GIANANDREA GAVAZZENI

PER IL SETTANTACINQUESIMO
COMPLEANNO DI PIZZETTI




IL LINGUAGGIO E LA FORTUNA

DI PIZZETTI

Un foglio di calendario che si volta, nella esistenza di un artista non dovrebbe avere altro significato fuor di quello fisico, se la presenza di tale artista nella vita musicale e nella cultura sia attiva, operante, ancora in grado di sostenere interessi. Come per le donne capaci di fascino, gli anni non contano per gli artisti creatori. Contano i periodi, i cicli, le diverse età poetiche, direi, che diedero un senso alla loro carriera. E importa, a segnare l'individuale cronologia, il rapporto fra questa e gli eventi e i caratteri estetici e pratici di un tempo; il rapporto, cioè, fra il tempo personale di un artista e il tempo culturale che lo ha circondato.
Eppure, quando la furiosa dissipazione odierna ce lo consente, anche la scadenza del calendario solare ha i suoi lati proficui. Com'è il caso di oggi, con la presenza fra noi, a Milano, di Ildebrando Pizzetti; mentre da appena ventisei giorni egli ha compiuto il suo settantacinquesimo anno.
Non è certo il nostro un tempo che renda gradevoli alle persone serie e laboriose le manifestazioni retoriche o le celebrazioni altisonanti. Questo tempo secco e perfino crudele seguito alla guerra; questo tempo in cui la sincerità giunge all'impudicizia, la crudezza analitica conduce all'autolesionismo o alla paralisi creativa e all'atonia morale; questa strana, inquieta temperie che ci avvolge, istigandoci ad essere amari verso noi stessi e a recare talvolta amarezza anche alle persone che più abbiamo amato e che più amiamo; tutta questa condizione spirituale e nervosa penetrata persino nell'organismo critico contagiando la validità del giudizio, fra i tanti danni reca almeno la condanna di un linguaggio celebrativo, e promette una probabile schiettezza nel contatto fra un'artista e una società.
Dal saluto augurale premesso alle esecuzioni che ascolterete, non è certo, Ildebrando Pizzetti ad attendersi parole di insistita ammirazione. E neppure frasi di uso che annoierebbero chi le pronuncia e chi le ascolta. Vale piuttosto soffermarsi su ciò che la ricorrenza offre il destro a indicare. E in primo luogo la presenza pizzettiana nella cultura e nella vita musicale italiana. Che dura da oltre mezzo secolo; che si è radicata da quando apparvero la Fedra e la Debora; le Cinque liriche e le Sonate per violino e per violoncello; le Due canzoni corali e la Messa di Requiem; da allora in poi, sino a toccare concretezza gloriosa nell'ultimo trentennio.
Ora il fatto sintomatico è questo: Pizzetti settantacinquenne non è musicista passibile di imbalsamazione nel museo delle glorie patrie. Proprio oggi, ancora oggi, è riferimento ineliminabile nel discorso sulla musica moderna; è paragone di linguaggio e di stile attraverso il quale si deve passare. E ciò continua a verificarsi quando gli elementi riferibili o paragonabili riguardano il problema operistico, o la vita formale, oppure l'esistenza o inesistenza dei «generi», o ancora l'inestinguibile mutuazione fra parola poetica e suono musicale.
A differenza di quanto avvenne nel periodo fra le due guerre, molti giovani e giovanissimi compositori evitano oggi l'inserimento in quella che può esser detta una vera e propria tradizione pizzettiana. Per aderire invece a una media tendenziale caratteristica del momento odierno. Oltre la contingenza apparente è anche questo un fenomeno che accenta la singolarità gagliarda della presenza pizzettiana. Perchè ne viene rinvigorito un moto dialettico, ne viene acutizzata una opposizione e ne prende animazione il contrasto drammatico dove il nostro tempo musicale riconosce i suoi caratteri.
Dopo la fase del proselitismo, la presenza di Pizzetti conosce adesso la fase di una nuova solitudine; una solitudine robusta e fierissima alla quale d'altra parte risponde la continua diffusione delle opere, il duraturo fervore del successo, la persistente discussione critica.
