ALFREDO CASELLA

I SEGRETI DELLA GIARA II
pp. 143 ss.

SOCIETÀ NAZIONALE DI MUSICA
SOCIETÀ ITALIANA DI MUSICA MODERNA
CORPORAZIONE DELLE NUOVE MUSICHE
SOCIETÀ INTERNAZIONALE DI MUSICA CONTEMPORANEA


ALTRI ARGOMENTI TRATTATI

SCHÖNBERG E STRAWINSKI - I SALOTTI PARIGINI - LA PRIMA DEL
«SACRE DU PRINTEMPS» -
L'INCONTRO CON MALIPIERO, PIZZETTI
E BUSONI A PARIGI
- GIACOMO PUCCINI - MARIO LABROCA -
TOURNEES IN AMERICA E IN RUSSIA -
STOKOWSKY - YSAYE -
M. E.
BOSSI - LA MARCIA SU ROMA E MUSSOLINI -
D'ANNUNZIO - ELIZABETH SPRAGUE COOLIDGE -
PIERROT LUNAIRE - MORTE DI DIAGHILEF - MANUEL DE FALLA -
TRIO ITALIANO -
IL MANIFESTO DEI CONSERVATORI -
GOFFREDO PETRASSI -
STRAWINSKI - LUIGI DALLAPICCOLA -
MORTE DI RESPIGHI


CON LA CRONOLOGIA DELL'



E CON LA CRONOLOGIA SINTETICA
E DETTAGLIATA DEL FASCISMO



PAGINA TRATTA DA PIERROT LUNAIRE
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Nell'autunno del 1912, ebbe luogo a Berlino la prima, esecuzione del Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg. Già dal 1911, l'arte rivoluzionaria di quel maestro si era imposta all'attenzione universale coi Tre pezzi per pianoforte op. 11, che furono subito conosciuti a Parigi. Ma col Pierrot, la figura di Schönberg acquistò di colpo una importanza enorme e la sua influenza su tutti i maggiori musicisti della sua epoca divenne evidente. Strawinski [THE STRAVINSKIJ PAGE] assisteva a quella prima esecuzione, ed infatti le Trois lyriques japonaises del medesimo anno lo dimostrano, sia pur momentaneamente, preoccupato dai problemi della dodecafonia. Fu però questo un momento che durò ben poco nella sua evoluzione, ed egli ripiegò subito dopo sulla tonalità classica, dalla quale non doveva mai più uscire [1]. Il «duello» fra Strawinski e Schönberg costituisce, si può dire, la sintesi di tutto quel periodo che comincia appunto col 1912 e che non si può ancora dire terminato. Che la dodecafonia schönberghiana, lungi dall' essere il capriccio di un solitario musicista, abbia radici anche remote, questa è una cosa che qualsiasi profondo conoscitore della storia musicale può dimostrare.
Basti ricordare il preludio del Tristano, nel quale sono evidenti le origini del schönberghismo. Altre origini si possono trovare nella imprecisione tonale del romantico accordo di «settima diminuita», caro ai nostri nonni e persino nella fantasia per clavicembalo in do minore di Bach.
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Però, per quanto siano evidenti in quelle musiche le aspirazioni verso la abolizione dei centri tonali, rimane nondimeno certo che nessun musicista probabilmente ebbe mai il coraggio di compiere un salto nell'ignoto paragonabile a quello di Schönberg nei 3 pezzi già citati op. 11. Anche se oggi pare che la vittoria sia rimasta alla musica tonale, non per questo risulta diminuita la grandezza della figura di Schönberg [cfr. invece la posizione reazionaria di Pizzetti, n. d. C.], il quale ha, come ben pochi altri creatori, il merito di poter dire orgogliosamente di aver fatto esprimere alla musica ciò che essa non aveva mai detto prima e di averne allargato all'infinito il regno fantastico.


