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ADRIANO E MANER LUALDI



FERNANDO L. LUNGHI

LUMAWIG E LA SAETTA
AL REALE DELL'OPERA DI ROMA


IL GIORNALE D'ITALIA,
Roma, 24 gennaio 1937


Ermanno Wolf-Ferrari, con Il Campiello tiene fede al suo credo artistico e resta fedele a Goldoni. Questa volta è stato Mario Ghisalberti che ha ridotto a libretto l'ornonima commedia goldoniana.
Le casette che ricingono e delimitano il Campiello lasciano vedere, fra altane e comignoli, poco cielo. In questo spazio di corte i personaggi vivono quasi a contatto di gomito e le gelosie ed i contrasti s'accendono e si spengono con intrecci vivaci. L'azione è fatta di innesti, di frammenti, di incisi, gustosissimi. La parola è protagonista: la battuta, la risposta, il cicaleccio, animano, con vivo contrasto, la sonnolenta quiete della piazzetta: il frastuono vi passa ad ondate.
Questa azione, che attraverso tre atti si spezzetta sulla scena, è legata, intessuta dalla musica come da smaglianti e serici fili, senza nodi, senza falli, fluidi e variopinti.
Maner Lualdi, ha ideato un balletto che si stacca alfine dal convenzionale ed ha aperto un nuovo orizzonte a questa forma d'arte che sonnecchiava nella comoda falsariga di vecchi canoni.
Tutto è così chiaro e tutto è così divertente in questa vicenda così vera ed umana anche se fantastica, che il godimento è intero e non deve sforzarsi a trovar la via fra rebus e simbolici giuochi di parole incrociate.
Quale sapore quella lotta fra gli dei nubigeni, incantati attorno a Lumawig distributore di fulmini, e i rosso-mattone abitanti dell'isola irreale come le nubi e gli dei! Come è divertente quel regista del cielo che spegne e stacca la luna, a fine notte, ed accende ed attacca il sole a nuovo giorno!
E che trovata ironica, non più fantastica ma purtroppo umana, in quell'assalto all'Olimpo in cui le donne metton da parte e sostituiscono i guerrieri, che sarebbero certamente sconfitti, e riescono, non occorre dirlo, a sconfiggere invece gli dei, a far scendere Lumawig dal suo trono nebuloso, disarmarlo, a polverizzarlo con la sua stessa arma.
La danza diviene una necessità espressiva di questa azione. Essa esprime il sentimento, non lo interpreta; e però vive di realtà e non è relegata al compito di quadro plastico semovente. È con l'ambiente e la musica una sola cosa.
Ma questa azione e questo ambiente che, creato dai bozzetti di Cito di Filomarino, è nel primo quadro sprofondato in una foresta che sembra subacquea, fra luci strane e vegetazione trasparente di misterioso effetto e nel secondo si inciela fra stelle infantili e infantili nubi d'un paradossale gustosissimo, trovano la loro più compiuta essenza nella musica.
Il maestro Adriano Lualdi ha creato una musica che pure essendo aderentissima all'azione e, come dicemmo, elemento essenziale e vivificatore di essa, ha un valore intrinseco di superiore essenza.
Il musicista ha seguito il librettista in quest'opera di rinnovamento del balletto e lo ha forse superato. Giacchè le danze sono altrettanti brani sinfonici.
Ciò significa che la musica vive essa stessa, con i suoi soli mezzi, l'azione; di questa non è solo complemento e tanto meno commento, e delle danze non è la solita ancella oscillante sul metronomo.
Dall'inizio alla fine la musica ha una sua conseguenza logica di sviluppo ed una sua eloquenza di rappresentazione, progressiva.
Le idee musicali creano il ritmo, non sono schiave del ritmo. E in un balletto è questa una novità indiscutibile. Così come il coro è una novità la cui efficacia deve aver sorpreso anche l'autore che pure doveva bene immaginarne l'effetto. È il coro che crea quasi un terzo volume e dà un insospettato calore e una più vasta architettura ai ritmi del balletto.
Questa musica, così nutrita di chiara cantabilità e di gustoso modernismo, vive attraverso uno strumentale i cui coloriti si staccano fra pennellate varie, vivaci, ben definite, ben disegnate. C'è in questa partitura una unità di respiro che mai è mozzato dalle audacie armoniche e istrumentali, ma ne è come reso più fresco. Giacchè queste audacie non saltellano come fuochi fatui sospesi nell'aria ma sono altrettante scintille di un nutrito fuoco. Hanno una loro logica ragione così come la hanno i ritmi che non ricercano la varietà nella spezzettatura di un'instabile mutare di misure ma nella ricchezza degli elementi di una stessa misura. Ne risulta la varietà nell'unità.
Adriano Lualdi con questo balletto ha arricchito la sua produzione di un lavoro che è vivo e vitale e riconferma il suo alto valore di musicista moderno e sano.
Il balletto ha avuto una esecuzione curata in ogni particolare. Tutti hanno gareggiato in bravura: Piccinato con la regia e Romanoff con la coreografia. Attilia Radice (Habima) ha danzato con quella sua squisita eleganza e ha dato vita plastica al personaggio.
Ottimi Morucci (Venka) e Morresi (Il capo dei Guerrieri). Bene Padoan (Lumawig) e la Dubbini (Una voce).
Coro e corpo di ballo affiatati e sicuri. Di grande gusto ed originali le scene su bozzetti di Cito di Filomarino; molto belli e fantasiosi i costumi della ;Casa d'Arte» di Roma.




