I dizionari Baldini&Castoldi

L'Orfeide di Gian Francesco Malipiero (1882-1973)
libretto proprio, da Jacopone da Todi, Ranieri da Palermo, Angelo Poliziano, Antonio Alamanni e canti popolari toscani

Opera in tre parti (La morte delle maschere, Sette canzoni, Orfeo, ovvero L’ottava canzone)

Prima:
Düsseldorf, Stadtoper, 5 novembre 1925

Personaggi:
l’impresario, Arlecchino (T), Brighella (Bar), il dottor Balanzon (Bar), il capitan Spaventa di Valle Inferna (B), Pantalone (Bar), Tartaglia (T), Pulcinella (T), Orfeo (T) (La morte delle maschere); il cieco, il cantastorie (Bar), una giovane donna, alcuni passanti, una donna, un frate, la vecchia madre (S), il figlio, l’ubbriaco (Bar), un vecchio, una fanciulla, l’innamorato (T), il campanaro (Bar), il lampionaio (T/Bar), le beghine, la compagnia del carro della morte, i pagliacci, una mascheretta; coro (Sette canzoni); nel primo teatro: il re, la regina, il loro seguito, un cavaliere (T), una dama, un venditore di bevande (T), il pubblico, dame e cavalieri; nel teatro di sinistra: parrucconi con le relative dame; nel teatro di destra: i fanciulli; nel teatro di mezzo: Nerone (Bar), il suo servo, Agrippina (S), il carnefice, Orfeo (T) (Orfeo, ovvero L’ottava canzone)



Nella produzione immensa di Gian Francesco Malipiero, sviluppatasi lungo traiettorie tutt’altro che lineari e continue, è possibile isolare alcune costanti di ordine psicologico, musicale e culturale. Ciò vale soprattutto a partire dai lavori nati nel clima tumultuoso degli anni della prima guerra mondiale o a essa immediatamente successivi, come le Pause del silenzio , il Ditirambo tragico , il balletto Pantea , nonché le Sette canzoni . Lavori accomunati sul piano caratteriale da un pessimismo di fondo di cui Malipiero raramente si libera, da una coscienza ossessiva della morte e della transitorietà, che neppure la pervicace ricerca di vitali affermazioni di felicità e di bellezza riesce a scalfire. E, in termini musicali, collegati dalla negazione degli schemi compositivi dati, sia quelli pertinenti alla consequenzialità della struttura sinfonica, sia quelli propri della continuità e della logica drammatica: l’ideale malipieriano, da allora applicato sistematicamente anche alle opere teatrali, è una musica che eviti le ripetizioni e gli sviluppi tematici, per procedere in modo non geometrico, attraverso un succedersi inesauribile e spontaneo di intuizioni. Il tutto vincolato a una concezione aristocratica di un’arte incontaminata e pura, non esente da orientamenti estetizzanti di matrice dannunziana, funzionali alle esigenze di un artista in dialogo con un passato ormai irrecuperabile: quello musicale del canto gregoriano, di Monteverdi, di Vivaldi, di Domenico Scarlatti e quello letterario di Jacopone da Todi, di Poliziano e dei molti poeti antichi ai quali attinge i testi del suo teatro.

In ambito teatrale la posizione malipieriana si arricchisce inoltre di spunti polemici contro i cantanti, il melodramma e il teatro verista, che trovano un primo sbocco significativo nel 1917 in Pantea («Dramma sinfonico in un prologo, tre allucinazioni e un epilogo», nel quale è soppresso il personaggio-cantante e la voce viene utlizzata soltanto come mezzo di caratterizzazione dell’ambiente, senza alcun ruolo protagonistico) e nelle Sette canzoni («Sette espressioni drammatiche» portate a termine nel 1919). Sono questi i primi lavori nei quali Malipiero costruisce un modello drammatico-musicale su misura della propria tendenza a rappresentare situazioni che vivano di un’intrinseca necessità musicale, nelle più totale relativizzazione dell’unità e della continuità dell’azione. Un modello che nelle Sette canzoni si distingue per la costruzione a mosaico di tessere irrelate, disposte per contrasto (una soluzione inaugurata in campo sinfonico con le Pause del silenzio , in sette episodi, numero legato a un simbolismo ricorrente nella produzione malipieriana), secondo uno schema che consente al musicista di ripensare alle radici il rapporto tra parola, suono e gesto.