IGOR STRAVINSKIJ A MILANO NEL 1951
Sebbene, per la mia natura latina, assai maggiormente attirato verso la potente personalità di Strawinski nella quale trovavo maggior rispondenza alle mie aspirazioni,
nondimeno il fenomeno Schönberg fu per parecchi anni una causa di profonde meditazioni per me.
Per quanto nel fondo della mia sensibilità rimanessi legato al senso tonale, pure vi fu un periodo durante il quale tendeva a farsi strada nella mia coscienza la convinzione che la dodecafonia fosse lo scopo supremo della evoluzione moderna.
Questo periodo di dubbi e di esperimenti vari durò dal 1914 sino al 1918. Ma con quest'ultimo anno, il senso tonale aveva definitivamente vinto in me ogni esitazione e la dodecafonia non rimaneva per me che un soggetto di viva ammirazione ma un principio musicale per sempre estraneo alla mia arte di compositore.
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SCHÖNBERG - AUTORITRATTO


RAVEL E STRAWINSKY

Intanto, nell'estate del 1912, terminai il Convento veneziano. Non considero quel lavoro - eccettuati i brani che costituiscono la suite orchestrale omonima - come uno dei miei più felici. È una musica piena di incertezze e di influenze franco-russe, che rispecchia uno stato d'animo timido e dominato da varie personalità, sopratutto Rimski, Strawinski, Dukas e Ravel. Certo se avessi voluto continuare su quella strada facile e senza rischi, sarei arrivato io pure ad un'arte di «quieto vivere» ed avrei scritto qualche poema sinfonico di successo immediato e redditizio. Per fortuna, compresi subito quanto di debole vi era nel lavoro e senz'altro cercai altre vie. Del resto, ebbi una riprova della debolezza del balletto nel fatto che Diaghilef, col suo infallibile fiuto, non volle mai saperne. Mentre invece i brani della suite hanno incontrato ovunque quella fortuna che probabilmente meritavano.
Una tradizione essenzialmente francese fu, per tutto l'Ottocento, quella dei, «salotti» intellettuali, ove, attorno ad una donna intelligente e colta, si raccoglievano regolarmente uomini politici, scrittori, artisti e gente mondana.
In questa tradizione, la Francia è sempre stata maestra, e da noi l'unico «salotto» storico che possiamo opporle in tutto il secolo è quello della Contessa Maffei. Né questa tradizione si era affievolita nel primo Novecento. Numerose erano infatti a Parigi le case ove si poteva incontrare in certe sere quanto la grande metropoli contava di meglio in fatto di intellettualità.
In quegli anni che precedettero immediatamente la grande guerra, due case parigine erano specialmente frequentate da artisti e gente di ogni genere. Una era quella dell'ingegnere Paul Clémenceau (fratello del «Tigre», ma che non ne condivise mai le idee e cessò ogni relazione con lui sin dall'anno del Trattato di Versailles che disapprovò totalmente).
La signora Cl. era viennese, figlia di uno dei giornalisti che fondarono la Neue Freie Presse. Era quello un salotto prevalentemente franco-viennese. Vi si incontrava sempre il generale Picquart (quello dell'affare Dreyfus), Painlevé (il quale purtroppo smise un giorno la matematica e si mise a fare il politico), il conte Harry Kessler (curioso e coltissimo gentiluomo germanico che era fratellastro di Guglielmo II), la Contessa Greffulhe (discendente di Madame Tallien e come quella bellissima), musicisti infine come Fauré, Ravel e Schmitt. Si faceva molta musica e sovente suonava il quartetto Rosé quando veniva a Parigi.


GABRIEL FAURÉ

Per vari anni, il salotto Clémenceau fu brillantissimo ed occupò un posto eminente nella vita sociale ed artistica parigina.

