I dizionari Baldini&Castoldi

Fedra di Ildebrando Pizzetti (1880-1968)
libretto di Gabriele D’Annunzio

Tragedia in tre atti

Prima:
Milano, Teatro alla Scala, 20 marzo 1915

Personaggi:
Fedra (Ms), Ippolito (T), Teseo (Bar), Etra (A), l’auriga Eurito d’Ilaco (Bar), la nutrice Gorgo (A), la schiava tebana (S), il mercante fenicio (B), le fanti, le sette supplici (S, A), un efebo (A); coro



Nata negli anni 1909-12, nel pieno della collaborazione di Ildebrando Pizzetti con Gabriele D’Annunzio (tra le Musiche per La nave , 1907, la lirica I pastori , 1908, e le musiche di scena per La Pisanella , 1912-13), Fedra è la prima opera per il teatro scritta da Pizzetti, quella alla quale egli attribuì maggiore forza dimostrativa delle teorie drammaturgiche nel frattempo messe a punto in una serie di scritti critici. Secondo quanto confessarono gli autori a Giulio Ricordi, Fedra rispondeva infatti al proposito di creare un «nuovo dramma musicale latino (...) fuor da ogni pregiudizio wagneriano (...), fuor d’ogni eccesso straussiano, fuor d’ogni affettazione debussysta».

Quello che Pizzetti cerca per la prima volta in Fedra è un dramma impostato sulla lezione dei grandi modelli storici (i pionieri fiorentini d’inizio Seicento, Monteverdi, Gluck, Wagner, fino a Debussy), da perfezionare però sul piano della fusione il più stretta possibile di poesia e musica, ciascuna delle quali conservi le proprie mansioni in una struttura unitariamente orientata. Risultato che Pizzetti riteneva di poter conseguire con una rinuncia al pieno dispiegamento della musicalità: soltanto ridimensionando gli attributi propri della melodia e della componente sinfonica sarebbe stato infatti possibile fondare il genere drammatico sulle leggi di ciò che gli è precipuo, ossia il dramma stesso. Del resto fin dagli anni giovanili Pizzetti intese la musica unicamente come evento estetico dotato di una propria eloquenza e, pertanto, anche la musica cosiddetta pura come estrinsecazione di principi dialettici orientati verso il dramma: «La musica di un’opera sinfonica – scriveva – di un’opera puramente strumentale esprime anch’essa, sia pure senza parole, un conflitto drammatico o il superamento di esso, se è musica; se no, non è musica, è giuoco di suoni, è rumore». Idee che avevano trovato applicazione già nei Tre preludi per 1’Edipo Re (1903), che oltretutto a un dramma fanno esplicitamente riferimento e che additano già gli orientamenti di una musicalità trattenuta, quasi scabra, che tratta l’orchestra senza risentire per nulla delle sirene dell’impressionismo o degli sgargianti colori dell’orchestra russa. E, quindi, idee che già nelle Musiche per ‘La nave’ si erano arricchite di sollecitazioni musicali antiche, attinte alle fonti della musica greca e del canto gregoriano.

Pizzetti, affascinato dalla classicità e dal mondo ellenico (inizialmente avrebbe voluto mettere in musica l’ Ippolito di Euripide), ma anche attratto dalla musicalità del verso dannunziano, ebbe dal poeta un testo non del tutto congruente con i suoi ideali drammatici. La Fedra di D’Annunzio è infatti una tragedia che sfugge alla dimensione classica nella misura in cui non conosce catarsi e vive dei gesti istintivi e irrazionali della protagonista, dell’esaltazione della morte, della ribellione alla religione e agli dèi. D’altra parte, la musicalità degli endecasillabi e dei settenari dannunziani invece di librarsi direttamente in canto, nasconde per il musicista insidie retoriche ed eccessi di verbosità, di citazioni mitologiche e di riferimenti eruditi, ai quali egli chiese ripetutamente rimedio (per principio Pizzetti aspirava a un libretto serrato e conciso) e che il poeta, nonostante i tagli anche abbondanti inferti al testo originario, non seppe del tutto sanare. Tuttavia, pur con i limiti del libretto, nella partitura della Fedra Pizzetti riesce a mettere in mostra in bell’ordine i punti cardine della sua concezione musicale del dramma. Il canto si muove quasi esclusivamente nell’ambito del registro centrale delle voci, con un declamato sillabico dal profilo severo, rigorosamente costruito su piccoli intervalli e modellato sui ritmi fraseologici del verso dannunziano. All’orchestra spetta ora di sostenerlo con lunghi pedali e con armonie prevalentemente diatoniche, venate da risonanze arcaiche per l’adozione frequente della modalità antica, ora di definirne l’ambiente espressivo, entro la cornice di una struttura tematica intessuta di trame contrappuntistiche in cui si addensano le linee delle singole figurazioni motiviche. Un ruolo del tutto particolare spetta poi al coro, pensato sia come elemento dialogico, sia come elemento di riflessione e di commento collettivo, avulso dall’azione alla maniera del coro della tragedia antica e trattato per trame polifoniche austere e ieratiche. Funzione quest’ultima che in Fedra si intuisce già nel coro d’implorazione di Etra e delle sette supplici, che lamentano la morte dei figli in apertura del primo atto, ma che diventa evidentissima nella trenodia per Ippolito morto, per coro di otto voci sole, che si trova all’inizio del terzo atto (“O giovinezza, piangi”): una vera e propria forma corale chiusa, che ricalca l’impianto elegiaco degli antichi canti funebri. Nell’insieme il risultato è quello di un’opera in cui il canto (dei personaggi o del coro), si mantiene ancorato a un’attualita drammatica che il tessuto motivico orchestrale, sempre come continuazione della parola, proietta ora nella dimensione preterita del ricordo, ora in quella a venire del presagio. Così che, in generale, in Fedra la musica di Pizzetti procede secondo schemi sostanzialmente uniformi, entro i quali bastano minime differenziazioni di scrittura per dare spicco a figure e motivi drammatici. Si pensi, ad esempio, al rilievo assunto dalla protagonista Fedra nei punti in cui il suo canto si increspa di cromatismi e, su tutti, all’episodio a due con la schiava tebana, la rivale sospettata di essere amata carnalmente da Ippolito, nel quale il cromatismo diventa immagine sonora del tormento delle sue passioni, crescente fino al gesto fulmineo con cui essa toglie dalle trecce l’ago crinale e trafigge la vittima (“Vergine di Tebe, sei divinatrice?”). Oppure si pensi alla scena del bacio lussurioso di Fedra a Ippolito nel secondo atto «come chi prema e franga e mescoli nella morte il frutto di due vite». Vi sono buone ragioni per credere che fossero questi gli aspetti dell’eroina dannunziana che più colpirono il musicista: la sua consapevolezza del proprio dramma, la sua capacità di analizzare la realtà con spietata crudeltà, l’illusione di vincerlo nella certezza della vittoria per mezzo della morte. Da questo punto di vista Fedra è la capostipite delle figure di casa nel successivo teatro pizzettiano di eroi che stanno al di fuori della legge. C’è però anche un’altra immagine di Fedra, quella che Pizzetti va scoprendo nei recessi del testo dannunziano, forse la più amata, e che alla fine si staglia a tutto tondo nell’ultima scena dell’opera, sorridente alle stelle «su l’entrare della Notte». Su di essa la musica pizzettiana, «divinamente calma», stende un dolcissimo velo di religiosa pietà.

v.b.

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