I dizionari Baldini&Castoldi

Torneo notturno di Gian Francesco Malipiero (1882-1973)
libretto proprio, da Serafino Aquilano, Franco Sacchetti e canti popolari toscani

Sette notturni

Prima:
Monaco, Nationaltheater, 15 maggio 1931

Personaggi:
il Disperato (T), lo Spensierato (Bar), tre innamorati (T, Bar, B), la madre (Ms), la figlia (S), l’oste (Bar), una cortigiana (S), il buffone (Bar), quattro giovani (T)



«Il Torneo notturno è stato scritto seguendo, se non le teorie, ché le teorie non esistono, lo stesso ordine di idee delle Sette canzoni ». Con queste parole Malipiero individua nel Torneo la conseguenza più diretta delle soluzioni drammatiche sperimentate nell’opera che aveva avviato la stagione più ricca e originale del suo teatro. Tra di esse andranno individuate ancora una volta il policentrismo della struttura ‘a canzoni’ connesse da episodi strumentali (di nuovo sette, denominate ‘notturni’), che esclude o relega a brevissimi interventi il dialogo in stile recitativo; il montaggio del libretto con testi poetici medioevali e rinascimentali; la tessitura della trama mediante accadimenti di elementare semplicità; la messa in azione di personaggi privi di spessore psicologico, ridotti a figure allegoriche, esemplari di condizioni esistenziali uniche. Perfino alcuni particolari delle Sette canzoni si ripropongono nel Torneo con perfetta coincidenza: ad esempio, in entrambe le opere la serie degli episodi è chiusa da una mascherata infarcita di macabri segni di morte. Più che le conferme, però, sono le deroghe all’«ordine di idee» delle Sette canzoni a dar ragione della singolarità del Torneo . Una di queste riguarda il tempo interno alla rappresentazione: i sette notturni, avvolti nella spirale di un destino tragico senza vie d’uscita, escludono la progressione cronologica che invece si intuiva ancora nel trascorrere, tra la prima e l’ultima delle canzoni, dal crepuscolo all’alba del nuovo giorno. E poi nel 1929 Malipiero tenta di perseguire un equilibrio, che dieci anni prima riteneva ancora impraticabile e antinomico, tra frammentarietà della struttura drammatica e continuità narrativa dell’azione.

Nel Torneo , si badi bene, non vi è una ‘storia’ (ché Malipiero, fino all’incontro con Pirandello nella Favola del figlio cambiato , fu del tutto refrattario a comporre l’azione entro un quadro logico), ma una trama appena abbozzata, più comunicata per via allusiva che rappresentata nel suo divenire. Eccone la scarna materia, ricostruita seguendo il nesso delle didascalie sceniche prescritte dal libretto. Una donna, Madonna Aurora, assiste alle serenate di due uomini: uno, il Disperato, macerato nelle proprie angosce esistenziali, l’altro, lo Spensierato, sfrontato e senza scrupoli; essa è conquistata dalla canzone dello Spensierato (“Chi ha tempo e tempo aspetta”), il quale però fugge lasciandone a terra il corpo inerte. Il Disperato insegue senza sosta il rivale, prima nella notte in tempesta, poi in una foresta, nella taverna del buon tempo, nella propria casa, nel castello della noia, ma ogni volta è spettatore impotente delle reazioni che la sua canzone suscita nei personaggi femminili (la figlia, la donna, la castellana), spinti dall’incanto della melodia a trasgredire i comportamenti abituali. Finché, nella cella del carcere, dove entrambi vengono rinchiusi in seguito alla loro irruzione nel castello, egli uccide lo Spensierato e si impossessa della sua canzone, cantando la quale inganna la castellana che lo libera.

L’opera si impernia sul motivo tipicamente malipieriano dello scontro dialettico, ma mai risolutivo, tra due forze opposte e nello stesso tempo indispensabili alla sussistenza reciproca. Il Disperato e lo Spensierato non sono due entità drammatiche distinte, ma una sola figura, simbolo bifronte dell’inconciliabile opposizione tra il tempo che ogni cosa disperde, attimo per attimo, e la determinazione senza speranza di carpire la vita. Da qui la necessità di un epilogo epico, con il buttafuori, presenza concreta dell’autore sulla scena, che guarda dietro il sipario calato, dando l’impressione, secondo quanto recita la didascalia, «di vedere quello che nessun altro può vedere». Alla fine, è il buttafuori, solo davanti al sipario ormai calato, a rivolgere al pubblico l’ammonimento malipieriano: «Voi avete veduto morire lo Spensierato e Madonna Aurora. Forse crederete che la vendetta e la riacquistata libertà abbiano ridato la pace al Disperato, ma egli invece ha ripreso il suo cammino senza meta. Voi avete veduto morire, vivere, agitarsi alcuni uomini che le più discordanti passioni tormentavano. Non è finito». Sul rullare di tamburi e grancassa transita allora, dietro il sipario chiuso, un corteo funebre: «è la vita che passa» – avverte il buttafuori – «agitando il gonfalone della morte».