Un altro salotto - di tipo più puramente artistico - fu quello dei polacchi Ida e Cipa Godebski, i quali ricevevano ogni domenica sera nel loro studio della rue d'Athènes. Questi Godebski erano legati da fraterna amicizia con Ravel, il quale aveva dedicato loro la sua Sonatina. Frequentavano quella piacevolissima casa tutto il gruppo della Societé Musicale Indépendante, con Fauré, Schmitt, De Falla e Ravel a capo. Altri musicisti habitués erano Strawinski, Roussel e l'inglese Vaughan Williams. Vi erano poi scrittori come Gide, Cocteau, L. P. Fargue, Paul Valéry, Valéry-Larbaud, pittori quali J. Blanche, Bonnard, J. M. Sert, O. Redon, A. André e tanti altri di cui mi sfugge il nome. Ogni serata, qui pure, era accompagnata da musica vocale e da camera e non di rado accadeva che qualche compositore riservasse a casa Godebski la primizia di un suo importante lavoro appena terminato.
Il 29 maggio 1913, ebbe luogo al Théâtre des Champs-Elysées la prima rappresentazione del Sacre du Printemps di Strawinski. L'autore aveva fatto conoscere ad alcuni amici della prima ora quella straordinaria musica, ma il pubblico dei Ballets Russes, che era rimasto allo Strawinski dell'Uccello di fuoco e di Petrouchka, non poteva certo prevedere un simile lavoro. La rappresentazione ebbe principio in un religioso silenzio, davanti al pubblico inverosimilmente eterogeneo, elegante, intellettuale, raffinato, cosmopolita che da anni ormai aveva fatto delle serate di Diaghilef il maggior avvenimento sociale e artistico dell'annata parigina. A metà del preludio, scoppiò la tempesta, sotto forma di urli, fischi e schiamazzi di ogni genere.


RENOIR - RITRATTO DI MISIA SERT



Quando si aperse la scena, la coreografia di Nijinski, anziché attenuare la bufera, la aggravò ancora. Si vedevano infatti sulla scena strani gruppi di uomini e di donne che parevano eschimesi raggruppati assieme in pose dolorosamente e goffamente contorte, probabilmente tolte da qualche ceramica popolare russa, ma che su quel pubblico nel quale predominavano elementi mondani di assai media intelligenza, non poteva che produrre un effetto di irrefrenabile ilarità.
Per tutta la mezz'ora che dura il lavoro, fu impossibile udire qualcosa.
Ogni tanto, il baccano infernale del pubblico accennava a placarsi. Ma allora emergevano fuori dall'orchestra sonorità così spaventose, terrificanti e dissonanti che il chiasso riprendeva peggio di prima.
Credo che sia stata quella l'unica serata teatrale dopo la morte di Wagner che possa paragonarsi alla famosa première del Tannhäuser del 1861 all'Opéra di Parigi.
Di vera e propria battaglia non si può del resto parlare, perché credo che non fossimo in tutta la sala più di cinquanta persone a comprendere la grandezza storica di quella musica e la nostra azione poco o nulla poteva fare contro un simile scatenarsi di feroce bestialità.
Nondimeno, numerosi furono gli incidenti ed in maggior copia ancora i cazzotti scambiati in sala. Rimase memorabile l'atteggiamento di Florent Schmitt, il quale, veduto in un palco un vecchio signore che si comportava indecentemente con due signore altrettanto belle quanto idiote, gli urlò «vieux voyou!», ed era quello l'Ambasciatore di Austria-Ungheria.