Nonostante Malipiero sottolinei il movente realistico di ciascuno dei brevi episodi di cui si compongono le Sette canzoni («sono sette episodi da me vissuti»), essi si susseguono senza perseguire fini di consequenzialità drammatica, procedendo per somma di contrasti, in una compenetrazione straniante di figure e sentimenti elementari, di piani e ambienti scenici. Si passa così dalla vicenda della disperazione del cieco, abbandonato dalla sua donna, a quello della madre col suo folle sentimento dell’assenza del figlio, a quella dell’ubriaco vittima inconsapevole di una segreta tresca amorosa, all’innamorato importuno, al campanaro sconcio: figure sparse di un’esistenza che l’uomo non riesce a cogliere nella sua pienezza, ma solo per attimi. Il tempo nel quale si susseguono le sette espressioni drammatiche di Malipiero è infatti un tempo fisso su se stesso, astratto, bloccato in una circolarità senza vie d’uscita. La prima canzone (“La mi tenne la staffa”) è anche quella che introduce l’ultima espressione drammatica; ed è questo il solo ritorno che circoscrive l’atto unico. Al di fuori del cerchio rimangono soltanto il coro degli uomini del carro della morte dell’ Alba delle ceneri , cantato sui versi di Antonio Allamanni (“Dolor, pianto e penitenza”), e la mascherata dei pagliacci, ai quali spetta la rappresentazione allegorica, tragica e inevitabile, del passaggio di ciò che vive al nulla della morte. Le ‘canzoni’, intonate su testi popolari o di autori del passato (Poliziano, Jacopone, i trecentisti siciliani e altri ancora), a loro volta isolate dal contesto musicale nella loro forma chiusa, non assecondano l’azione: sono funzionali al modello malipieriano in quanto espressione musicale necessaria agli accadimenti paradossali e grotteschi che si svolgono sulla scena; al pari degli interludi sinfonici cui spetta la scansione degli episodi e della mimica che li accompagna. Come dice Malipiero, in questo lavoro «il cantante rimane attore perché la canzone è incidentale e l’azione la esige».

Nel 1920 e nel ’22, dopo che le Sette canzoni avevano già avuto una prima messinscena all’Opéra di Parigi e altri allestimenti in vari paesi europei, al fine di disporre di uno spettacolo che occupasse un’intera serata, Malipiero vi affiancò altri due atti unici (rispettivamente La morte delle maschere e Orfeo, ovvero L’ottava canzone ), riunendo il tutto nella cosiddetta trilogia dell’ Orfeide . Da allora Malipiero tenne in modo particolare all’integrità del trittico, sottolineandone l’unitarietà della tesi di fondo che esso svolge, tesi che fa perno sulle Sette canzoni : « La morte delle maschere – scriveva Malipiero – è la condanna del convenzionale (le maschere vengono rinchiuse, come balocchi fuori uso, in un armadio), e l’invito a cogliere la vita semplice, dal vero, per farne della musica. La terza parte: Orfeo, ovvero L’ottava canzone è una satira sulla indifferenza, sull’incomprensione o sullo sterile entusiasmo constatati al primo contatto col pubblico di vari paesi della Sette canzoni , le quali stanno al centro dell’opera».

Nell’insieme l’ Orfeide è l’opera simbolo di una generazione di musicisti che faceva della contrapposizione al verismo la propria ragione di esistere in ambito teatrale. Il significato della Morte delle maschere e delle Sette canzoni si risolve nell’antitesi convenzione contro novità teatrale, ‘maschere’ (come quelle della commedia dell’arte) contro ‘maschera’ (come dirà più tardi Malipiero ciò che «sopprimendo ogni contatto con la realtà, perché la nasconde, finisce per favorire la verità»). Ma se gli Arlecchino, i Brighella, i dottor Balanzon e i Pulcinella che si muovono agli ordini dell’impresario si presentano come tipi fissi e parlano per filastrocche e monologhi da commedia dell’arte, altrettanto si può dire per i personaggi veri, anch’essi tipi privi di una propria individualità, con una storia pronta da narrare nel momento in cui l’impresario li nomina uno per uno, una storia che essi portano con sé dalla vita, quella vera che sta oltre lo specchio magico della finzione teatrale. Il teatro potenziale dei personaggi delle Sette canzoni rimane però un insieme incoerente di situazioni, che non riescono a ordinarsi in una storia unitaria. E proprio per l’insistenza della trama narrativa della parte centrale della trilogia, le figure di questo teatro mancato divengono maschere prigioniere della finzione del teatro rispetto alla verità della vita, che aspirerebbero a rappresentare. Alla fine vita e finzione si confondono, così che nell’ Ottava canzone si assiste al trionfo della fantasia sulla vita vera. L’ Orfeo conclude infatti il ciclo con un’apoteosi del teatro in quanto tale, con conseguente scomposizione dell’unità dello spazio scenico in tanti teatri, sui quali i sipari si alzano uno dopo l’altro in successione caleidoscopica: c’è, al centro, il teatro pubblico vero, nel quale prendono posto il re e la regina col loro seguito; c’è il teatrino dei ‘parrucconi’, di fattura barocca, a sinistra; c’è quello dei ‘fanciulli’, di sole panche, a destra; e c’è infine lo spazio della rappresentazione sul quale appaiono Nerone, il servo, Agrippina, il carnefice appesi a grossi fili, come se fossero tante marionette. Nel gioco del teatro nel teatro la magia della finzione scenica si riflette e si moltiplica, accentuando il senso della satira antiveristica: alla fine i tre gruppi di spettatori in scena si addormentano al canto melodioso di Orfeo (“Uscite o gemiti”), annoiati dal colto poeta-cantore, dopo essersi ora entusiasmati e ora disgustati alla vista delle gesta sanguinarie del fantoccio Nerone.

v.b.

Dizionario dell'Opera