GUIDO M. GATTI

GIAN FRANCESCO MALIPIERO

«L'ESAME»
Milano 1923


Pubblicato anche in
L'OPERA DI G. F. MALIPIERO

Per quanto l'affermazione possa sembrare audace e in qualche modo paradossale a coloro che di Malipiero conoscono soltanto gli ultimi lavori ed ancor più a coloro che hanno avuto occasione di parlar di arte con lui o di leggerne qualche scritto, ci è impossibile rinunziare alla nostra precisa convinzione che la personalità del musicista sia da porsi tra quelle più spiccatamente romantiche apparse in questo secolo, cioè nel secolo che s'inizia sotto gli auspici, in arte, della più accesa ribellione al romanticismo. Questa convinzione, che ha le sue radici nella conoscenza delle prime opere di Malipiero, è venuta riconfermandosi sempre più nel seguìto: la stessa evoluzione della sua creazione, con le sue crisi di passaggio, con i suoi tentativi di evasione, ce ne sono testimonianza: e vedremo quanto in questi ultimi anni il compositore abbia lottato per sottrarsi ad una influenza che gli viene dal suo stesso temperamento, e come e in quale misura vi sia riuscito.

Dall'arte romantica Malipiero ha avuto le prime impressioni e commozioni estetiche; pensiamo per un momento alla sua adolescenza agitata, alla sua nascita veneziana (Venezia, sì, la patria di Goldoni e del Canaletto, ma pur anco quella ideale di tutti i poeti romantici, da Alfred de Musset a Byron), agli anni trascorsi in paesi di lingua tedesca, alle sue prime conoscenze di anime musicali (Schumann, Chopin, Wagner), e ci spiegheremo la sua simpatia di un tempo per cose ed uomini orientati verso il romanticismo e più particolarmente verso un romanticismo fantastico di colore settentrionale. I titoli di alcune fra le sue prime composizioni sono rivelatori, sotto questo riguardo: ecco la Sinfonia degli Eroi e quella del Mare e quella del Silenzio e della Morte; ed ecco il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia e i Poemetti lunari. C'è già sin d'allora (son queste tutte composizioni scritte fra il 1905 e il 1910) l'amore per l'irreale, per il lunare, per il misterioso con qualche tocco di macabro, per i forti contrasti di luci e di ombre e di passioni antagoniste: contrasti spinti all'estremo in certe pagine come quelle pubblicate sotto il titolo di Bizzarrie luminose, dove in mezzo a reminiscenze di altri autori c'è pur già qualcosa di veramente malipieriano (per esempio nel tema principale di Il sole), come quelle che ho già nominato sotto il titolo di Poemetti lunari, quasi traduzioni musicali di alcuni celebratissimi quadri di Marius Pictor in cui la luna e l'ombra fonda della notte son quasi sempre i soli personaggi viventi della tela.
Con tutto ciò non sono questi che caratteri e lineamenti esteriori e accidentali di quello che intendiamo per romanticismo riferendoci a Malipiero, e tali che non riuscirebbero a chiarire le opere della maturità dove essi, sotto quegli aspetti, più non ricompaiono. C'è dunque qualcosa di piùprofondo e di più saldo. Diciamo subito, per liberare il campo da possibili equivoci, che il romanticismo di Malipiero va inteso nel suo significato più vasto e perciò non soltanto artistico. Baudelaire ha scritto che «il romanticismo non consiste precisamente nè nella scelta dei soggetti nè nella verità esatta, ma nella maniera di sentire». La distinzione di tre concetti (o pseudo-concetti, come vuole il Croce) e perciò di tre manifestazioni e di tre definizioni dello spirito romantico ci soccorre a questo punto: trascurando il romanticismo filosofico, qui fuori causa, ci basterà
accennare innanzi tutto al romanticismo nella morale che è quello stato d'intimo dissidio, di contrasto fra coscienza e realtà, fra aspirazioni e necessità che si ritrova in ogni epoca e costituisce l'essenza di opere le più lontane e diverse fra loro, se considerate soltanto come espressioni artistiche: orbene, se fosse lecito ancora parlare di forma e contenuto nell'opera d'arte come di due elementi del tutto scindibili e discriminabili, vorremmo dire che è sotto il rispetto del contenuto che noi consideriamo romantica l'opera di Malipiero. Viene in secondo luogo il romanticismo artistìco, il quale si manifesta in quelle opere in cui il contenuto (per usare ancora la vecchia distinzione) essendo tutto, la forma non è concepita perfetta in ogni suo particolare, ma degrada qua e là nel vago e nell'indeterminato, o nel ridondante e pleonastico: l'artista romantico sub specie artis non riesce ad esprimere con compiutezza l'insieme della sua intuizione, sia per dispregio della forma sia per la incapacità, derivante dallo stato d'animo tumultuoso, di oggettivarsi nell'attimo creativo, di placare nell'atto della espressione, ch'è l'atto estetico per eccellenza, il ribollire della passione: in una parola di superarsi nell'opera d'arte. E sotto questo riguardo Malipiero non è affatto romantico, in quanto ogni sua pagina, al lume della critica, non presenta soluzioni di continuità o squilibrio di proporzioni; si lascia guardare, come dice l'Herbart precisamente a proposito degli artisti classici, « da tutte le parti ».