FLORENT SCHMITT

Vi fu per circa due ore, nelle vicinanze del teatro, una agitazione notturna alla quale dovettero porre fine i poliziotti. Strawinski aveva passato tutto il tempo della rappresentazione dietro le quinte, trattenendo Nijinski che voleva ad ogni momento uscire fuori per insolentire il pubblico, e ripeteva melanconicamente: «je voudrais bien entendre ma musique».
L'avvento di quella ciclopica e terrificante musica segna una data decisiva nella storia della musica, e non è certo esagerato il paragonare l'importanza storica del Sacre a quella della Nona Sinfonia.
Il Sacre segna infatti la fine dell'impressionismo debussyano ed inaugura senz'altro l'età della costruttività che nega ogni residuo di imprecisione lineare. Riafferma in modo sovrano - di fronte al schörberghismo - la sovranità perenne della tonalità, sia pure rinnovata coi nuovi mezzi della politonalità.
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Liquida infine per sempre l'orchestra mastodontica di Wagner, Mahler e Strauss, perché - come ingegnosamente disse non so più quale critico - adoperando nella Sagra quella medesima orchestra «inflazionistica», questa «scoppia» nelle mani di Strawinski, lasciandolo a tu per tu con nuovi problemi che egli doveva risolvere eliminando addirittura l'orchestra nelle Nozze oppure riducendola a complesso da camera nella Histoire du Soldat (egli non ritornò infatti che alcuni anni dopo all'orchestra propriamente detta e non oltrepassò mai allora gli effettivi sinfonici normali).
In ogni caso, senza pregiudicare futuri giudizi, è già luminosamente evidente l'altissima importanza rigeneratrice di quella musica, nella quale Strawinski ha definitivamente orientato la musica europea verso una tendenza anti-retorica, spoglia di artifici, priva di virtuosismi ornamentali, decisamente tonale, anti-impressionistica ed essenzialmente architettonica.


VACLAV NIJINSKY
LEV BAKST 1912

Qualcuno scrisse che quella musica era quella di un primitivo.Opinione totalmente errata. Non è certo più primitivo lo Strawinski della prima danza della Sagra del Beethoven che chiude la terza Leonora. Del resto credo che dal primitivismo sia ormai l'Europa assai lontana e che non sia certo in artisti di una sensibilità così profonda e di una tecnica così consumata ed audace come Strawinski che si possa parlare di primitivismo e nemmeno di ingenuità.
In quel medesimo tempo, entrai a contatto anche colla nuova arte musicale ungherese. Erano stati eseguiti alla Societé Musicale Indépendante alcuni pezzi pianistici di Zoltan Kodàly, suscitando un rumoroso scandalo.
E cominciavano a farsi leggere le prime composizioni importanti di Béla Bartòk, del quale si intravide subito la fortissima personalità. Quelle musiche interessavano al più alto grado per la loro totale originalità ed indipendenza e si cominciava a vedere quanto la vera musica ungherese fosse diversa dalle troppo note Rapsodie di Liszt, che assai meglio si chiamerebbero «rapsodie zingare».




RITRATTO DI BELA BARTOK
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ILDEBRANDO PIZZETTI

Nel giugno seguente, conobbi per caso a Parigi tre illustri italiani. Il primo era Gian Francesco Malipiero, che si trovava da alcuni mesi a Parigi ma che - non so perché - non era ancora riuscito a trovarmi. Ci legammo subito di fraterna amicizia ed egli mi mise al corrente di quanto accadeva allora in Italia nel campo musicale. Alcune sere più tardi, fui al Châtelet, dove si dava la Pisanella di d'Annunzio colla musica di scena di Ildebrando Pizzetti (che allora era «da Parma») e vi conobbi questo altro nostro compagno di arte e di lotta. Sempre nel medesimo giugno, Busoni diede un recital alla Sala Erard e vi fummo con Malipiero. Avevo già udito varie volte il grande pianista, ma mai avvicinato. Dopo il concerto, fummo tutti assieme in una brasserie del Boulevard des Italiens e si parlò di mille cose. Siccome Busoni era da poco stato nominato direttore del Liceo di Bologna e che si disponeva a recarsi in quella città con ampi propositi di svecchiamento e di rinnovamento, così gli dissi della mia decisione di tornare in patria al più presto e lo pregai di trovarmi un posto nel suo istituto. Egli mi fu assai accogliente e promise di non dimenticarmi. Purtroppo la sua permanenza al Liceo bolognese fu di breve durata, ed i suoi fieri propositi riorganizzativi si infransero ben presto di fronte alla incomprensione dell'ambiente ed alla burocrazia ministeriale di quei tempi.
Uno degli obbiettivi immediati che ero deciso a raggiungere al più presto, era quello della fondazione in Italia di un organismo musicale che fungesse da «cavallo di Troja» in mezzo all'ambiente che era ancora in massima parte così arretrato e provinciale. E pensavo di dare a questo organismo il nome di Società Nazionale di Musica, a somiglianza di quella francese, della quale ho precedentemente ricordato le alte benemerenze verso la storia musicale del suo paese. Un'altra società col medesimo nome era stata fondata l'anno precedente in Spagna da Manuel de Falla, fiancheggiato dai migliori giovani compositori iberici ed aveva cominciato a svolgere una nobilissima attività. Accanto a me, altri giovani maestri erano animati da analoghe aspirazioni e dal medesimo desiderio di entrare in lotta al più presto contro il dilettantismo, la mediocrità ed il provincialismo che troppo regnavano allora ancora in Italia. Questi compagni della prima ora furono Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, G. Francesco Malipiero, Carlo Perinello, Vittorio Gui e Vincenzo Tommasini.


