MALIPIERO
IL DESTRO E L'ESTRO DI MALIPIERO

TRE RITRATTI DI UN GENIO
a cui lo Stato italiano negò la pensione 


© IL SOLE 24 ORE 01/08/1993
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Il curatore del sito ringrazia di cuore la Direzione de IL SOLE 24 ORE per il permesso di pubblicazione.

Il 1º agosto 1973 in un ospedale di Treviso moriva Gian Francesco Malipiero, uno dei più grandi musicisti contemporanei. Lo Stato italiano non gli concesse nemmeno una pensione, anzi la proposta dei senatori veneziani Gatto e Premoli venne affossata dal ministero del Tesoro, dal Governo e anche dal Senato. Eppure si trattava di 65mila lire al mese| In questa pagina ricordiamo l'uomo e il maestro con tre interventi di persone che gli furono vicine e amiche: il poeta Andrea Zanzotto, Vittore Branca e il musicologo Giovanni Morelli. Questi interventi, rielaborati, sono parte di quelli proferiti ad Asolo, nel giardino di casa Malipiero, la sera del 26 giugno scorso nell'ambito degli incontri «I sette giorni della Domenica». A essi abbiamo aggiunto due lettere con non poche venature di rabbia, inviate dal musicista a Vittorio Cini. Dovremmo anche pubblicare le varie fasi del dibattito che hanno accompagnato la bocciatura della pensione. Ma abbiamo deciso di risparmiare al lettore questa vergogna squisitamente italiana. In tempi come i nostri il silenzio vale di più di ogni possibile condanna.

VITTORE BRANCA [**]

RITRATTO DI MALIPIERO

ANDREA ZANZOTTO

LE SUE NOTE, UN PAESAGGIO SELVATICO

GIOVANNI MORELLI [*]