Contraddizione a suo modo logica, improntata a schietto realismo. In quanto nella progressiva eliminazione di valori musicali personali che oggi viene praticata, maggiore spicco estetico e rinnovato
e interesse nella pubblica opinione, ne vengono a quei musicisti che più impressero al tempo novecentesco la loro personalità poetica e stilistica.
Se i fragori dell'Elettroniche Musik e della Musique concrète dovranno travolgere in un prossimo futuro l'attuale civiltà musicale; se gli ingegneri dei suoni sostituiranno i compositori, e i magnetofoni prenderanno il posto degli strumenti suonati da uomini vivi; queste individualità musicali novecentesche saranno dunque state le ultime di una idea, di una configurazione di musica che dal Cinquecento ad oggi ha accompagnato le fasi più belle e più consolanti dell'arte e della cultura umane.
Ora la forza pizzettiana la possiamo riconoscere proprio in questo: il musicista era cresciuto in periodo e in ambiente che praticavano ad ogni costo il culto individualistico, sino all'idoleggiamento, alla mitizzazione, al disfarsi d'ogni etica sociale e d'ogni rigore estetico. Da allora ad oggi, in mezzo secolo, quante volte egli avrebbe potuto essere travolto. Energie diverse delle sue, verità e falsificazioni dell'arte contemporanea, raffiche dei più impetuosi movimenti di pensiero, potevano magari lasciare intatto il valore storico della sua posizione. Avrebbero però potuto eroderne le capacità vitali, recidere il legame fra il compositore e la vita musicale attiva; attutire o addirittura spegnere la risonanza che la emozione creativa di chi compone deve trovare nell'emozione di chi ascolta. Nulla di strano nè di eccezionale insomma se al periodo della maggiore fortuna fosse seguito il periodo dell'oblioso rispetto. Proprio quello che non avvenne. E ne è una
prova appunto l'incontro di stasera, in una sede come il Piccolo Teatro milanese che conobbe le manifestazioni più vive dell'arte drammatica italiana del decennio recente, e praticò le esperienze teatrali più attuali, per un circolo culturale come il Centro Pirelli, attento ad ogni nuova voce o movimento artistico che si manifesti.
Le ragioni di una simile durata, di una così agguerrita resistenza non sono da trovare soltanto nel prestigio di un linguaggio musicale inconfondibile, o nell'aggiunta di altri valori a quelli già affermati in passato. Agisce, insieme, la qualità di un carattere umano; intervengono la strenua tenacia, la energia laboriosa. Prerogative talmente salde e continue, nel caso pizzettiano, da recare alla vecchiaia fisica il rendimento di una lunga maturità.
Ed è il mezzo, tutto questo, per superare e risolvere le traversie di un tempo, le mutazioni del gusto, attraverso la fedeltà rigorosa a un proprio mondo poetico, a una idea morale che lo alimenta.
Per musicisti che intendano interpretare il mondo nel quale vivono, sono oggi posizioni ugualmente legittime la liberissima incoerenza o la coerenza severa. Purchè riflesse nell'opera con timbro di autenticità e attuate senza approssimazioni. Soltanto sulla durata della propria voce e sulla certezza del proprio giudizio morale Pizzetti poteva contare, per giungere sin qui senza cedere alla stanchezza o al disamore.
Così abbiamo ancora un esempio di vigore intellettuale, di volontà creativa. Che si aggiunge ad altri che il mezzo secolo attuale ha conosciuto, nella
letteratura, nelle scienze morali, nelle arti figurative. Sono i nomi-che tutti sappiamo; i nomi che più hanno nutrito la nostra giovinezza; gli stessi che continuano a confortare la nostra passione intellettuale, soprattutto quando interrotta o spenta una propria possibilità inventiva, questa passione trova da giustificarsi soltanto nell' apprezzamento del lavoro altrui. Sono i grandi compagni, i maestri, ai quali Pizzetti appartiene. Forse gli ultimi di una civiltà culturale, di un costume; gli stessi che al limite estremo di linguaggi e di forme hanno ancora creduto e fatto credere nelle occasioni della poesia, nei personaggi del romanzo, nella coralità del dramma musicale, nelle figure, nel paesaggio, negli oggetti della pittura.