In tutta l'opera di Malipiero questo dissidio, o meglio questa doppia essenza è rintracciabile, dove più e dove meno: e qua prevalgono gli spiriti romantici e là essi sono adombrati e padroneggiati dalla classicità dell'espressione e soltanto ribollono nel profondo. Ma dove la coesistenza è perfetta, là l'opera d'arte si presenta mirabile: viva e vibrante per tutti i fermenti di passione che le dettero l'impulso, e chiara pacata armonica per l'espressione che ce la rivela.
Per suffragare la nostra affermazione, abbiamo citato alcuni esempi tratti dalle opere giovanili del musicista, ma altri possiamo trarne da lavori assai più recenti: Poemi asolani, Pause del Silenzio, Pantèa, Sette Canzoni. La trama del dramma sinfonico Pantèa, quale ci è fornita dall'autore stesso, potrebbe essere il programma di un poema sinfonico di Liszt: i contrasti più aspri che formano la sostanza delle Sette Canzoni, resi ancor più forti dalla mancanza di ogni apparecchio decorativo ed episodico, costituiscono altrettanti spunti di fantasia romantica: la donna che prega fervidamente e il grasso frate che la richiama alla realtà piatta e quotidiana, la fanciulla che piange accanto al letto della madre morta e il giovane che sotto le finestre le canta una canzone d'amore: cielo e terra, spirito e materia, la morte e la vita, il dolore e l'amore. Malipiero è affascinato da queste visioni, donde emana un senso di fatalità e di mistero; per quanto egli tenti, non riesce a sottrarsi ad esse neppure nelle pagine che, a tutta prima, parrebbero ispirate ad una concezione decisamente realistica. Le seconde Impressioni dal vero, per citare un esempio, sono issai più vicine allo spirito di un Turner o di un Ruysdael che non a quello di un Manet o di un Courbet. Chi credesse, dal titolo, di ritrovarvi le caratteristiche dell'impressione, sarebbe deluso sin dalle prime battute: in esse di vero, nel senso di direttamente evocatore dal quadro, non v'è quasi nulla: il compositore, mentre credeva di oggettivare le tre scene naturali, di esserne spettatore ed evocatore, appassionato quanto si voglia ma pur sempre con un senso di distacco, ha guardato unicamente dentro a sè stesso e ci ha dato la traduzione musicale di tre stati della sua intimità. Illusione ch'è romantica per eccellenza ed è felice illusione chè ci ha dato i capolavori di analisi psicologica del secolo scorso ed ha rivelato forse per la prima volta compiutamente l'uomo all'uomo.