LA POETICA DI UN ETERNO SCONTENTO

Gli asterischi si riferiscono a due citazioni
nella MALIPIERO HOME PAGE

L'animata fervida amicizia, ricca di confidenza e di confidenze, che mi legò per di più di un quarto di secolo a quel «Venezian Grande» che era Gian Francesco Malipiero aveva la sua base in un'ammirazione e in una simpatia profondissime mie per l'uomo eccezionale nella ricchezza di unori e di generosità fulmineo nelle intuizioni e nelle battute.
La stessa nostra collaborazione, infiammata di amore e di passione per Monteverdi e Gabrielli, Willaert e Caldara e la musica veneziana antica, a San Giorgio - il sole della sua età più matura - ebbe la sua partenza da una battuta che me lo portò vicino immediatamente, dopo gli occasionali contatti anteguerra.
Avevamo organizzato - per l'Unesco di cui ero allora a Parigi direttore delle Arti e Lettere - a San Giorgio a Venezia, nel '52, la grande e memorabile conferenza mondiale degli artisti: per riaffermare, contro le tirannidi staliniane e zdanoviane ancora imperanti e le strumentalizzazioni di ogni genere dalla cultura, la irrinunciabile libertà dell'arte e degli artisti. Accanto a Thornton Wilder e Ungaretti per la letteratura, a George Rouault e Jacques Villon per la pittura a Henri Moore per la scultura a Le Coubusier per l'architettura era toccato a Honger e a Malipiero la relazione per la musica. Da grande musicista e da gran scrittore Gian Francesco l'aveva arredata splendidamente e detta elegantemente. Ma una delle tediose e puntigliose congressiste francesi - una delle classiche «emmerdeuses» come le definiva Gian Francesco, che non mancano mai nei congressi - interrompeva ripetutamente con obiezioni e puntigli del tutto vacui. Malipiero in principio rispondeva cortesemente, poi tendeva a tirar via: finché a un grido isterico dell'Erinni «On ne comprend rien», rispose sorridendo, con un leggero inchino, «tant mieux pour vous, madame».
Fulmini inesorabili e aristocratica cortesia me lo rifecero così vicino, ritrovando proprio alla rifondazione Cini, dove avremmo collaborato attivamente, dove avremmo sviluppato la nostra amicizia per più di vent'anni, dove Gian Francesco avrebbe avuto il suo «paese dell'anima», nella vita e dopo la morte. Del resto questo ritrovamento veneziano mi riportava in cuore i fugaci incontri romani e fiorentini antiguerra, tutti segnati dal balenio di fulgori di intelligenza e di sdegnosa fedeltà all'arte e alla sua libertà da ogni tirannia e da ogni strumentalizzazione.
Lo scatto e la battuta, il saettare e il folgorare, fra entusiasmi e risentimenti, fra passioni e puntigli, fra esaltazioni e meledizioni, fra pizzi e fiamme, erano i ritmi nativi del vivere e del creare di quell'unicum che fu Gian Francesco.
Il suo estro di Musicista e di scrittore - librettista sorprendente, memorialista elegantissimo saggista fra i più fulminei e penetranti - sembrava modulato sul suo muoversi e sul suo conversare. Camminava lento ma a scatti sostando per guardarti o perche' i cani che lo accompagnavano glielo impedivano, riprendendo d'un tratto per fermarsi di nuovo o per tornare sui suoi passi a una vetrina o a un particolare stradaiolo che lo colpiva: un passeggiare così per passeggiare, sembrava, ma che invece aveva una direzione ben precisa, una meta già stabilita.
Parlava a sprazzi e baleni ad aforismi e motti, con un dialogare spezzettato da parentesi, da soste riempite dal suo sguardo interrogativo e da battute divaganti, misteriose e pungenti, con quella sua voce dai timbri puri, come gridi di uccelli marini. Ti avviava in una direzione, poi svincolava in un'altra, arresti, falsi scopi: per farti solo infine avvertire che tutto il discorso era logico e costruttissimo, mirava a un fine, a una conclusione, intuita e fissata da lui lucidamente sin dal principio. La sua stessa aria perennemente svagata era un siparietto dietro cui signorilmente nascondeva una memoria vivacissima e tenacissima e un'eccezionale capacità di intuire e di comprendere, un prezioso e costante senso del pittoresco, una multiforme cultura volta sempre a casi concreti.
Il movimento della sua scrittura o della sua musica ha questo stesso fascino: insieme dell'imprevedibile, anzi del raddomatico, e del logico e del conseguente: dell'avventura a sorpresa e del già tutto prestabilito. Nel suo procedere musicale o saggistico o narristico, tutto ambagi calcolatissimi e soste di parentesi e deviazioni ammiccanti sfolgora improvvisa e decisiva l'illuminazione.