TULLIO SERAFIN E ADRIANO LUALDI

Il successo è stato vivissimo. Numerosissime chiamate al maestro Lualdi che è stato fatto segno a calorose dimostrazioni ed è apparso alla ribalta con Serafin, Maner Lualdi e Cito di Filomarino.
Tullio Serafin ha tutto vivificato con un ardore, una genialità, una superiore arte, che testimoniano non solo il suo alto valore di concertatore e direttore, ma ancora una volta la profonda fede che egli ha nella nostra musica e nei nostri musicisti.

SANTI SAVARINO

LA STAMPA, Torino,
24 gennaio 1937


Il nuovissimo balletto Lumawig e la saetta rappresentato stasera per la prima volta in Italia al «Teatro Reale dell'Opera» ha tutti i caratteri tradizionali e accademici dei genere. La nuova teoria di Serge Lifar è ancora lungi dal trovar consensi nei musicisti moderni e non soltanto negli italiani.
Su una leggenda negra di quel genere ibrido che affianca e sovrappone senza fondere elementi realistici ed elementi fantastici, il maestro Adriano Lualdi ha scritto una partitura ricca di elementi vitali, in cui si nota anche se talvolta pesante come qua e là nel primo quadro, la mano robusta e sicura di un compositore scaltrito e dotto. Pagine di chiarezza mediterranea si alternano a pezzi di bravura su motivi esotici in cui l'abilità dello strumentatore si esercita con gusto senza sbizzarrirsi troppo: questi elementi si sovrappongono e tentano di fondersi e spesso vi riescono, specialmente nel secondo quadro in cui il ritmo assurge a potenza espressiva predominante travolgente e la vince sulle contaminazioni armoniche e timbriche. In vari momenti di questa seconda parte l'autore è riuscito difatti col suo dinarnismo musicale a suscitare quelle emozioni d'ordine fisiologico che sono assolutamente essenziali in un balletto.
Qui il disegno delle situazioni è eccellente; il grottesco è sapido ma non esorbitante; l'orgia è festosa ma non pazza. Siamo nel campo dell'impressionismo; ma gli estrosi elementi coloristici sono trattati con mano abile e discreta, con intelligenza e maestria, cioè senza quella pericolosa confusione di linee e quell'eccesso di tinte e di toni che frantumano l'essenza dell'arte e ne smarriscono il senso. L'accenno di qualche smargiassata non fa che mettere in maggior rilievo le pagine di sicuro equilibrio e di solida consistenza che non sono poche. Le voci e il coro che talvolta si fondono con l'orchestra non aggiungono gran che: servono a rendere più varia la partitura, non più efficace.
La coreografia del Romanoff non brilla per eccessiva chiarezza; tuttavia il movimento è ricco e vario, e la prima ballerina Attilia Radice e il primo ballerino Morucci hanno avuto modo di distinguersi nettamente.
Il balletto, diretto con elegante e festosa disinvoltura da Tullio Serafin, ha avuto pieno successo. Autore e interpreti alla fine sono stati evocati più volte fra vivi e insistenti applausi.