Romantico dunque per lo spirito, ma classico per la sobrietà e semplicità di mezzi, per la chiarezza e trasparenza dei colori, per la compostezza e contenutezza della elaborazione lineare. Ci ha narrato un biografo del nostro musicista, il Prunières, di due avvenimenti di notevole importanza che trovan luogo nella sua vita spirituale: la prima audizione dei Maestri Cantori e la scoperta delle musiche dei sei-settecento italiano, di Monteverdi, Cavalli, Marcello, Tartini ed altri, lette avidamente alla Biblioteca Marciana di Venezia e fatte in seguito oggetto di continuo ed amorevole studio. I due avvenimenti hanno avuto entrambi una influenza sullo sviluppo della 'aisthesis' di Malipiero, ma in misura ben differente. L'influenza wagneriana è rimasta sempre alla superficie e, se mai, come essenza spirituale essa fu assorbita nel preesistente mondo romantico dell'artista: quella invece della musica italiana antica fu meno sensibile in un tempo immediato, ma in seguito segnò decisamente l'orientazione del musicista e contribuì alla formazione della sua personalità. A guardar bene, la melodia di Malipiero, sin dai suoi primi lavori, presenta una sensibile affinità con quella dei compositori drammatici del seicento; la stessa plasticità e la stessa fermezza che non ammette abbandoni di eccessiva dolcezza, A mano a mano che si procede innanzi nell'opera la individualità della melodica di Malipiero si fa più salda ed evidente ma il punto di partenza è sempre rintracciabile: la deliberata omissione di certi gradi della gamma e l'introduzione di certi intervalli di recente data non bastano a nasconderci l'origine di molti dei più caratteristici fra i temi dell'opera malipieriana. Nelle melodie cantate l'affinità è ancor più rilevabile; assai spesso il musicista ha scelto dei testi arcaici, i quali già da sè stessi suggerivano una veste musicale di sapore classico. Si considerino certi recitativi drammatici di un'efficacia indiscutibile, come per esempio quello della madre demente nella terza delle Sette Canzoni, oppure certe frasi spiegate che si ritrovano nel San Francesco d'Assisi, o ancor più gli atteggiamenti vocali umoristici che sono frequenti nell'Orfeo e nella Morte delle Maschere e che il Malipiero ha usato con rara felicità a tradurre musicalmente lo spirito dei sonetti del Berni o del Burchiello. A volte all'influenza del melodizzare classico si aggiunge quella del canto liturgico, ed in particolar modo del melisma: ma questo il musicista riallaccia con appropriato innesto al canto popolare, e per esso acquista una capacità espressiva che lo diversifica nettamente dal puro arabesco sonoro. Caratteristica della melodia di Malipiero è per l'appunto questa affinità melismatica nel senso più vasto: essa cioè non si adorna di fioriture ornamentali che aureolano questa o quella delle sue note nei punti di cadenza e di concentrazione emotiva, ma si distende lungo un'ampia linea che ritorna più volte sulla stessa nota, tenendo fisse una o due note di attrazione, come perni attorno ai quali l'organismo melodico si sviluppa liberamente. Esempi di tali procedimeiiii (da cui non solo la melodia ma tutta l'architettura delle pagine riceve saldezza ed unità) se ne possono citare a volontà.
Con temi siffatti Malipiero impronta la sua composizione e, in apparenza ossequiente a quel principio modernissimo che va sotto il nome di 'ellittismo', in realtà obbedendo ad una sua particolare necessità interiore, non si cura di svilupparli; se li ripete, lo fa a volte quasi senza variarne la ambientazione armonica, quasi sempre senza variarli affatto. Conseguenza di ciò è la simpatia del compositore per un tipo di suite, qualche cosa come una successione di pannelli di cui ciascuno vuole avere un carattere ben definito, a volte in prosieguo di quello dei quadretti attigui, più spesso contrastante. Su questo schema, che il musicista sembra abbia vagheggiato sovra tutti, sono modellate buona parte delle ultime composizioni: le Pause del Silenzio, i due quartetti d'archi Rispetti e strambotti e Stornelli e Ballate, un notevole numero di lavori pianistici nonchè le Variazioni senza tema per pianoforte e orchestra.