ANDREA ZANZOTTO
LE SUE NOTE, UN PAESAGGIO SELVATICO

I miei contatti con Malipiero risalgono a quando ero molto giovane o relativamente giovane. Conservo due lettere che per me sono state veramente un balsamo: quando si è agli esordi, essere incoraggiati da una personalità che si vede come un mito, fu un fatto di estrema importanza. Lo fu soprattutto in quegli anni in cui (e questo sarebbe stato in realtà sempre il mio tallone d'Achille) ero molto facile a isolarmi: e senza scrivere, come faceva Malipiero, decine di lettere, ma chiudendomi totalmente. Vivevo in una specie di eterno e randagio peregrinare, attraverso colli più selvatici di questi, con l'idea di selvatico che per me persisteva nell'origine del paesaggio e che ha segnato il mio modo, la mia «esperienza» del paesaggio.
Malipiero per me era un nume. Una cultura musicale vera io non l'homai avuta. Sapevo che lui invece sapeva tutto della letteratura.
Quelle pur rare conversazioni sono state molto importanti per me. A un certo momento mi è sembrato quasi impossibile un dialogo con lui.
Io partivo sempre su un piede falso. Non perché lui mi mettesse a disagio. Tutt'altro (anche perché sapevo che lui era con tutti i giovani molto aperto). Ma perché mi richiamava a certi vuoti che avrei dovuto riempire e che appunto non potevo riempire: c'era proprio un'inibizione. Per me il dato musicale resta ancora oggi un conto aperto.
Detto questo io penso che Malipiero sia di gran lunga il più importante esponente della generazione degli anni 80 del secolo scorso, grazie alla sua sconcertante capacità di muoversi su tuttigli scacchieri. Non c'è campo in cui egli non sia intervenuto con tratti, vorrei dire, nervosamente risentiti e geniali: geniali proprio nell'atto di essere risentiti. Una lieve carica di risentimento si può sentire nella sua produzione persino in quella che sembra la più distaccata, come se lui, che navigava in pieno nella ricchezza sterminata della musica, avvertisse il limite della possibilità di espressione musicale. E questo perché era un grande frequentatore di parole. Io non riesco a trovare un autore musicale con una competenza così precisa, puntiforme e a largo raggio di tutto quello che è il territorio della letteratura, del teatro in quanto letteratura. Basti pensare alla genialità dei suoi omaggi a Goldoni.
Da quella generazione degli anni 80, e soprattutto dalla «punta» Malipiero, sarebbe potuta partire una linea d'espressione diversa da quella schoenberghiana. O quella linea forse avrebbe potuto dare dei risultati che oggi noi non possiamo immaginare: come una fioritura parallela, un virgulto particolare, e anche, diciamo pure, italiana,
strettamente italiana e anche, diciamo pure, veneziana. Anche grazie a quel gioco continuo di maschere: perché lui amava le maschere, perché lui stesso si mascherava in continuazione e passava da una esperienza all'altra con uguale abilità, finezza, genialità e inventiva. E con uguale risentimento, lasciandosi alle spalle quasi una scia sulfurea di nostalgia, di bisogni, di qualche cosa che avrebbe potuto esserci e non ci fu.
Malipiero, che conosceva benissimo tutti i grandi della musica, è stato a contatto con Webern, con Berg e con lo stesso Schoenberg, amava molto giocare di scherma, anche nel suo presentarsi. Mi pare fosse in realtà alla ricerca, al di sotto e al di là di queste sue documentate possibilità, di qualche cosa che avrebbe potuto fiorire.
In quei lontani incontri e in quelle poche lettere avevo capito che lui aveva inteso perfettamente quello che io stavo facendo e che ciò poteva anche sembrare, in quel momento, avventato in un certo senso o quantomeno in rotta di collisione con quanto imperava in quel periodo. Certe esperienze, che egli vedeva come fenomeni di edonismo, non saranno state neanche delle grandi innovazioni, ma erano tentativi fatti con una certa serietà e motivazione. E allora io credo che il mio andare in zone piuttosto selvatiche corrisponda a quella sua selvaticità rimasta intatta, spinosa come rovi che si trova nella sua musica, che ha tante frecce in avanti e che avrebbe dovuto essere valorizzata in misura molto maggiore.
Detto questo, io mi auguro che questa occasione porti a un approfondimento, a un esame di coscienza, a una ricognizione, a una rivalutazione, a una reispezione di tutta quella che è stata la linea del nostro tempo, e di quella che è stata anche la musica del nostro tempo. In questa nostra epoca così piena di reviviscenze del peggior sabba della storia, un potenziamento della conoscenza della figura di Malipiero si inserisce molto bene, per me, in una rivalutazione generale, in un bilancio che si deve fare, e che si sta cominciando a fare su quello che è l'arco della musica e della cultura del nostro secolo.