SAVERIO PROCIDA

LUMAWIG E LA SAETTA
AL SAN CARLO DI NAPOLI

ROMA, Napoli,
4 febbraio 1938


Del balletto Lumawig e la saetta sapete la fantastica azione, inventata da Maner Lualdi, che da baldo aviatore della Disperata, quale s'è affermato nella guerra dell'Africa orientale, ha posto l'azione del suo dio feroce tra nuvole e cieli tempestosi. Perchè Lumawig sia tanto crudele e micidiale la leggenda non ci dice. Ma la ferocia del dio è un ottimo pretesto per inscenare un piano di vendetta di Habima, moglie del saettato Wenka, e la scarica del temporale, l'attacco al saettante, finchè costui non sia disarmato dalla lussuria delle danzatrici e sprofondi nel nulla, sono utili pretesti per movimentare una massa procace in delirio - e dare il modo ad Adriano Lualdi di scrivere una musichetta arguta, estrosa di ritmi, graziosissima di effetti timbrici, ricercati con gusto e fantasia pittoresca. La partitura è così piacente a udire, l'umore vi domina nella descrizione e nell'intreccio delle figurazioni, che non sappiamo davvero per quale ragione sia dispiaciuta a un gruppetto di tradizionalisti, i quali forse ancora credono che i moderni compositori dei balletti debbano scombicchierare polchette alla Dall'Argine, marcione barocche, cantabili barbosi affidati alla cornetta.
Il pubblico di sana costituzione - maggioranza assoluta - reagì contro codesti sciacalli della platea e del lubbione con vigorosi battimani, che ricondussero al proscenio l'ottimo direttore Sabino, l'eccellentissima Ileana Leonidoff - la quale con gusto e spirito d'arte ha disposto le coreografia e composto le figurazioni - la valentissima Bianca Gallizia, squisita danzatrice nella parte di Habirna, la vezzosa e brava prima danzatrice Minnie Eva, l'esemplare mimo Tony Corcione, il bravissimo Gennaro Corbo.

GUIDO PANNAIN

IL MATTINO,
Napoli, 4 febbraio 1938


Maner Lualdi ha immaginato un'azione di fantasia. Si è staccato dalla realtà e si è tuffato nel favoloso da cui ha evocato visioni estrose. Non è la trama quella che conta, non il «fatto», del quale nei balletti poco ci si cura, ma i valori fantastici dell'immaginazione in quanto si traducono in quadro scenico e si risolvono in oggettivazione ritmica e sonora.
Adriano Lualdi ha composto una musica colorita e vivace in cui l'elemento sinfonico, nel senso di puro giuoco di valori strumentali, prevale su quello ritmico di danza, una orchestrazione di suoni connessa all'orchestrazione del quadro scenico; contrappunti di movimenti, alieni da realismo descrittivo, animati da una concretezza di vita ritmica che è come la spina dorsale del timbro. È questa una delle partiture più ricche del Lualdi, abbondante di sonorità preziose e di combinazioni attraenti.
Con questo suo balletto, Adriano Lualdi ha arricchito un repertorio che, in Italia, è scarso.
L'esecuzione d'orchestra e di palcoscenico è stata all'altezza d'un grande teatro: scene, luci, costumi, coreografia, movimento scenico, tutto in piena armonia e in giusto risalto. La prima ballerina Bianca Gallizia ha messo nuovamente in evidenza le sue artistiche doti.
Anima musicale di tutto lo spettacolo sia dell'opera sia del ballo, è stato il maestro Antonio Sabino.