Non aspettate, vi prego, ch'io vi parli adesso delle composizioni che ascolterete. Sono opere cameristiche entrate da anni nel repertorio concertistico. Su di esse ogni critico anziano o giovane ha misurato il proprio metodo e la propria capacità esplicativa. Dopo avere in passato dedicato io stesso molte pagine a queste e ad altre opere pizzettiaipe, la sorte mi ha portato nei riguardi del compositore ad abbandonare la determinatezza della parola erilica, la penosa ricerca di quella parola che anche se ritenuta il più possibile esatta, ci si accorge quanto sia lontana dalla verità espressiva; la sorte, dicevo, ha voluto che potessi, di Pizzetti, tentare non più l'interpretazione critica ma quella esecutiva. Impresa ugualmente difficile. Ma che non baratterei con la precedente.
Così, invece di illustrare a chi deve ascoltarle, composizioni che per ora non richiedono ulteriore chiarimento, voglio infine cogliere l'occasione di questa presenza di Pizzetti stasera, per ricordare sommariamente la presenza dei suoi anni milanesi, fra il '22 e il '36; ricordarla a chi per ragioni anagrafiche non la conobbe, o a chi ne portasse attenuali i tratti.
Una Milano, allora, diversa da quella odierna, memorabile in ogni suo tono o carattere per chi si apriva a certe irripetibili scoperte della giovinezza. La Milano dei Verri; la Milano del Cagnola; le strade del Manzoni; le trattorie e i tuguri degli Scapigliati. Tutto ciò persisteva, fissato nelle topografie e nelle architetture; nell'odore di certe strade; prima che sorgessero gli edifici che rendono oggi meno amabile il vivere e più aspro il contatto col nostro prossimo. Neo-classicismo, Romanticismo, Impressionismo milanesi che trovarono nella nostra immaginazione giovanile certo affettuoso legame, rintracciabile appunto nei luoghi e negli ambienti.
E in quella dimensione le nuove conoscenze musicali e letterarie a dare al nostro cuore i sobbalzi che mai avremmo dimenticato. Le prime letture del Diavolo al Pontelungo di Bacchelli; o di Lo sa il tonno che appariva nella vetrina di Bottega di Poesia in Monte Napoleone; la prima stupefatta conoscenza degli Ossi di Seppia nell'edizione di Gobetti, che proprio Bruno Pizzetti, uno dei figli del Maestro, ci aveva portato una mattina al Conservatorio; le serate dei premi ad Angioletti e a Comisso, al primo «Bagutta» dove entravamo di sotterfugio col segreto timore d'esser messi alla porta dai camerieri per ragioni di età; altre serate al «Convegno» dove mettemmo il naso negli «irlandesi» tradotti da Linati; dove udimmo la prima volta lo strano nome di Svevo; dove ci avvicinammo una sera alla poltrona vicina al camino, nella quale Bacchelli leggeva fumando un gran sigaro, con la rattenuta tentazione di azzardare qualche parola. Il passaggio, verso sera, davanti alla «Fiera Letteraria», all' angolo di «San Carlo , mentre rodeva l'ambizione di potervi stampare le prime prove critiche.
E per quanto giovanissimi, per quanto appartenenti anagraficamente al secolo novecentesco, si era fatto in tempo a vedere ogni sera alla stessa ora salire da «Monforte» Marco Praga, il bastone infilato nella tasca del pastrano, con qualcosa della tristezza e solitudine paterna che lo isolava; in tempo a recarci in «Principe Umberto», in una casa silente, a suonare il pianoforte da una vecchia signora, alta, ossuta, fantomatica, che aveva amato Alfredo Catalani e ne aveva incantato la vita sentimentale. Ancora in tempo, qualche anno prima, a vedere fra luci e nebbie uscire dal Cova il conte Greppi centenario, ritrovato più tardi nelle pagine italiane di Hemingway.