OTTORINO RESPIGHI

Dapprima semplici fraterni colloqui, i nostri contatti assunsero poi la forma di riunioni periodiche che si tenevano nel bellissimo palazzo del senatore Tommasini in via Nazionale. Progressivamente, in queste riunioni, si concretò il progetto della istituzione che intendevamo fondare a difesa della giovane musica italiana e, come volevo, si chiamò questa istituzione (a somiglianza di ideali e di scopi, come già dissi, con quella francese) Società Nazionale di Musica. Questa associazione sorgeva collo scopo di «eseguire le musiche più interessanti dei giovani italiani, ridare alla luce quelle nostre antiche obliate, stampare le nuove composizioni nazionali più interessanti, pubblicare un periodico, ed infine organizzare un sistema di scambi di musiche nuove coi principali paesi esteri». La presidenza di onore della S. N. M. fu accettata da Toscanini, Busoni e Bossi, e quella effettiva dal Senatore San Martino. Della prima attività della Società dirò fra poco.



Nell'estate del 1916, avevo concepito un poema funebre che volevo dedicare alla memoria dei figli d'Italia caduti per la sua grandezza. Questo poema, del quale terminai la composizione nel tardo autunno del medesimo anno, si chiamò Elegia eroica ed aveva la forma di un vasto trittico, una vera e propria marcia funebre iniziale di carattere eroico, un episodio centrale più intimo e di carattere profondamente doloroso, una ultima parte infine ove, ad una raffica di morte che passava violenta sull'orchestra, subentrava una dolcissima ninna-nanna nella quale veniva evocata la patria come una madre che culla il figlio morto. Mi consacrai con tutto l'animo alla creazione di questo poema, nel quale credo di aver dato il meglio di ciò che potevo fare a quei tempi.
Il linguaggio ne era duro ed aspro nella prima parte, e poi si riduceva a serena dolcezza verso la fine. Non era certo una delle solite composizioni di circostanza che i compositori mediocri usano scrivere approfittando di avvenimenti bellici e politici eccezionali. Era l'atto di fede di un italiano che sentiva tutta la tragicità del momento e che desiderava celebrare colla sua arte e colla maggiore sincerità il sacrificio di tante giovani vite ed il lutto di tante madri.
La esecuzione avvenne all'Augusteo il 21 gennaio 1917, e fu diretta dal francese Rhené-Baton. Le due prime parti passarono in un silenzio preoccupante, quello che precede le grandi bufere. Ed infatti, colla terza parte, scoppiò fulminea nel pubblico una ondata di indignazione che ebbe facilmente ragione della tenue e mesta berceuse finale della quale non si udì nemmeno una nota.