La ‘canzone del tempo’, ossia il brano cantato per la prima volta dallo Spensierato sotto il balcone di Madonna Aurora nel primo notturno e poi ripreso, integralmente o in parte, in ciascuno dei sei notturni successivi, è il fulcro dell’opera. La catena di strambotti di cui essa si compone, attribuiti a Serafino Aquilano e intonati da Malipiero secondo una scansione elementare, ma volutamente straniata nella sfasatura tra accenti e tempi forti della battuta, funge infatti da centro dell’opera in senso drammatico (ammonimento alla caducità della vita umana) e simbolico (come diceva lo stesso Malipiero, il Disperato «insegue una canzone»). Ma la ‘canzone del tempo’, per i numerosi ritorni e i legami motivici che intrattiene con altre parti dell’opera, è anche il segno di un ordine musicale in latente contraddizione con i procedimenti malipieriani. Nel Torneo si intuisce infatti una forma – nel senso di organizzazione delle parti in relazione al tutto – che rimane tipicamente malipieriana, soltanto perché si fonda sull’esperienza della costruzione per somma di frammenti, risultanti da una sorta di proliferazione tematica, ossia da una variazione ininterrotta che, partendo da alcuni temi principali, ne deriva altri e poi altri ancora, in una catena continua di trasformazioni. Il tutto, però, in modo imprevedibile e non meccanico, con un ritmo al limite del casuale, dal momento che non è mai certo in quale veste, né in che contesto un’idea potrà nuovamente ripresentarsi. L’esigenza di rinsaldare le relazioni tra i singoli momenti musicali, come se si volesse cogliere nell’attimo fuggente la presenza di quelli che lo hanno preceduto e la premessa di quelli che lo seguiranno, nel Torneo è rinforzata anche da altri criteri d’ordine. Uno di questi è dato dalla gerarchia tra i personaggi, in base all’articolazione dei loro interventi: soltanto al Disperato e allo Spensierato toccano canzoni ampie, formalmente articolate; agli altri spettano per lo più interventi di proporzioni ridotte, di struttura binaria come le canzoni della madre e della figlia (secondo notturno), dell’oste (quarto notturno) e dell’allegra brigata (settimo notturno), o addirittura in una sola sezione, come quella della donna nel quarto notturno. L’unica eccezione è data dalla canzone del buffone (sesto notturno, “Chi ci vuole udir cantare”), il quale canta un brano esteso, in forma di rondò: ma il buffone, rispetto ai personaggi-maschera del Torneo , è l’unico a indossare veramente la maschera, e perciò, forte di una posizione straniata, sta lì a ricordarci quale terribile nonsense è il cerimoniale della vita. Ugualmente, è pure intuibile una gerarchia tra i personaggi che cantano e la lunga schiera di quelli che invece sono solo comparse, figure ridotte a décor e inserite in quell’insieme di tratti naturalistici mediante i quali – come nelle Sette canzoni – sono tratteggiati gli ambienti scenici. In questo contesto acquista un ruolo determinante anche il recupero di situazioni che fanno pensare a dialoghi fantomatici. Ogni notturno, infatti, per la sua stessa articolazione in episodi, ciascuno affidato a un personaggio diverso, sottintende un dialogo scheletrico, appena tratteggiato, intuibile dall’accostamento di monologhi: è un dialogare che non ha nulla in comune con quello proprio alla forma drammatica, dal quale non nasce l’azione, ma mediante il quale è ribadita una volta di più l’impossibilità del dialogo e dell’azione stessa. Tant’è che, da elemento formale, i brandelli dialogici del Torneo divengono elemento tematico, ossia pertinente a quella parte del contenuto dell’opera che verte sull’inconciliabilità – che è anche incomunicabilità – tra il Disperato e lo Spensierato. Come caso limite si ascolti in proposito il recitativo dello Spensierato nel settimo notturno, al quale il Disperato, benché chiamato in causa dalle parole dell’antagonista, assiste muto; o, meglio ancora, si ascolti il monologo del Disperato rivolto all’assiolo, dialogo impossibile con un motivo in orchestra che, quasi ‘impressione dal vero’, riprende la cellula tematica delle primissime battute dell’opera.

Nell’insieme, dunque, il Torneo notturno è frutto di molte contraddizioni, che però a un musicista asistematico come Malipiero appaiono fecondissime: tra la ricerca di una storia narrabile e l’impiego di personaggi-simbolo che si sottraggono ai meccanismi dell’azione; tra il realismo della scenografia e la dimensione straniata dei testi antichi e dei valori da essi espressi; tra la volontà di organizzare una forma musicale e l’impiego di mezzi armonici (quelli tipici del linguaggio malipieriano: strutture modali, accordi per quarte, cromatismi) e di una tecnica compositiva che, invece, al massimo mettono capo a un’organica ambiguità, a un vagare senza mete certe. Ed è proprio a queste contraddizioni che bisogna rifarsi per spiegare il significato dell’opera, quale scaturisce perfetto dall’antitesi tra la determinazione di ordinare gli eventi in una durata e la loro dispersione in istanti irrelati. Il connubio tra mezzi di espressione e sostanza poetica nel Torneo riesce perciò ancor più efficace che nelle Sette canzoni : ciò che l’opera suggerisce è l’impossibilità per l’uomo di cogliere l’esistenza, se non in attimi straniati, entità provvisorie, sfuggenti all’infinito, che egli non riuscirà mai a possedere completamente e a sottoporre al controllo della razionalità. Malipiero esaurisce così la prima fase del proprio teatro; un teatro che, sancita la rottura con gli schemi del melodramma, si appella al passato remoto – letterario e musicale – per distillare in forma nuova un contenuto che tocca nel vivo la condizione dell’uomo moderno. Un punto d’arrivo, dunque, che ancora nel 1952, con moto critico retrospettivo, egli poteva indicare come «la quintessenza di tutto ciò che ho sempre sperato di poter attuare, dalle Sette canzoni in poi, col ‘mio’ teatro».

v.b.

Dizionario dell'Opera