Gli interessi musicali di quel fervore giovanile poggiavano su due fatti fondamentali: la Scala di Toscanini, il Conservatorio di Pizzetti.
Pelleas et Mélisande e la Debora e Jaele ; il Flauto Magico e il Boris, uditi allora, senza precedenti conoscenze teatrali, in quelle esecuzioni. E Donizetti e Verdi e Puccini, ascoltati così, con tale potenza interpretativa da eliminare nei giovani che allora eravamo la dissipante fatica di doverli risco. prire più avanti nell'età, com'era accaduto a prece. denti generazioni causa soprattutto il malcostume esecutivo.
Ed ecco negli anni di Conservatorio l'azione parallela svolta da Pizzetti quale espressione diretta della sua storia personale, quale esperienza vissuta in prima persona e fatta rivivere nei giovani che lo seguivano.
Il suo modo di leggere nella musica grande; il modo di far leggere nella musica incerta o goffa o lacunosa che andavamo componendo. Com'egli appunto induceva a considerare il testo musicale, e i modi critici o esecutivi che dovevan servire a interpretarlo. E furono quelle lezioni dette «di musica da camera» ch'egli teneva settimanalmente e che divennero subito famose nella vita culturale milanese. Ho ancora nella mente quella dedicata per intero al primo tempo della Sonata in la maggiore per violino e pianoforte di Brahms. E la distinzione fra poesia e manierismo sonatistico ch'egli operava battuta per battuta, periodo per periodo. Eran modi nuovi di lettura. Dopo qualche anno, lavorando a stabilire contatti e ad istituire paragoni, imparai cosa significasse il rapporto fra Pizzetti e la Voce; le letture di Serra, il sodalizio fiorentino con De Robertis. E la sua idea poetica e drammaturgica, durante gli anni milanesi, mi fu chiara appunto attraverso certe sue letture della Norma e del quarto atto dell'Otello. I «recitativi» belliniani li porto ancora nella remota memoria auditiva, come li ascoltammo dalla sua voce, affollati intorno al pianoforte. Su quel filo, era la dimensione lirica dell'arte a precisarsi nella nostra coscienza giovanile, a muovere l'emozione estetica e a renderne mordente il desiderio. Si imparava ad amare e a capire la parola poetica, oltre al suono musicale, indifferenti se l'indefinito e inconsapevole quid che abbiamo stabilito di chiamare poesia prendesse ad esprimersi con l'uno o l'altro mezzo.
E in quegli anni fummo presi dalla lunga e suggestiva storia del contatto fra testo poetico e testo musicale, fra parola e suono; e dalla rete analogica che disseminava di corrispondenze la fantasia dei poeti e la fantasia dei musicisti. Non per nulla ci insinuammo talvolta nell'aula di Banfi all'Università, senza averne il diritto; mentre stavano per nascere i primi approcci con giovani come Anceschi, destinati a mutarsi in radicati sodalizi, anni dopo, in amicizie tenaci.
Fuori dall'aula scolastica la vicinanza pizzettiana continuava. Vicinanza di Maestro e di Amico. Ogni giorno, quando si usciva dal caro cortile lombardesco, e si prendeva per via della Passione, oltre il giardino murato dei Resta Pallavicino, varcando il ponte in ferro che le due grottesche sirene di ghisa vigilavano; oltre il palazzo Visconti, sino a San Babila, sino alla bottega dall'aria farmaceutica del liquorista Donini, dove per anni, ogni giorno, Pizzetti voleva offrirci la «mistura», anch' essa scomparsa fra le macerie. E vicino a lui, due altri maestri, a lui devotissimi, Renzo Lorenzoni e Mario Pilati. La sua opera per i giovani che lo seguivano, per i musicisti che gli eran legati, continuava in quello studio sopra i tetti, in «San Damiano», quando la civile urbanità di allora amava scendessero lungo i Navigli barconi imbiancati dai sacchi di farine, e guardiani armeggiavano con lunghe pertiche alle chiuse; prima che anche il canale, come ogni strada italiana, diventasse pista alla criminalità motoristica scatenata.