GIULIO CONFALONIERI

LA PATRIA, Milano,
30 maggio 1956


La seconda recita di Werther, avvenuta ieri sera alla Scala, si è fatta precedere dalla rappresentazione di una «novità per Milano»: ossia da Lumawig e la saetta, fantasia mimo-coreografica in un atto e tre quadri di Maner Lualdi con musica di Adriano Lualdi. Dei due Lualdi, come tutti sapete, Maner è il figlio e Adriano il genitore.
A conoscerli, però, non si direbbe. E questo, non perchè essi non si adorino come prescrive la pietà filiale e suggerisce l'istinto paterno, ma perchè fra di loro non si avvertono distanze, distanze di anni, di gerarchia, di costumi e di gusti. Adriano e Maner hanno del Castore e Polluce, dell'Achille e Patroclo piuttosto che dell'Anchise ed Enea. Anche il lungo intervallo segnato fra i loro nomi (Adriano così imperiale e magnanimo, Maner un poco salgariano) viene annullato dalla grande amicizia, dalla grande «camaraderie» che lega il producente al prodotto.
Entrambi coltivano il piacere dell'avventura, del rischio; e se Maner si butta a volare in condizioni temerarie, Adriano si butta a comporre, non di rado, con l'intenzione di vibrar colpi assassini. Ancor giovanissimo con Le furie di Arlecchino, più tardi con Il diavolo nel campanile, oggi con Lumawig e la saetta, Adriano Lualdi ha cercato di imprimere scossoni al conformismo musicale e (cosa molto importante) lo ha sempre fatto senza ricorrere a quei sistemi matematici, farmaceutici, digiunatori e, in fondo, bigotti, ch'egli stesso, una volta, raggruppò definendoli «Accademia del mezzo lutto».
Una faccia della complessa personalità di Lualdi (ci son poi La figlia del re Sire Halewyn, la ancora inedita Isola dei beati, ecc.) una faccia atteggiata in riso sardonico, illuminata da una luce monellesca. Così pure avviene di Maner; con la differenza che mentre la 'gavrocherie', di Maner è soprattutto fantastica, paradossale, un po' astratta, quella di Adriano risulta più bonaria ed ha sempre un sottofondo lirico, un occultamento di focosa poesia.
Lumawig e la saetta fu dato già con grande successo a Napoli e a Roma.
Più che un ballo, è una composizione scenico-musicale dove danza e mimica hanno parte preponderante, ma dove intervengono, con forte impegno, anche le voci, sia voci corali, sia voci «sole » in orchestra. C'è poi un vasto, complesso impianto sinfonico che regge e compone ogni vario elemento. La vicenda, ispirata ad un racconto negro, è stesa da Maner in una specie di libretto spassosissimo, scritto con una 'verve', con uno spirito, con una ricchezza d'immagìni veramente notevoli.
In una solitaria foresta, il popolo umano dei Bicolori e il popolo animale delle giraffe, degli elefanti, degli orsi, dei serpenti ecc,, vivono in buona armonia, con leggera preponderanza dell'ultimo in quanto a serietà, saggezza e senso dell'ordine. Sono due popoli senza dèi, i quali, un disgraziato giorno, sono presi dalla smania di averne e, attraverso messaggeri, ottengono che. l'Olimpo, a bordo di una nuvola-pullman invii loro modelli di numi assortiti: Hermes, Dioniso, Afrodite, Apollo, Giove, Re Bicolore III perde la testa: l'idea di poter disporre di fulmini e regolare la meteorologia come Zeus, lo affascina.
Compra un paio di saette e s'invola nei cieli, indiandosi. Una volta divinizzato e assunto il nome di Lumawig, che in lingua bicolore vuol dire appunto Giove, Re Bicolore III si diverte a provare la propria potenza e incomincia col fulminare un bravo giovanotto, amante riamato di Habima. Senza saperlo, corre alla distruzione.
Perchè Habima, contro il terrorismo dei dardi celesti erge il terrorismo della propria bellezza muliebre, rinforzandola con la bellezza di certe sue compagne, di lei non meno procaci. La fanciulla si mette a danzare sotto la nuvola superba di Lumawig. Lumawig, per un po' fa l'indifferente; poi abbandona la sua sede eterea e discende per osservare più da presso i mezzi di cui Habima dispone. Nell'entusiasmo della osservazione lascia cadere le preziose saette; Habima è pronta a raccoglierle e, scagliatele contro il cielo, rompe l'incanto.
Il re-dio sparisce, annichilito, dissolto, e la foresta, col suo doppio popolo, ritorna libera da monarchi dittatoriali e da dittatori divinizzati. L'entusismo è al colmo; più fra gli uomini che non fra gli animali, essendo che questi, sin dal principio, avevan preso le cose con maggior calma, con maggior spirito di critica e con maggiore prudenza.
Su questa trama divertente mordente e, non priva di qualche blanda allegoria, Adriano Lualdi ha costruito una partitura divertente e mordente. Una partitura istrumentata con mano sicurissima, non di rado assai personale, dove la concezione, francamente moderna, non toglie diritti alla invenzione musicale nel senso classico della parola. Sopra tutto là ove Lualdi può espandersi in forme distese, la composizione, innervandosi, diventa ricca e, al di là della lettera apparente, presenta un contenuto originale, che non sapremmo francamente incasellare e definire, se non nella casella e col nome del suo autore.
Pensiamo, scrivendo, alla Sarabanda di Apollo («omaggio a Ermanno Wolf-Ferrari») con quel suggestivo impasto di arpe e quella tonalità oscillante fra re bemolle» e «la bemolle»; alla Mazurca di Dioniso («omaggio a Ladislao Sugar»), al Valzer di Afrodite (« omaggio a Guido Valcarenghi»), alla musica istrumentale e corale che accompagna il raccolto dei frutti, alla bellissima Passacaglia finale in «cinque quarti».
Diretto da Adriano Lualdi medesimo, Lumawig e la saetta si è avvalso di scene e di costumi disegnati da Nicola Benois con fiabesco sapore e animati da effetti propriamente magici. La regia, di Maner Lualdi, è riuscita gustosissima, evidente, precisa; la coreografia, disposta da Ugo Dell'Ara ha dimostrato ancora una volta la cultura, l'intelligenza, la sensibile attenzione di questo artista.
Gli interpreti scenici sono apparsi tutti espressivi, aggraziati, agili, convinti del loro lavoro, a cominciare dallo stesso Dell'Ara (Lumawig) per procedere con Vera Colombo (Afrodite), Giuliana Barabaschi (Habima), Giulio Perugini, Roberto Fascilla, Walter Venditti, Bruno Tellolì e Aldo Santambrogio. Il Coro, istruito dal maestro Arnaldo Mantovani, ha cantato con sonorità eleganti e con plasticità di ritmi.

