G. F. MALIPIERO

FAVOLEGGIANDO
CON LUIGI PIRANDELLO

Una tomba s'è chiusa anzi un'urna e dell'amico soltanto lo spirito è rimasto fra noi. Non una casa, non una villa, nemmeno una tomba. Di Luigi Pirandello non possediamo che la firma autografa, le sue lettere egli le dattilografava quasi per rendere impossibili le interpretazioni dei grafologi, dei chiromanti. Le sue parole rispecchiano il suo pensiero schiettamente, senza preamboli nè fronzoli, si può quasi sospettare che il suo sintetismo fosse talvolta voluto quanto l'esuberanza retorica di certi scrittori che non sanno rinunziare alla preziosità, alla sonorità della parola.
Non vorremmo parlare di noi, nè fare dispiacere a coloro che non amano la nostra arte, ma il ricordo della collaborazione con Luigi Pirandello fa parte delle reliquie che gelosamente custodiamo nel nostro cuore. Non dimenticheremo mai l'espressione della faccia di Luigi Pirandello quando ascoltava le sue parole rivestite di musica. Mai egli avrebbe potuto dirci, salvo con gli occhi, la sua soddisfazione.
Nel marzo 1932 egli ci narrava il soggetto della sua Favola. Parlava lentamente, quasi timidamente, ed è gli notava la nostra delusione, chè in cuor nostro gli eravamo ostili in quel momento: cercavamo forse di non lasciarci prendere, volevamo rimanere fedeli alla nostra determinazione di non collaborare, dopo le delusioni sofferte, evitando il librettista, il nemico. Pirandello tirò fuori allora il copione (che rappresentava la parte dei «Giganti della montagna») e ci lesse il primo e secondo quadro, cioè il primo atto. Tutti i dubbi disparvero insieme ai pregiudizi e ai preconcetti, e da quel momento l'unico nostro desiderio, la nostra ansia, furono di possedere anche i due atti mancanti. Il nostro entusiasmo soddisfò Luigi Pirandello, ebbe così inizio una fraterna collaborazione. Inviandoci i primi due quadri egli scriveva: ... «Lascio a te piena libertà d'aggiungere, togliere, adattare; ciò che conta è che sia rispettato lo spirito dell'opera».
È superfluo dire ch'egli sapeva che noi avremmo rispettato l'opera sua. La lettera che accompagnava la consegna del secondo e terzo atto è la sintesi delle sue convinzioni estetiche e si preoccupa un po' di quello che il musicista avrebbe potuto ricavare dalle sue espressioni: «...Io già vedo, che, specialmente nel quarto e nel quinto quadro la musica non potrà forse rendere tutto ciò che io ho dovuto esprimere, senza correre il pericolo di sfibrare l'azione scenica. Sulle necessità musicali torno a dirti tu sarai giudice assoluto. Altro è un teatro poetico che deve soddisfare alle leggi del suo organismo estetico, con altre sue proprie leggi. Il creatore ha sempre e in ogni caso tutti i diritti: quando è un vero creatore non può fare a meno d'ubbidire col massimo scrupolo a quel corrispettivo di doveri che inconsciamente ognuno di noi si assume verso la propria creatura. Perciò io non credo che una nostra collaborazione diretta, oltre quella che è nel fatto stesso d'averti io con la mia opera offerto una pura e semplice materia da adoperare per l'opera tua, possa riuscire utile; perchè tu devi restare solo e libero di fronte al tuo lavoro come io sono stato di fronte al mio»...
La collaborazione sottintendeva però l'accettazione da parte del musicista delle sue idee, che altrimenti il conflitto diventava inevitabile. Il musicista non è stato costretto a sottomettersi perchè le sue idee coincidevano con quelle del poeta.
Richiesto l'elenco dei personaggi ch'egli aveva dimenticato, rispondeva: «...Ti sarò molto grato se vorrai esimermi dal rimetter gli occhi sulla FAVOLA, che sarebbe per me un grave pericolo. Il pericolo che si riaccenda nella fantasia e mi induca invece che a cavarne semplicemente la lista dei personaggi a tornarci a lavorare, limare, mutare... e chi sa? buttare tutto per aria, per rifar tutto da capo. Sarebbe un disastro nelle condizioni in cui mi trovo, sapendo come so che la mia coscienza d'artista sarebbe sorda a qualsiasi considerazione di convenienza appena alla fantasia balenasse che c'è un modo migliore di dire ciò che ho già detto. Spero mi comprenderai. Non mi tiro indietro da un lavoro che è semplicissimo, ti chiedo di scansarmi la possibilità d'un grave pericolo...».

Da questa lettera in data del 9 luglio 1932 sino al compimento dell'opera non lo rivedemmo più, cioè no, lo incontrammo per caso nella direzione di una casa cinematografica, agitato e furente perchè un suo soggetto per film era stato completamente deturpato da un regista che si credeva Leonardo da Vinci redivivo. Nè il titolo nè i nomi dei personaggi erano stati conservati. Pretesto principale il documentario, tutto il resto ridotto a un racconto che nulla aveva più di pirandelliano.

Luigi Pirandello l'abbiamo sempre conosciuto calmo e sereno, ma difendeva con gli artigli le sue creature se si osava offenderle. Per lui sonavano ingiuria e bestemmia la mancanza di rispetto verso l'opera d'arte: la sua vera religione. Nella Favola abbiamo soppresso non più di venti parole, quelle che si rifiutavano di farsi cantare», tutto il resto è stato conservato perchè eravamo convinti del suo valore poetico. Non ci siamo nemmeno accorti delle frasi che si prestavano al doppio senso, chè la cosidetta filosofia pirandelliana, secondo noi, non è meno profonda di quella di Amleto e del famoso «essere o non essere» shakespeariano che tutti usano quando si trovano alle prese con un enigma che non riescono a spiegare e specialmente quando non vogliono pensare nè comprendere.
La nostra collaborazione finì alla prova generale della Favola. È meglio tacere sullo strascico lasciato dalla rappresentazione, però è ancora vivo in noi il rammarico per avere involontariamente causato un grande dolore a Luigi Pirandello che non era abituato all'atmosfera melodrammatica.
«... L'offesa gratuita e brutale che c'è stata fatta mi tiene lontano perfino dai Giganti della Montagna in cui della Favola si parla e si cita qualche verso. Quella ch'è forse la mia opera maggiore di teatro m'è « restata lì da allora»...
Così egli scriveva quattro mesi dopo la serata ingloriosa e queste parole ci fanno temere di aver scoperto la ragione per cui i «Giganti della montagna» rimasero incompiuti.
La morte ha fatto il resto, ma noi con Luigi Pirandello collaboriamo e comunichiamo quotidianamente.

TRATTO DA

MASSIMO BONTEMPELLI

G. FRANCESCO MALIPIERO

BOMPIANI - MILANO 1942 -
pp. 190-193