Dovrei aver rimorso, se penso al compositore che non fui, delle ore rubate allora a Pizzetti. Senonchè egli non era il maestro di composizione didatticamente inteso. Prima e di più degli strumenti tecnici, egli insegnava a determinare una coscienza artistica e civile; un'idea culturale; proponeva ed esemplificava l'esistenza di un musicista in una cultura moderna e in una società, secondo esigenze che sono del nostro tempo e che impongono certi obblighi. Agire in tal senso, per un musicista che in gioventù conobbe comunanza di lavoro con Gabriele D'Annunzio, è ancora una dimostrazione di umano realismo e di ben precisa volontà etica.
Credo non debba per ciò apparire eccessiva o irragionata la fedeltà di oggi, da parte di quanti ebbero allora Pizzetti a maestro e ne conobbero poi la preziosa amicizia. Senza feticismi e senza incondizionate ammirazioni per ogni pagina scritta o per ogni parola pronunciata. Oltre all'interesse persistente per molte delle innumerevoli composizioni, si resta fedeli a Pizzetti come a una delle stagioni della nostra vita passata.
Nessuna nuova scoperta potrebbe indurci a rinnegare quel tempo e quella figura che gli diede il tono vitale. Si sono incontrati interessi diversi, dopo, come doveva accadere. Appartenenti a generazioni non più votate alla tenace coerenza, all'intransigenza estetica, la mutevolezza del gusto ci ha attratto. Anche il piacere della dissoluzione, la cruda elementarità, la compiacenza di intorbidare ciò che era giunto a limpidezza hanno fatto parte di esperienze successive. Inutile chiederci di essere ciò che non siamo e non possiamo essere. Agiremmo da impostori e da falsificatori qualora volessimo scimmiottare una saldezza altrui, una convinzione rettilinea nel giudizio sulla musica odierna. Conta esser veri, anche se domani ci accorgeremo di aver sbagliato oggi. Importa rimanere aperti ad ogni eventualità che ancora ci aspetta. Senza nemmeno escludere le ipotesi del nostro scetticismo più crudo, quando scoccano le ore sconsolate o le ore iraconde. Ecco perchè ci sono generazioni mediane di musicisti che invece di procedere con l'età verso un probabile equilibrio, nell'opera e nel giudizio, seguono la strada inversa. Ed anche questo è segno del tempo, al quale sarebbe menzognero sottrarsi.
La fedeltà a Pizzetti, per chi li è stato vicino ed ha continuato la consuetudine amichevole con lui, esce intatta anche dai tratti più torbidi di una vita musicale e spirituale in genere. Perchè è fedeltà che va insieme a ciò che di buono può esservi in noi, poco o tanto che sia. Non la sfiora nemmeno, l'irritato commercio del meno sopportabile costume musicale. È fedeltà che troverà sempre in lui una rispondenza, che mai resterà monologante. Perchè Pizzetti, anche nella vita affettiva, non muta. L'impossibilità di mutazione morale egli la fa dichiarare spesso ai personaggi dei suoi drammi. Ma prima, e dopo ancora, la afferma la sua vita esemplare.

IL LINGUAGGIO E LA FORTUNA

DI PIZZETTI

La progressiva fortuna di Ildebrando Pizzetti nella vita musicale moderna vale come definitiva constatazione di un prestigio di linguaggio. E appunto lo scopo di questa nota è di richiamare al lettore che l'importanza dell'arte pizzettiana vuol dire soprattutto importanza d'un particolare modo di esprimersi; cioè nascita di nuovi vocaboli musicali, fonte di impreveduti accostamenti, lessico dunque e quindi linguaggio, con sua vita di grammatica e sue articolazioni sintattiche.
