Non si deve chiedere troppo alle nuove generazioni, se vogliamo invitarle al teatro lirico ed istillare ad esse l'amore che noi nutrimmo e che nutriamo per il Melodramma.
Perchè quarant'anni (tanti ne ha Il Tabarro), o più di sessanta (tanti ne hanno Falstaff e La Bohéme), e settanta (tanti ne ha Otello), sono già parecchi; sono già miracolosa longevità di opere d'arte.
Ma ottant'anni, un secolo, un secolo e mezzo, due addirittura, tre secoli di distanza (con la profluvie delle inutili e costosissime esplorazioni archeologiche di cui si è detto) fra lo spettatore e la scena sono davvero troppi, assai sovente, anche per noi anziani, anche per i meno anziani di noi.
L'umorismo involontario di certa retorica scenica, poetica, musicale ottocentesca è irresistibile, talvolta, anche per noi, mostri di buona creanza, di saggezza, di musoneria, e foderati di tabù accademici e storici; figurarsi se non lo è per gli spiriti dei nostri giovani figli e nipoti: spregiudicati, irrequieti, frementi di carica vitale, esenti da timor reverenziale, amanti delle cose spicce, delle sintesi, dei cardiopalma sportivi. Chiedere ad essi un atteggiamento diverso, una più lunga pazienza, sarebbe come pretendere che, in letteratura, si fermassero ai romanzi di Fénelon, De Foe, Swift, Manzoni, d'Azeglio, Cantù, Guerrazzi, Walter Scott, Victor Hugo, Flaubert, Alexis, Sudermann, Raabe, ecc.
Ora ritornando all'apparente realtà, cioè all'anacronismo in cui ci hanno cacciato i piloti del nostro Melodramma, proprio perchè attraverso Puccini - a preferenza di ogni altro suo contemporaneo - noi abbiamo la certezza dell'interesse e dell'amore che il Teatro Lirico può ancora destare nelle nuove generazioni, bisogna correre ai ripari. Bisogna superare e saldare la frattura che, nelle menti dei giovani, investe indiscriminatamente l'intero genere Opera Lirica.
E non v'è che un rimedio.
Il rimedio è di aggiornare i repertori dei teatri lirici con onestà, con coraggio, con discernimento; e dare sulle scene la preminenza alle opere moderne e contemporanee vagliate e consacrate da ripetuti successi di Pubblico e dalla critica qualificata indipendente più autorevole.
Occorre dunque innanzi tutto, e con carattere di urgenza, che i nostri Enti lirici si decidano ad una sistematica, concorde, opera di revisione - una specie di bilancio consuntivo - inteso a stabilire «il punto» del Teatro lirico contemporaneo italiano.
Questa azione dovrà essere svolta - all'infuori di quelle influenze estranee (editoriali, salottiere, politiche, burocratiche, personalistiche, o cannibalesche di 'clans' strapaesani e internazionali) che hanno condotto alla catalessi e al confusionismo odierno - con la scelta coscienziosamente accurata e motivata (fra i due o trecento Melodrammi che dal principio del secolo si sono succeduti nelle nostre grandi scene) di quei quindici o venti spettacoli - non credo siano di più: ma questi esistono: patrimonio e testimonianza di vita non trascurabili - che, passando attraverso i vagli del tempo, delle mode, delle polemiche, e riuscendo a navigare controvento, rispetto ai dirigismi ufficiali, si sono dimostrati particolarmente dotati di qualità teatrali, di comunicativa, di vitalità; e che debbono essere finalmente e stabilmente chiamati a rinsanguare e a rinnovare il grande repertorio lirico nazionale.
Precisamente come si faceva una volta, fino a trent'anni fa. Ricondurre energicamente il nostro teatro lirico al nostro tempo; alla sua funzione artistica e civile dei nostri anni: alla sua socialità di sempre, mettendolo finalmente d'accordo col calendario e con l'atmosfera spirituale e nervosa dei nostri giorni.
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Questa finalità, tutt'altro che irraggiungibile, se lo si voglia, - l'unica veramente costruttiva - non è stata mai, fino ad oggi, suggerita, nè sistematicamente perseguita.