L'AUGUSTEO



CASELLA CON LA PECCI BLUNT NEL 1935

Il baccano durò a lungo dopo la fine del pezzo, e si calmò solamente coll'iniziarsi della seconda parte del concetto. Pochi amici vennero a vedermi dopo. Feci ogni sforzo per dimostrarmi indifferente e sereno, ma la sera quando tornai a casa, ebbi una impressione di solitudine come non avevo mai avuto prima né mai ritrovai dopo, ed il pianto mi vinse.
Il giorno dopo, la stampa fu violentissima come era da prevedersi. Ed alcuni giorni più tardi, Matteo Incagliati che dirigeva allora un periodico pseudo-musicale che si chiamava Orfeo, pubblicò un numero speciale ignobilmente volgare e diffamatorio, nel quale venivo rappresentato come un anti-patriota, come un uomo pericoloso per la cultura nazionale e si chiedeva in sostanza il mio allontanamento dal paese.
Malgrado la «catastrofe» augustea, non mi smarrii. Ormai avevo già abbondantemente imparato a conoscere che gli amici sui quali potevo contare in Italia erano ben pochi, e che lunga e difficile (non avrei però mai detto impossibile) sarebbe la strada da percorrere per raggiungere i miei scopi.
L'organizzazione finale della Società Nazionale di Musica procedette felicemente e si incontrò anche fuori di Roma un consenso a questa fondazione che era di buon augurio. Il Conte San Martino, sempre pronto ad accogliere ogni iniziativa anche la più audace, purché fosse veramente interessante, aveva voluto ospitare i nostri primi concerti nella sala accademica di via dei Greci.
E così il venerdì 16 marzo 1917, in presenza di una folla enorme ed attentissima, ebbe luogo il primo concerto, preceduto da una nobile orazione di Ildebrando Pizzetti. Gli autori rappresentati a quel primo concerto erano Respighi, Castelnuovo-Tedesco, Malipiero, Pizzetti e Casella. Il concerto suscitò infinite appassionate discussioni. Fu subito evidente che ci trovavamo di fronte ad una ostilità rabbiosa e che la S. N. M. era immediatamente apparsa come un covo di «futuristi» che occorreva sopprimere al più presto. Ma non mancarono, già allora, numerose adesioni di musicisti e di amatori, dimodoché si ebbe subito una certa libertà finanziaria che era per noi importantissima.
L'attività svolta dalla S. N. M. in quel primo anno di esistenza fu assai confortante: sei concerti dati nella sala di Santa Cecilia, quattro altri dati a Milano, Torino, Bologna e Ferrara, un concerto organizzato a Parigi ed infine un'audizione orchestrale che ebbe luogo nella Sala Costanzi, nella quale si eseguirono, diretti dall'autore, frammenti dell'Uccello di fuoco, Feu d'artifice e Petrouchka. Le composizioni programmate in questi concerti furono 112, delle quali 102 italiane.
Gli autori eseguiti furono, oltre ai cinque già citati del 16 marzo a Roma: M. Enrico Bossi, Tommasini, Perrachio, Gandino, Perinello, Renzo Bossi, Mantica, de Sabata, Alaleona, Liuzzi, Gasco, Giulia Recli, V. Gui, Zandonai, Davico, e di stranieri: Ravel, Strawinski, Lord Berners [3], de Falla, Debussy e Fauré. Oltre a questa attività concertistica, si strinse una serie di accordi con quattro società francesi (fra cui la Societé Musicale Indépendante) e la Sociedad Nacional de Musica di Madrid per assicurare un intenso ritmo di scambi fra le tre nazioni latine.


MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO
Con animo commosso ricordo quel primo anno della nostra attività, e specialmente mi è caro riandare a quella nobile fraternità di propositi e di entusiasmi che riuniva attorno a me Respighi, Pizzetti, Malipiero, ed altri miei coetanei.
Era veramente quello nostro il «fronte unico» della intelligenza contro la mediocrità ed il dilettantismo e costituiva una alleanza di artisti quale purtroppo non si è mai più incontrata da noi.
La vita si incaricò più tardi di dividerci e purtroppo anche di oppormi come nemici alcuni di quei musicisti che in un primo tempo erano scesi in lotta al mio fianco. Ma, ripeto, questo non altera per nulla la purezza di quel 1917, anno ove veramente si iniziò il rinnovamento della coscienza musicale nazionale.