VINCENZO BUONASSISI

LA NAZIONE ITALIANA,
Firenze, 30 maggio 1956


Lumawig e la saetta azione scenica e coreografica di Adriano e Maner Lualdi, è andata in scena questa sera alla Scala con un chiaro e convincente successo. Malgrado la definizione diversa, noi diremmo che il primo merito di quest'opera è di costituire un vero balletto, forse non secondo la tradizione accademica, ma nello spirito di una ricerca attualissima; ritorno alla danza, anche alla pantomima, come strumento di un linguaggio nuovo in cui non esiste virtuosismo fine a se stesso, ma si ritrovano i simboli e i valori irrazionali del nostro tempo. Insomma, un modo di esprimere la realtà senza il filtro della parola, per un contatto di sensibilità che si potrebbe paragonare a una corrente elettrica.
Per questa via il balletto moderno sta raggiungendo nei paesi anglosassoni e man mano anche da noi, un progressiva popolarità in quanto si manifesta oggi in una forma che consente una maggiore partecipazione e immedesimazione individuale a cerchie sempre più vaste di spettatori. Si è visto in questa evoluzione un possibile influsso della musica negra. E qui il discorso ricade subito su Lumawig e la saetta. Il mondo negro infatti, il mondo barbaro, primitivo, è uno dei protagonisti dell'azione e si riflette apertamente nella musica; cercheremo ora di dire come si sviluppano l'una e l'altra per trarne qualche conclusione.
Maner Lualdi propose al padre nel 1935 il libretto di un ballo in cui opponeva al Giove indigeno, Lumawig, possessore della saetta, la sfida umana alle potenze della natura non ancora soggiogata e circondata di un alone magico. Lumawig sarà vinto dalla tribù in un solo modo: quando egli stesso avrà un attimo di debolezza, e cederà alle lusinghe del sesso, rappresentato dalla danza lasciva delle giovanette della tribù. Scenderà dal suo piedestallo, cercherà di afferrarne una, ma intanto lascerà cadere il fascio delle saette e perderà ogni potere. In verità il Giove ellenico si concedeva ben altri trascorsi, senza rimetterei le saette. Ma Lumawig appartiene ad un'altra favola, e nel mondo barbaro, come in tutto il saggio Oriente, la contrapposizione avviene proprio fra la salita ascetica dell'uomo verso poteri sovrumani e l'agguato del sesso.
Adriano Lualdi fece eccezione alla consuetudine di preparare per proprio conto libretti, e musicò il ballo, che andò in scena nel 1937 all'Opera di Roma incontrando pieno favore, tanto che l'anno dopo fa ripreso a Napoli. In seguito rimase però dimenticato. Forse era ancora uno spettacolo troppo in anticipo sul gusto del tempo. Con una spregiudicatezza formale e una ecletticità che pochi avrebbero potuto permettersi, Adriano Lualdi aveva introdotto nella sua musica temi ispirati alle scuole più diverse, ma sempre efficaci: dall'impressionismo ai romantici, dai dodecafonici al puro jazz, con il coro usato in funzione onomatopeica, come uno strumento dell'orchestra. Vi portò anche una freschezza di ispirazione, una carica emotiva, una strumentazione raffinata, che legava l'ordito del ballo con la maggiore semplicità e felicità di modi.
Dopo la guerra, i viaggi avventurosi di Maner Lualdi lo portarono a contatto con mondi da lui solo indirettamente citati nel ballo. Egli allora si convinse che l'azione descritta nel suo libretto non era che il punto d'arrivo di qualcosa che poteve essere espressa più compiutamente. Nacque così una nuova parte di Lumawig e la saetta che precede la seconda, quella originaria.