Il principio modernissimo di tali 'verreries' presta il fianco a parecchie obbiezioni: l'ostentato dispregio per lo sviluppo tematico (la classica durchführung della forma-sonata, fissata e portata ad un alto grado di virtuosismo in particolar modo dai romantici germanici) ha qualche ragione di essere se si rivolge verso quell'arido lavoro a freddo, che su ogni tema, su ogni frammento di tema vuol ricamare festoni e basare costruzioni imponenti, pur se il tema non lo permetta, cioè se non abbia in sè possibilità di sviluppo: chè in questo caso si tratta veramente di matematica, come ebbe a chiamarlo il ribelle Moussorgsky. Il guaio si è che il più delle volte questo ostentato dispregio vuole nascondere la incapacità di certi musicisti a creare dei temi fecondi, dei nuclei ricchi di vita in potenza ricchi di atteggiamenti melodico-ritmici, dai quali nasce quasi spontaneamente una fiorìtura di discorso musicale; certo è che da buona parte dei temini esili ed anemici di alcune paginette moderne, anche a strizzarli sino all'osso, non ne verrebbe fuori niente di buono e di succoso; in questo caso impiantarvi sù uno sviluppo sarebbe, oh si, perfettamente inutile, e il magistero del tecnicismo non riuscirebbe a farci apparire necessaria e significativa l'elaborazione. Ma chi sente il distacco fra la cellula germinale e le pagine cui essa dà vita, là dove queste sono nate da quella senza sforzo e quasi senza la volontà del musicista: come è in Beethoven ed in certe composizioni di Schumann e di Brahms? Qui lo sviluppo non che non nuocere al tema, lo avvantaggia, e lo sostanza, ce lo fa apparire a pieno, e aiuta a sentirne la forza e l'efficacia espressiva.
In Malipiero la mancanza dell'elaborazíone tematica non si deve imputare allo scarso potere fecondativo dei temi, ma piuttosto a quel suo bisogno di sintesi e di laconicità che egli rivelava già in opere meno mature di quelle che abbiamo sopra ricordate. Ma occorre vedere se e quando questa concezione della pagina musicale non dia luogo ad incompiutezza, e non lasci nell'ascoltatore un senso fastidioso di insoddisfazione: si rinuncia volentieri ai lunghi discorsi quando in una sola frase colui che ci parla è riuscito ad esprimere adeguatamente il suo pensiero, a rivelarci il suo sentimento, senza mancamenti e senza ambiguità. Ed a noi pare che in molte delle composizioni per pianoforte scritte dal Malipiero dopo i tre commossi Poemi asolani, questo senso di incompiutezza sia evidente; se non come ricerche di sonorità pianistiche, quelle pagine ci sembrano scarsamente significative, a volte stranamente squilibrate, come appunti o schizzi gettati già alla brava, da servire in un secondo tempo per opere di più ampio respiro, a volte insistenti su certe formule che non sono poi neppure di schietta natura malipieriana.
Dove invece Malipiero ha raggiunto una bella compiutezza è nei due quartetti e specialmente nel secondo, Stornelli e ballate; quivi ciascuna parte ha una sua ragione di essere ed un suo sviluppo - sia pure non formale - tale da farcene gustare la fluida liricità e la perfetta realizzazione sonora. In ciascuno dei tempi che lo compongono, per quanto brevi, abbiamo un quadro compiuto: manca la cornice materiale, ma la sostanza si organizza in essi e raggruppa felicemente attorno al nucleo essenziale, e le sue risonanze si prolungano ad ampliarne il respiro, che quasi non si crederebbe ad un primo sguardo gettato sulla partitura: e dall'insieme si ha una gradita impressione di varietà e insieme di unità. Questo duplice pericoloso scoglio, la monotonia e l'uniformità da un lato e la frammentarietà e incompiutezza dall'altro, è stato da Malipiero pur evitato in un altro dei suoi importanti lavori: nelle Sette canzoni, cioè, là dove più e meglio si è affermata, sinora, la sua personale concezione drammatica e dove il musicista perviene a risultati di una indiscutibile originalità. Sono sette quadri a fondo tragico e comico-grottesco alternativamente, impostati sopra una breve vicenda drammatica; ciascuna vicenda, a sua volta, si raccoglie attorno ad una canzone, ad una vera canzone quasi sempre di carattere popolaresco, ch'è come la nota dominante della scena. Le Sette canzoni si eseguiscono senza ìnterruzione; e pur così varie e diverse come esse sono, hanno una singolare unità e omogeneità di sostanza musicale e di stile. Il musicista le ha viste sfilare dinanzi ai suoi occhi una di seguito all'altra e la musica le ha legate in un tutto senza soluzioni e mancamenti, perchè continuate erano le sensazioni donde essa scaturiva: ciascuna vicenda drammatica conduce per contrasto alla seguente, e lo spettatore le vedrà passare tutte dinanzi ai suoi occhi senza sentirsi sbalzato da un mondo all'altro, l'orchestra incaricandosi di rappresentargli l'unità del lavoro. Ma ciascuna scena ha un suo ritmo compiuto: nel giro di poche pagine si racchiude la preparazione al breve dramma o alla breve commedia, il suo sviluppo - in profondità più che in estensione - e la sua catastrofe: l'unità dell'insieme si sostanzia per l'unità delle parti. E questo sicuro senso dell'equilibrio conferisce all'opera un grandissimo valore, qualunque possa essere il nostro pensiero sulla singolarissima concezione di essa come lavoro destinato al teatro.