Quello che è nella poesia valore lirico di parole, pulsazione spirituale, evidenza di cose. Parole quali elementi concreti di un'arte. Lo stesso che nella pittura è il «tono». Così anche nella musica. Determinati costrutti melodici, determinate misurazioni ritmiche, allungamenti armonici, timbri, incontri di linee contrappuntistiche che fanno un linguaggio. Moderno o antico non importa. Una lingua, fattore stabile, sostanza d'una vita estetica della musica. Parole, dunque. Vocaboli del linguaggio di Pizzetti. Loro invenzione che risiede entro la storia personale del musicista. La sua storia d'uomo appartenente ad una specifica civiltà; la sua storia di flussi etnici, d'una cultura fatta di voci antiche, di assorbimenti umanistici e di proprie iniziative inventate e fantastiche.
Con il riconoscimento definitivo è implicita la forza persuasiva delle opere. Nell'ammissione di questa forza viene accentata tacitamente la germinazione linguistica, e séguita la sua esistenza immanente, or sotterranea or scoperta, di volta in volta lirica o drammatica, autobiografica o paesistica, ma sempre fautrice d'ogni diverso avvenimento. Ancora: nesso fisiologico di tali mezzi espressivi; allacci e rapporti di un nodo vitale e cosmico che riguarda la stessa struttura dell'uomo come musicista. Di qui i suoi scatti e i moti, le distensioni e i tumulti; illuminazione od ombra di un'indole fisiologica. Tutto il linguaggo di Pizzetti.
Conoscenza, diffusione, riconoscimento di esso nelle opere, nelle musiche, nelle fortune del mondo, vuol dire averlo presente come aggiunta, arricchimento, novità di voci musicali nella funzione che tiene la musica presso lo spirito degli uomini. La vicenda civile delle cose e dei pensieri fruisce, con il resto, con tutto il resto, anche di questa germinazione di vocaboli.
Loro disposizione in un discorso, loro parlare. Chè ho accennato prima ad una vita di grammatica, ad articolazioni di sintassi. E dire vocaboli soltanto, invenzioni di vocaboli, sarebbe veder la forma di oggetti, distaccati, isolati, senz'altro scopo fuor della medesima esistenza come cosa, senza rimedio all'immutabilità di schemi e formule più o meno ricorrenti. Sarebbero, di un linguaggio, i fossili. Oggetti da catalogare e mettere nelle vetrine di un museo: il museo delle lingue musicali.
I discorsi ci sono, invece. I discorsi nascono, per forza e connessione di parole per loro mettersi nel nervo di uno stile, e condurlo e spingerlo. Nascono, s'alzano, vengon su al lume e agli archi di forme, di generi musicali inventati o piegati o infranti a filo di occasioni creative. Vengon su nelle necessità stesse che han voluto la nascita di una particolare parola, in quell'intimo modo del musicista, che ha sentito una cosa o un alto o un sentimento sotto specie di poesia, come urgenza di poesia. Ed è il parlare in quel modo a fare la poetica di Pizzetti. Ed è la poetica a dar le forme e i generi di Pizzetti. Di qui i caratteri. Infine: la somma di tutti i movimenti e le iniziative dell'uomo, che è la personalità. Allargata, questa, ai limiti massimi ove Goethe la voleva.
Così, nei costrutti dello stile musicale, nello spiccar di nuclei e nell'effusione discorsiva, dentro la vena d'un frammento, sul gesto di immagini sonore, va cercata la moralità del musicista, il suo pensiero e il suo giudizio sui fatti che vede, sugli uomini che incontra. Il modo di leggere un testo, di guardare un impeto di persone o di fenomeni naturali. Proprio il suo saper leggere e il suo saper guardare. Il senso assunto da un'antichità di storie. L'umanesimo di ascendenze musicali e letterarie, la moralità, l'impressione, il giudizio, fanno, da un'occasione all'altra, i «generi» pizzettiani. Dover disporre scorci di avvenimenti, di scene, sarà il bisogno di creare un «genere » teatrale diverso dagli altri esistenti. Sempre per la disposizione interna, per il venir alla luce degli episodi linguistici, di vene elegiache o tumultuose, sinfoniche o corali.