VICTOR DE SABATA



RICCARDO ZANDONAI

Nella primavera di quel 1917 scrissi un importante poema per pianoforte, ispirato da circostanze sentimentali che attraversava allora la mia vita: A notte alta. È la unica musica con una apparenza di programma che abbia mai composto, ma che non si può tuttavia considerare come un vero e proprio poema sinfonico.
In esso è già palese per rispetto alla Sonatina oppure all'Elegia Eroica un processo di chiarificazione che doveva poi accentuarsi sempre maggiormente negli ulteriori lavori.
Dopo il «fattaccio» della Elegia Eroica, non vi è da meravigliarsi se ogni esecuzione della mia musica in Italia suscitasse un autentico putiferio. Particolarmente memorabile fu lo scandalo che avvenne a Milano alla sala del Conservatorio il 16 aprile 1917 quando vi eseguii la mia Sonatina, della quale non potei - io stesso che suonavo - udire nulla tale fu il subisso di urli, di fischi, di imprecazioni di ogni genere che si scatenò a metà del primo tempo e che andò crescendo sino alla fine.


DIAGHILEF A SINISTRA
Nel medesimo aprile, Diaghileff diede al Costanzi di Roma una breve stagione colla sua troupe. Il 9 aprile ebbe luogo la prima serata, a beneficio della Croce Rossa. In tempi normali una rappresentazione russa avrebbe dovuto cominciare coll'inno «Dio salvi lo Czar». Ma avendo questi abdicato da poche settimane, urgeva sostituire qualche cosa di altro. Diaghileff ebbe allora l'idea (la sera precedente la serata inaugurale) di fare eseguire il celebre Canto dei battellieri del Volga e lo fece orchestrare a Strawinski il quale lavorò tutta la notte a strumentate questa melodia per orchestra di fiati, aiutato da Lord Berners e da Ansermet, che copiavano man mano le parti.
Per intensa che fosse stata la prima attività della Società Nazionale di Musica, quando a stagione finita si tirarono le somme, si vide che erano necessarie alcune modificazioni nel titolo e soprattutto nel programma della istituzione, non abbastanza chiaramente definito, per modo da evitare qualsiasi confusione della nostra associazione con altre società già esistenti colle quali essa non doveva confondersi. Venne così deciso di mutare il nome della Società Nazionale in
Società Italiana di Musica Moderna, titolo che non le avrei certo dato oggi, ma che allora aveva indubbiamente il vantaggio di chiarire senza equivoci la posizione e le finalità della istituzione.
Colla fine di ottobre, una nera nube si addensò sull'Italia. Ma la resistenza eroica dell'Esercito e, dietro di quello, della intera Nazione ebbero ragione dell'invasore. Poco a poco rinacque la fiducia ed anche l'arte riprese a vivere la sua vita sia pur ridotta ma nondimeno bastante a dimostrare che ogni speranza non doveva essere perduta in una prossima risurrezione spirituale.
Nel dicembre 1917, inaugurai un periodico di battaglia, che si chiamò Ars Nova ed al quale collaborarono, oltre a quei pochi musicisti che potevano scrivere in quei tempi bellici, scrittori, pittori, critici come Giovanni Papini, Carrà, de Chirico, Gleizes, Mario Broglio, Laloy, Luciani, Marnold, Recchi, G. M. Gatti ed altri molti. Il tono del periodico era molto violento ed aggressivo, ed era ancora «corroborato» da un sciocchezzaio che faceva la gioia degli uni e la costernazione degli altri. La redazione era interamente opera mia e debbo dire che mi divertiva un mondo.


G.F. MALIPIERO - CARICATURA DI CASELLA
Il nostro secondo anno romano [1918] fu brillantissimo come interesse di programmi e concorso numeroso di soci. I sei concerti ebbero ancora luogo alla Sala di Santa Cecilia. I compositori italiani eseguiti furono Malipiero, Alaleona, Orefice, Davico, Tagliapietra, Pratella e Casella; gli stranieri Satie, Severac, Schmitt, Ravel, Granados, Albeniz, Salazar, Villar, De Falla, Turina, Beach, Huré, Scriabin, Dukas, Koechlin, Enesco, Goossens, Fauré e Strawinski. Come si vede, quest'anno gli stranieri erano in prevalenza, ciò che contribuì ad aggravare la violenta campagna che si stava conducendo contro di noi. A capo di questa campagna stava il mio direttore M. E. Bossi, il quale era rimasto talmente indignato dell'audizione dei miei Pupazzetti nella precedente stagione da evitare di incontrarmi ogni qual volta mi vedeva in fondo ad un corridoio del Liceo (egli mi aveva inoltre eliminato di tutte le commissioni di esami). Era evidente che egli non avrebbe pace finché non fosse riuscito a farci cacciare via dalla sala accademica.