Al teatro attuale Malipiero è pervenuto attraverso una considerevole esperienza fattiva. Per quanto sin dai suoi primi saggi operistici fosse evidente la ribellione del musicista contro tutto il melodrammismo post-verdiano, pure egli non è riuscito a coneretare la sua visione di teatro musicale se non da pochi anni: innanzi egli ha sacrificato, se pur non del tutto supinamente e senza riserve, alle personalità più invadenti della seconda metà del secolo scorso, ed a Wagner innanzi tutto. Questa influenza si rivela specialmentè nella concezione complessiva dell'opera più che nel linguaggio che la esprime, il quale assume, come si è già notato, sin dalle prime composizioni di Malipiero una notevole originalità. Canossa e Sogno d'un tramonto d'autunno (per trascurare le distrutte Schiavona ed Elen e Fuldano) sono i saggi cui alludiamo. Canossa, a parte le pagine musicalmente pregevoli, è ancora un quadro lirico-drammatico informe, dove la disuguaglianza dello stile dà luogo a fastidiose disarmonie e squilibri. Più interessante il Sogno su poema del d'Annunzio, dove c'è già più di Malipiero, specialmente nella parte vocale: ma l'opera è sovratutto un pretesto ad una magnifica orgia di colori e di ritmi, là dove l'orchestra rievoca in primo piano l'abbagliante sfondo del paesaggio veneziano sulle rive del Brenta, rievocatore di una vita fastosa di cui gli echi quasi permangono ancor oggi nella solennità silenziosa dei parchi e delle ville principesche. Ma nella figura della protagonista, la dogaressa Gradeniga, Malipiero ha creato il suo primo tipo di attore drammatico-musicale; essa recita la sua parte intonando le parole a seconda che lo richiede la concitazione del dramma: il cantante a poco a poco scompare e subentra l'attore? come sarà poi più pienamente nelle Sette canzoni.
Tuttavia innanzi di giungere a questo lavoro si deve considerare il mimodramma Pantèa, che rappresenta la sua prima più assoluta reazione al melodramma tradizionale. Pantèa è altrettanto lontana da quest'ultimo quanto dal ballo e dalla rappresentazione coreografica in genere: poi che in essa quell'elemento prezioso ai fini della concezione globale drammatica ch'è la danza (o meglio la plastica, poiché Pantèa esprime ìl suo dramma, a volte, immobilmente), non dà sensazioni di bellezza, non disegna arabeschi, in una parola non è fine a sé stessa, ma serve di mezzo per esprimere il pathos della creatura protagonista. La musica figura i diversi atteggiamenti, le fasi sentimentali attraverso cui passa la sua anima creando intorno al segno visivo l'intimità essenziale del momento drammatico; sottolinea ed illumina; ma non si sviluppa e non si amplifica oltre il tratto inciso dalle movenze della danzatrice. È palese per essa la volontà del compositore di non soverchiare l'espressione mimica, di non distogliere, neppure per un attimo, l'attenzione dello spettatore da ciò in cui si racchiude il senso del dramma, quale è giocato sulla scena.
Ma il musicista non sapeva rinunciare alle possibilità espressive della voce umana: ed ecco le Sette canzoni e poi l'Orfeide, ed ecco le Commedie Goldoniane. In questi saggi di teatro musicale, ai quali si può aggiungere, con qualche riserva, il mistero S. Francesco d'Assisi, sotto l'apparente diversità delle realizzazioni prende corpo e si rivela una tendenza unica per quanto riguarda la collaborazione e coesistenza della musica con la vicenda scenica. Il problema dramma si è decisamente spostato da come lo prospettarono i musicisti dei passato, cioè come risoluzione di un'equazione a due sole incognite: musica e poesia. Quando si parla del teatro di Malipiero occorre insistere particolarmente sull'elemento scenico, visivo, perchè di prima importanza, forse più importante ancora, in talune pagine, di quello sentimentale e passionale.