Nella nuova versione si parte così dalla foresta, dalla tribù, simbolo dell'umanità allo stato di innocenza, che vive in armonia e mescolanza col popolo dei serpenti, delle giraffe, delle scimmie urlatrici. Incautamente, la tribù vuole i propri dèi, vuol crearsi delle mete; e infatti arriva una nuvola-autobus con i modelli di Apolli, Venere, Dioniso, tutti però inferiori a Giove, che arriva con le famose saette. Solo il re della tribù riesce a toccarle e a resistere, perciò si proclama Dio: Lumawig, ed esercita il nuovo potere con sfrenata cattiveria. Lumawig fulmina il più bravo guerriero, Wenka, solo perchè non si è mostrato terrorizzato alla sua presenza. La tribù sbigottita subisce, ma poi prepara la vendetta, e dove non riescono i guerrieri, lo abbiamo visto, il richiamo del sesso incarnato da Kabima, bellissima fidanzata di Wenka, che verrà restituito alla vita quando l'incantesimo si romperà.
Come si vede, a parte il lieto fine fiabesco, i simboli si moltiplicano. C'è l'ampliamento del contrasto tra la felicità originaria e l'infelicità razionale, c'è il contrasto fra la potenza e il sesso, che aveva una portata chiarissima nel balletto del 1937, ma non ugualmente ora che si mescola agli altri simboli. Sinceramente ci sembra che l'unico punto debole del libretto sia questo, lo sforzo di affastellare molti significati e molti simboli in un premessa che amplia l'orizzonte a dismisura. Una maggiore semplicità avrebbe giovato all'insieme. È però vero, d'altronde, che la traduzione musicale e scenica aiuta largamente a superare questo leggero ingorgo spirituale. La musica della prima parte non soltanto lega perfettamente con la seconda parte, ma ci è sembrata ancora più viva, animata, ricca di timbri e di colore, anche in virtù di un brillantissimo gioco di contrasti.
Adriano Lualdi ha dedicato alcuni interludi alle divinità portate nella foresta come modelli, servendosi ogni volta di temi originali tratti da altrettanti compositori a cui ha inteso rendere esplicito omaggio: Wolf Ferrari, Ladislao Sugar, Guido Valcarenghi oltre a Samuel Taylor Coleridge, che gli è servito per l'entrata di Ciclone Zeus. Gli stacchi di queste parti, nel tessuto acceso e vibrante della musica dedicata alla foresta, producono un singolare effetto.
Resta da accennare all'esecuzione, che è stata in complesso curata secondo le migliori tradizioni della Scala. Dirigeva lo stesso maestro Lualdi, con limpido, giovanile fervore; la regìa di Maner Lualdi ha messo opportunamente in rilievo i vari nodi dell'azione e un certo umore grottesco che circola nella vicenda, dalla nuvola-pullman alla tribù presentata come popolo bicolore. La coreografia era invece affidata a Ugo Dell'Ara, che è stato anche interprete di Lumawig. Dell'Ara ci è piaciuto forse più come esecutore che come coreografo: in questa seconda veste sempre preciso elegante, ma forse troppo stilizzato per un mondo così primitivo e acceso. Giuliana Barbareschi, Giulio Perugini, Vera Colombo e gli altri interpreti sono stati tutti impeccabili, ma non sempre hanno raggiunto quella forza di espressione che si poteva attendere. Cronaca festosissima, successo senza contrasti, sei o sette chiamate alla fine per gli autori e i protagonisti.