Ancora l'accostamento di centri linguistici determinerà la specifica lettura di un testo. E quindi il senso nuovo, il prestigio inedito della poesia ghermita e messa nella musica secondo le supreme esigenze della poetica musicale. Petrarca e gli anonimi greci ridotti in nostra lingua dal Tommaseo; Salvatore di Giacomo e Giuseppe Ungaretti. La lunga forza e persuasione della scrittura del musicista a forzare una scrittura corale, a dare tutto un diverso segno corale, nel comporre per voci sole. L'immaginazione inquieta, e le fratture e le pitture e il divagar fantasioso a chiedere nelle Sonate e nei Concerti, in tutto lo scriver per strumenti solisti e per complessi orchestrali, che le forme, di più, che i «generi» strumentali e sinfonici trovino la logica e le leggi nello stesso colore o timbro d'una melodia, nella successione di accordi, nel racconto di sequenze stilistiche.
Lì, nelle forme e nei «generi» inventati, tutte le giustificazioni, tutte le testimonianze sull'esistenza del linguaggio.
Come sia possibile vedergli una genesi: racco. gliendolo nelle opere compiute. Forse in sedimenti assorbiti dalle cose, dai costumi. Non certo in musicisti o in stili venuti prima. L'incontro con il canto gregoriano, con toni arcaici, mediterranei; con talune inflessioni e voci popolaresche: emiliane e lombarde. Prese di contatto. Punti di incidenza. Materiali che appartengono ad una storia liturgica, assolutamente nostra; oppure, dall'altro lato, sono di una vita di costumi paesistici, d'una specie d'uomini: la vita rurale e borghigiana della campagna italiana, della campagna settentrionale.
Valgono allo stesso modo di incontri con elementi naturali; quello che per un pittore veneziano era l'incidenza con particolari colori, o per un senese le terre maure e asciutte intorno alla città.
Sono, in Pizzetti, gli alimenti civili del suo linguaggio. Un atto di prepotenza e di dominio che dichiara, ugualmente, l'appartenenza alla struttura geografica e spirituale d'una nazione.
Ma i musicisti no, non hanno a che fare. Nulla, lo stile e il parlare di Pizzetti devono alle persone. Qualcuno volle veder la poetica armonistica di Debussy riflettersi, in qualche zona, sulla scrittura giovanile del musicista italiano. Si trattava di accentrare dati momenti linguistici mediante risoluzioni armoniche. La natura, però, di queste risoluzioni non raccoglieva affatto le somme originali dell'armonismo debussiano. Era ancora il discorso, la parola pizzettiana ad accumulare i suoi risultati melodici a cercare, di essi, quasi gli esoterici armonici.
Qualcuno, per il solo fatto che nelle opere teatrali il coro veniva ad assumere spesso un ruolo protagonistico, chiamò in causa la coralità di Mussorgsky. Con i testi alla mano, con il confronto diretto, sul vivo, sarebbe da vedere la mancanza d'ogni parentela, la lontananza di meridiana tra la scrittura corale di Mussorgsky, e quella di Pizzetti. A parte la diversità di materiali fonici, di scopi espressivi, nel russo il coro non conosce polifonia, è un blocco di materia lanciata tutta d'un pezzo alla sua sorte. In Pizzetti, a contatto con le voci corali, il discorso musicale si irradia in continua fluenza di incroci e nascite di linee e somme d'accenti vocali. La sua polifonia ha un itinerario tutto umanistico. I due poli della sua antichità, semmai, stanno tra Gesualdo e Marenzio.
A stabilire quella genesi, allora, occorre star sulla vita del musicista, sulle apparizioni del suo gusto, sul valore che in esso prendono le parole letterarie della poesia, o i gesti degli uomini, o le giornate e i fatti della terra dove viviamo. Nelle musiche. quindi, come ho sempre fatto, andar sulle curve, sulle stagioni, sui racconti di questo italianissimo parlare mediante suoni musicali. In voci e strumenti del lessico pizzettiano.

[1939]