Uno dei più recisi contrasti fra dramma in prosa e opera in musica, dal punto di vista creativo, è secondo il nostro musicista la rispettiva importanza dell'attore. Nel dramma senza la musica l'attore è elemento essenziale, l'istrumento principale di cui l'autore si serve per presentare le sue idee, per rendere palesi le sue emozioni agli ascoltatori e spettatori. Nell'opera, al contrario, la posizione dell'attore è spostata dalla presenza dell'orchestra. (Naturalmente tale trasposizione varia a seconda della diversa importanza e predominanza che l'orchestra ha nell'economia dell'opera coniplessiva: minima nell'opera tedesca del settecento, massima in quella di Wagner). Questa rivalità fra l'attore e l'orchestra continuamente minaccia e tende a distruggere l'unità della concezione: allo spettatore meno musicale avverrà di sopprimere idealmente l'orchestra e di considerare l'opera come una pièce, ad uno più musicale sarà facile dimenticare di assistere ad una rappresentazione che si svolge sul palcoscenico e seguire il discorso sinfonico come per sè siante. Il problema del creatore consiste nel legare il mondo scenico (reale) con quello (immaginario) creato dalla sua musica, di maniera che essi si integrino senza interferire tra di loro e nuocersi a vicenda. Nessuno dei due deve abdicare alle sue possibilità espressive e rappresentative, necess,arie come esse sono entrambe ai fini dell'opera musicale.
Da questo principio sembra essere partito Malipiero nella ideazione del suo teatro musicale. Le parole di lui: «Per me drammatico vuol dire che si vede mentre la musica ci presenta quello che non si vede», pur nella loro sommaria e imprecisa locuzione, ci fanno intuire il problema che il musicista si è proposto e la soluzione ch'egli ne ha vagheggiato. (Accenniamo incidentalmente alla affinità di questa discriminazione di elementi nell'opera composita, con quella formulata di Ferruccio Busoni nel suo «Saggio di una nuova estetica della musica» ed esemplificata con l'episodio della allegra brigata notturna che si allontana sul palcoscenico, mentre sul davanti della scena si svolge una lotta silenziosa e disperata. La musica, secondo il Busoni, deve qui preoccuparsi di mantenere presente allo spettatore l'allegra brigata, la quale già non è più visibile, mentre ciò che fanno i due antagonisti sulla scena è chiaro senza altro commento e la musica, dal punto di vista drammatico, non deve interrompere il loro tragico silenzio).
Nei drammi di Malipiero la musica non soverchia mai il gesto, non si impone tirannicamente: ridotta ad un'espressione salda e schematica essa si rivela, vorrei dire, in atteggiamenti plastici che fermano un gesto e lo traducono musícalmente. Come la vicenda corre rapida e snella, liberata da ogni circonlocuzione psicologica, sicura della sua via, sostanziosa e sostanziata in ogni battuta; così la musica non conosce l'episodio e non abbandonandosi a sè, cioè controllandosi sempre con quanto avviene sulla scena, riesce a mantenere il suo posto e a non invadere quello che compete agli altri fattori del dramma. «Tutto si vede» e la musica non fa che accentuare il rilievo del gesto. In questo prevalere di espressioni visive il musicista delle Sette canzoni e delle Commedie Goldoniane trova la sua via d'uscita dal mondo melodrammatico dell'ottocento con il quale egli ha rotto ogni ponte. Non solo, ma afferma una sua precisa, inconfondibile originalità di drammaturgo musicale; ché se per il linguaggio egli può avere - anzi, secondo noi ha, come si è detto - punti di contatto con la musica italiana anteriore a quella del secolo scorso, per la visione complessiva non trova precedenti nè in Italia nè fuori d'Italia, pur tra i radicali riformatori del teatro musicale. (Ma forse non è senza precedenti nel campo del teatro drammatico: per limitarmi soltanto all'Italia, penso che il teatro sintetico futurista abbia potuto in qualche modo giovare alla estrinsecazione dell'idea di Malipiero; come a proposito dell'Orfeo, in cui tre pubblici differenti assistono ad una rappresentazione che ha luogo in un teatro sulla scena, non sarà fuor luogo pensare ad una situazione analoga, ideata da un bizzarro spirito settecentesco e veneziano per giunta, da Carlo Gozzi, in quella sua fiaba dell'Amore delle tre melarancie che or non è molto ha fornito il soggetto all'opera musicale di un audace compositore russo).

