MARIO LABROCA

BREVE RITRATTO DI FRANCO ALFANO
E DI G. F. GHEDINI

L'USIGNOLO DI BOBOLI
pp.268-270


Alfano era anche lui [come Giordano] di natura esuberante; a vederlo appariva sanguigno e pletorico sicché veniva fatto di stabilire un rapporto diretto tra la sua natura e la sua musica che tendeva di tanto in tanto a sonorità robuste, a sviluppi macchinosi, ad eloqui solenni e grandiosi. Era un musicista coltissimo e, come tale, diede un forte impulso allo studio serio e profondo della composizione: i suoi allievi (tra essi Antonio Veretti [1900-1978]) entrarono nella musica ferrati e provvisti, le sue opere, come ho già detto, furono un contributo al trasferimento della musica italiana dal piano melodrammatico a quello strumentale, anche se il teatro fu, in definitiva, la sua più viva passione.
Al Maggio Musicale fiorentino feci rappresentare Don Giovanni di Manara, rifacimento di una sua opera giovanile L'ombra di Don Giovanni; alla Scala facemmo eseguire Resurrezione. Alfano amava le sue opere: ogni volta che le eseguivano era presente e se le godeva; vero è che, per quanto riguarda le esecuzioni da me curate, egli ebbe ottimi direttori ed artisti celebri, ma è un fatto che faceva piacere a vederlo, sprofondato in una poltrona con lo sguardo beato rivivere le ore ansiose del lavoro; mi disse infatti un giorno che riascoltare era per lui rivivere le circostanze che avevano dato luogo all'opera, tornare nei luoghi dove essa era stata scritta, annullare il tempo e fare del passato il presente.
Alfano seguiva immediatamente la generazione di Puccini, Mascagni, Giordano: fu diversissimo da loro ma con loro ebbe comune l'ottimismo e la fiducia in sé stesso: lo vedo perciò a far da ponte tra il terzetto dell'opera verista e i musicisti italiani che di Alfano sono quasi coetanei: infatti la sua musica entrava nelle riunioni dedicate alla contemporaneità; non che esse ne costituissero la caratteristica più viva, ma ne rappresentavano l'ala destra, l'anello che la congiungeva all'ultimo respiro del romanticismo tedesco giubilato nell'accadernia della scuola post-brahmsiana.
Un musicista si era fatto avanti negli ultimi venti anni: sale da concerti e teatri gli si aprivano reverenti, allievi ed amici lo accompagnavano fedeli dovunque apparisse un suo lavoro ed oramai, direttore del Conservatorio di Milano, riconosciuto dalla critica tra i nostri compositori migliori, può trarre dalla vita le soddisfazioni che merita. Ma Giorgio Federico Ghedini non è salito in cattedra: degli allievi è amico, degli ammiratori è compagno spensierato, ed è più interessato dalle barzellette che non dai discorsi lunghi e accademici. Ce ne facciamo tante di risate allorché la storiella del giorno arriva rimbalzando fino a lui: ma a un certo momento la sua testa piega leggermente sulla spalla destra e il suo sguardo fissa qualcosa che egli nemmeno sa: noi che lo conosciamo facciamo finta di niente e ci distraiamo discretamente, perché è chiaro che in quei momenti egli si allontana in punta di piedi dagli amici per un rapido appuntamento con se stesso. Pochi secondi ed è di nuovo tra noi con la puntata frizzante e l'osservazione pungente; perché Ghedini non è facile ed è piuttosto duro con quanti, secondo lui, la danno ad intendere.
Difende la sua arte e difende la libertà dell'arte; anche per questo gli sono amico: di contatti artistici ne ho avuti moltissimi con lui, alla Scala quando furono eseguite Le Baccanti (che è per me tra le sue opere migliori), alla Radio quando prendevamo accordi per le esecuzioni dei suoi lavori. Sono i più bei momenti dell'organizzatore cotesti che lo mettono a contatto dell'autore, ed ho degli incontri con Ghedini il ricordo che alimenta il desiderio di nuovi incontri e di nuove collaborazioni. È allora che il suo giudizio acuto e la sua sensibilità si esprimono nei termini più chiari; ma appena sente che il discorso minaccia di farsi troppo lungo e troppo serio si interrompe e dice: «Sai la storiella di quello che... ?». Fa una grande risata prima di raccontartela, ride raccontandotela ed alla fine non si tiene più dalle risate; poi d'un tratto si ferma, la testa chinata sulla spalla, lo sguardo lontano e assente. Si è allontanato in punta di piedi, ha un appuntamento urgente con se stesso.