È questa una delle ragioni - la più grave, certo - della stasi attuale, del disinteresse dei giovani, dell'isolamento e del tendenzioso deserto spirituale che si è venuto formando intorno alla zona tenuta dai sempre acclamati esponenti della Scuola verista e di Puccini in ispecial modo.
Questa è una delle ragioni per le quali, del Medramma e di Puccini, che fra i suoi coetanei occupa il primissimo posto, la gente dice: «Del moderno melodramma non è rimasto che Puccini».
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Questo fatto estremamente significativo dipende dunque dalla solitudine nella quale Puccini è stato lasciato e da quel tale livello medio della produzione odierna, che, per quantità o per qualità, si è troppo più abbassato di quello che sarebbe avvenuto se l'amministrazione morale del nostro patrimonio contemporaneo fosse stata più osservante dei diritti di questo e più riguardosa anche verso il pubblico pagante.
Ma dipende anche dalle altissime qualità teatrali della sua musica, dal magnifico mestiere col quale Puccini trattava le voci e l'orchestra; dal sicuro istinto che lo guidò nella scelta dei libretti, dalla varietà di atmosfere e di paesaggi che sempre inventava Per i suoi drammi, dalla potente e sempre crescente attrazione che le sue opere esercitano sulle folle, così da farcelo apparire oggi, per la fedeltà che gli serbano i pubblici e per la vastità della diffusione, come il successore - nel cuore delle folle - di Verdi.
E, come sembra a molti, - sempre più bello.
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Tanto viva e penetrante è questa impressione, da essere avvertita e confessata non soltanto da osservatori anonimi, ma anche da artisti di alta autorità, di fama mondiale e di gusti avanzatissimi. Parlo del più grande compositore di musica oggi vivente.
Questa veridica istoria la ho già raccontata; ma voglio ripeterla a voi, perchè - oltre a essere ai nostri fini edificante e originalmente celebrativa - non manca di malizioso umorismo.
Avvenne a Venezia nel settembre del '56.
Accompagnati da Aldo Camerino, scrittore fra i più equilibrati e obbiettivi, alcuni esponenti italiani della tendenza dodecafonica si recarono a visitare, per intervistarlo, l'autore illustre della quasi dodecafonica cantata in onore di S. Marco. (perchè non lo è proprio in ogni sua pagina, dodecafonica; e, anche dove lo è, difetta in essa la stretta osservanza).
Per circa un'ora la conversazione filò nel più piacevole e confortante dei modi, per gli zelatori del verbo schoenbergiano; perchè il grande Igor si dichiarava in tutto d'accordo con i suoi giovani interlocutori.
E se essi si mostravano, come è naturale, molto aggiornati e convinti della urgente necessità di una ben decisa svolta a sinistra di tutta quanta la musica, egli, lo Strawinsky, si mostrava a sua volta disposto a batterli in volata, facendo intendere che, in caso di bisogno, sarebbe stato capacissimo di essere molto più sinistrorso di loro.
La Cantata in onore di S. Marco, del resto, quasi dodecafonica, che aveva composta e che avrebbe diretto quasi gratis, per essi (diciassette milioni di lire per diciassette minuti di musica) nella Basilica insigne, non era forse sufficiente caparra?
Tutto a meraviglia, dunque; tutto stupendamente bene, nei primi 49 minuti di conversazione. I giovani dodecafonisti erano felici, orgogliosi, commossi, estasiati di poter annoverare, fra i difensori anche teorici della loro causa, fra i preconizzatori della indispensabile e improcrastinabile svolta a sinistra, un alleato di tale calibro.
Senonchè, negli ultimi tre dei 52 minuti, al momento del congedo, venne in mente all'intervistatore dott. Aldo Camerino di domandare a Igor Strawinsky: «E adesso, Maestro, c'interesserebbe moltissimo sapere da Lei quali siano, oggi, le opere e i compositori che preferisce, e che ama sopra tutti gli altri».
Al che, serenamente perfido e diabolicamente angelico, Igor Strawinsky rispose: «Oh, cari amici, vi dico la verità che più invecchio, più mi convinco che la Bohème è un capolavoro; e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello».

ADRIANO LUALDI