I limiti assegnati a questa presentazione del musicista italiano non ci consentono di dilungarci ancora, come vorremmo e come si richiederebbe, su altri caratteri del teatro di Malipiero; ma esso, per quanto sia importantissimo per la valutazione della sua opera complessiva, non costituisce la sola affermazione della sua personalità.
Una considerevole attività creatrice Malipiero ha svolto nel campo della musica sinfonica: non potendo intrattenerci particolarmente su ciascuno dei suoi lavori orchestrali ci limiteremo ad isolare alcune caratteristiche comuni a tutte le sue partiture. Per quanto riguarda dunque la tavolozza orchestrale, diremo che le opere di Malipiero, nonostante la loro ricchezza e varietà di atteggiamenti sonori, si presentano come un tessuto chiaro e leggero. La difficoltà della trascrizione pianistica e più ancora l'incompiutezza spesso snaturante di alcune di esse, per quanto redatte dall'autore stesso, si spiegano non come impossibilità di sintetizzare nelle due righe del pianoforte la molteplicità dei disegni e delle colorazioni (che è il caso più frequente: si pensi alle numerose traduzioni pianistiche delle opere di Wagner che spesso presentano delle difficoltà di esecuzione considerevoli anche per un virtuoso della tastiera); ma come impossibilità di dare ai temi ed alle armonie quell'intimo significato che solo il timbro dell'istrumento può loro conferire. Se si riuscisse a sormontare questa difficoltà, cioè se il pianoforte potesse dare, acusticamente e in via diretta (e perciò non per associazione di idee), il suono di ciascuno istrumento; trasportare una pagina sinfonica di Malipiero dall'orchestra al pianoforte sarebbe il lavoro più facile del mondo; chè raramente, oltre agli archi, vi sono nelle ultime composizioni malipieriane più di due parti reali affidate agli altri istrumenti. Non bisogna lasciarsi impressionare dalla lunga fila di nomi di istrumenti che appare sul frontispizio della partitura: la pagina è sempre chiara, le linee si sviluppano in un'atmosfera sottile e trasparente, e quasi mai s'intrecciano e si complicano in una fitta rete di polifonia. Lo sforzo del musicista tende sovratutto allo sfruttamento di ogni sonorità singola, a situarla nella miglior luce possibile, a pensare per essa la sua idea melodica si che chi ascolta non possa pensarla a sua volta se non con quel particolare colore istrumentale. L'orchestra di Malipiero - dopo quella di Debussy e di Strawinsky - finisce di distruggere il dogma sancito dai trattati di orchestrazione e col dogma la ragione d'essere di quei trattati: per lo meno in quanto essi elencano gli impasti possibili e consigliano di adottare questo o questi piuttosto che quelli istrumenti per riprodurre un'idea melodica, per creare un ambiente armonico. Quando Rimsky-Korsakow nei suoi Principi di orchestrazione sostiene la possibilità d'orchestrare in più modi una idea musicale non concepita originariamente per alcun istrumento, che sarebbe a dire una specie di astrazione matematica, contribuisce a perpetuare il gusto dei elichés orchestrali e delle ricette, quali noi li ritroviamo quasi senza eccezioni nel maggior numero di partiture del secolo scorso.