GIOVANNI MORELLI

LA POETICA DI UN ETERNO SCONTENTO

Il primo autoritratto musicale Malipiero lo scrive da vecchio, in un'epitome informa di «rappresentazione da concerto» intitolata appunto concerto di concerti ovvero dell'uom malcontento. Come vuole il Veneziano-Asolano che sia intesa la sua scontentezza? Da anni, per anni, per decenni, egli la predica in quasi tutte le sue opere, mettendo in attouna poetica del nec nec che si costruisce una serie malinconica, ma anche ironica, ma anche cinica, ma anche patetica (ecc.ecc.) di «affrontamenti irrisolti». Sinfonismo che irrompe nella teatralità mettendola a rischio. Senso dell'italianità che però elude sia la volgarità (tale per lui) dell'Ottocento, sia la fatuità (tale per lui) del tradizionalismo scientifico-positivista, sia dell'evacuazione della «italicità» antiquaria dei novecentisti più convinti. Occorre per il romanticismo vissuto però fuori da ogni esperimento neoclassico od oggettivista, ovvero orrore per il romanticismo vissuto in auree di esasperato romanticismo (un neo-romanticismo privato, né italiano né tedesco, né asolano né veneziano, né poetico né antipoetico).
Tra i mille nec nec di Malpiero non è ultimo, sfruttatissimo, quel ruolo paradossale che il maestro coltivò con diuturna cura, di configurarsi come un autore irriconoscibile dai musicologi che lo consideravano un letterato avventuratosi tra le cose della musica e dai letterati che lo consideravano un musicista in libera uscita fra le cose della poesia e della scrittura letteraria. Conferma l'ipotesi che questa sia stata una scelta volontaria di Malipiero il fatto che il Maestro si adopera non meno, al fin di essere altrettanto inidentificabile in un quadro di tendenze e ismi nettamente compartimentato, nella scrittura musicale più profonda, là dove sembra scorgersi come istanza primaria la ricerca di una «non appartenenza» che viene totalmente approfondita da diventare nei suoi schemi di idiosincrasia uno stile, e in un certo senso anche una «scuola». Una scuola sui generis, sia ben chiaro, perche' troppo enigmatici, ironici, doppi e sdoppiati, sono sempre stati i momenti di definizione dei caratteri (inimitabili) del suo ipotetico «stile»,
ma anche una vera scuola già che si può distinguere in essa una «destra malipieriana», uno stuolo di modesti giovani presto invecchiatissimi che maturarono dal maestro oltre alla mimicità di alcuni gesti compositivi molto ripetuti e anche facili, una sorta di presunta ideologia di vago rifiuto, insieme, del presente e del passato (un modernismo anti-moderno, e nel contempo un antitradizionalismo passatista), ma anche, accanto alla «destra», una «sinistra»: quella dei mitici «quasi allievi» Maderna e Nono. Il primo isprirato dai gesti poetici del Maestro a dialettizzare concezioni e scrittura, inventò una specie di alea della soggettività dello scrivente come schema poetico irrinunciabile, il secondo avventuratosi oltre le colonne d'Ercole delle «pause» del silenzio, scrutò gli abissi dell'esperienza del silenzio assoluto nell'ascolto attivo e passivo.
Nel 1931, in un arguto vocabolarietto del critico musicale pubblicato su «L'Ambrosiano», fra gli altri lemmi al vetriolo, Malipiero scrive, ad vocem «Genio»: «Genio: è quel musicista defunto che si nomina quotidianamente, esaltando le sue opere, raccontando la sua vita e che si agita come uno spauracchio per evitare che nuovi geni musicali vengano a turbare la quiete dei critici amanti della tranquillità». Orbene quel che Malipiero volle fu la presa di distanza da una attribuzione di una simile genialità. Il suo genio si costruiva, per dialettico-filia, nella scontentezza, nella sopravvivenza, della creatività dei «non defunti» poeti, intesa come monito al «comporre musica ancora, fare musica ancora». proprio evitando di compiere mai l'ultima e definitiva opera, coltivando attraverso una tecnica del malumore la fiducia nel «possibile» di una biografia artistica del tutto coincidente con la biografia fisica. Null'altro dal raccontare della sua vita che il farsi e rifarsi continuo dell'impulso a creare frizioni di realtà e sogno, vita e morte, poesia e antipoesia, verità e finzione, carnevale e quaresima.