L'orchestra moderna, preannunziata da Berlioz e da Liszt, ha il suo primo esempio compiuto nell'Après-midi d'un faune. Essa è stata conseguenza inevitabile della evoluzione armonica che ha rinnovato profondamente tutto l'organismo dell'arte musicale. La graduale liberazione dai vincoli del sistema diatonico ha preceduto e preparato il rivolgimento di quella che impropriamente si seguita a chiamare tecnica dell'orchestrazione. A ciò si è aggiunto l'incremento del ritmo, che la vecchia armonia cadenzale aveva pur costretto a dipendere da un numero ristrettissimo di formule stereotipe. Malipiero stesso traccia le linee di questo rinnovamento della funzione orchestrale quando ci dice «I classici adattavano il pensiero musicale all'orchestra; i moderni adattano la materia orchestra al loro pensiero sinfonico ogni istrumento ha completamente cambiato fisonomia ed è entrato a far parte della rinnovata orchestra mutando con essa non nella apparenza ma nella sostanza... L'idea musicale (ritmo, armonia) ora è l'oggetto e l'orchestrazione la luce che lo illumina. Lo stesso oggetto con più luci assume infiniti aspetti, mentre la stessa luce tende ad uniformare tutti gli oggetti che illumina».
Posti questi principi, il musicista tende a mano a mano che procede nelle sue esperienze, a una sempre maggiore semplicità: l'esame delle tre serie di Impressioni dal vero ci fa assistere a questa progressiva intensificazione e condensazione di elementi. La visione si allarga: dal breve quadretto del primo trittico - tre semplici histoires naturelles, senza tuttavia alcunchè dello spirito ironico raveliano - al grande affresco di I cipressi e il vento e della Baldoria campestre (II serie), alla suggestione dell'en plein air di La tarantella a Capri (III serie), i mezzi sono sempre gli stessi, anzi in numero minore, ma le sonorità divengono più ampie e le linee essenziali della pagina più nutrite e di maggior respiro. C'è ampliamento ma non appesantimento; la esperienza del musicista è ormai sicura e sa trarre tutto il partito possibile dall'uso tempestivo degli strumenti e dalla consonanza di timbri.
Tutto ciò che s'è detto nei riguardi della speciale conformazione, del disegno dell'orchestra di Malipiero - e che è frutto di una considerazione a posteriori - riesce a trasformarsi da teorizzamento in realtà d'arte e ad,avere perciò valore per il critico, per il fatto che, secondo le parole stesse citate dal compositore, quel principio si adegua perfettamente alla sua ispirazione. Una musica come quella di Malipiero, di una singolare incisività e fermezza, non potrebbe rivelarsi se non attraverso questa orchestra nervosa, a volte scarna persino ed asciutta. Il suo carattere accentuatamente. ritmico e melodico, il rifuggire ch'essa fa da ogni stagnazione armonica (intendo per stagnazione il soffermarsi a creare impalpabili e deliquescenti atmosfere di armonie perdendo in esse buona parte delle possibilità di moto e di vita), la estrema mobilità dei suoi impulsi, che ora la dirigono verso una mèta ed ora verso un'altra opposta, alternando le due faccie antagoniste della sensibilità dell'artista, richiedevano questa orchestra irruente, tutta scatti, tutta linee che si slanciano in avanti, ed esaurito il loro impulso cedono il posto ad altre, sprizzate da altre origini, e capaci di proseguire lo slancio sempre rinnovate di forza espansiva. Musica come questa che disegna con tratto reciso e quasi incavato, che colorisce con colori semplici, con pennellate ferme e precise (un tòcco qua, uno là, e il quadro si rivela e la situazione si impone, senza ambiguità anzi con prepotenza) non poteva esprimersi se non attraverso una elaborazione sinfonica altrettanto schiva di blandizie sonore e di sfuinature sottili: la stessa crudezza dei contrasti, quel rilevare le masse con forte chiaroseuro ch'è nella natura musicale di Malipiero si ritrova nella sua orchestra e in genere nella realizzazione dei suoi mezzi espressivi. Attraverso una esperienza di vent'anni, attraverso le crisi di spirito e di forma, ad alcuna delle quali s'è fatto cenno, attraverso una produzione ch'è tra le più copiose e varie fra quelle contemporanee, il musicista veneziano è pervenuto ad un risultato ch'è meritevole della più alta stima ed in ogni caso di rispetto. Oggi nelle sue opere non v'è più il segno di alcuna preoccupazione; non la traccia dello sforzo dell'esprimersi, non lo stentato o il voluto ch'è iiell'opera di coloro, e non son pochi ai giorni nostri, che voglion parlare un linguaggio che non è loro, ed al quale essi debbono sottomettere ogni loro fantasia e creatività (se le posseggono).