Del resto, la triplice presidenza di onore era stata soppressa, Bossi perché aveva dato le dimissioni, Toscanini perché la sua situazione dopo l'infortunio wagneriano dell'Augusteo era delicata, e Busoni infine perché fortemente sospetto di germanofilia. Avevamo però conservato la preziosa presidenza effettiva del Conte San Martino, il quale non cessò mai di essere largo di consigli e di aiuti alla nuova società come alla vecchia.
Particolarmente degna di nota fu la commemorazione debussyana che improvvisammo il 5 aprile di quell'anno 1918, pochi giorni dopo la morte del Maestro e che fu la prima del genere celebrata in Italia.
Non mi mancavano in quegli anni in Italia concerti come pianista. In questi dedicavo una buona parte del programma a musiche contemporanee, specialmente a Debussy, Ravel e Dukas che erano ancora pochissimo noti al pubblico italiano di provincia. Eseguivo anche italiani come Pizzetti, Malipiero e Castelnuovo, questi due ultimi invariabilmente con forte opposizione (il Raggio verde di Castelnuovo destava dappertutto scandalo).


CLAUDE DEBUSSY

Non eseguivo quasi mai musica mia, anche perché certe società (come quella del Quartetto di Bologna) mi pregavano di non farla! Ed io, già trentacinquenne e con già acquisito un buon nome di compositore all'estero, dovevo accettare queste umiliazioni nel paese mio perché avevo necessità di guadagnare la vita della mia famigliuola. Fui anche più volte - in quei medesimi due ultimi anni di guerra - a Parigi e Londra, dove cominciai a far conoscere la nostra musica contemporanea, ottenendo risultati assai favorevoli e che recarono molta soddisfazione all'Ufficio di Propaganda che dirigeva allora Vittorio Scialoja.
La mattina del 4 novembre 1918, la gente sembrava impazzita per le vie dell'Urbe. L'immenso dramma era finito, ed era finito nella gloria di Vittorio Veneto. Quando uscii di casa verso mezzogiorno, per portare a Ricordi sul Corso Re Umberto il manoscritto della ultima delle 32 sonale di Beethoven (quell'enorme lavoro di revisione, cominciato nel 1915, terminò infatti colla guerra), regnava ovunque una gioia indicibile.
[VITTORIO VENETO - Il 4 novembre 1918, ottantaquattro anni orsono, segnò la fine del Primo conflitto mondiale, conclusosi con la sconfitta degli Imperi centrali - Austria-Ungheria e Germania - ad opera delle potenze dell’Intesa (Francia e Inghilterra; la Russia si era ritirata dalla guerra in seguito alla Rivoluzione comunista del 1917), cui si erano aggiunti, a conflitto in corso, Italia (dal 24 maggio 1915) e Stati Uniti d’America (dal 1917). Il 4 novembre si concluse la decisiva battaglia di Vittorio Veneto, iniziata il 24 ottobre, al termine della quale gli austro-tedeschi furono costretti ad abbandonare il suolo italiano. Il conflitto costò all’Italia 600mila morti e un milione e mezzo tra feriti e invalidi.]



GIACOMO PUCCINI
La sera, venne ristabilita l'illuminazione normale delle vie, e parve una cosa mai veduta, uno sfolgorìo abbagliante dopo quei tre lunghi anni di tragica oscurità.
Il 12 gennaio 1919, Molinari diresse all'Augusteo le Pagine di guerra che avevo poco prima strumentato. Per la prima volta dopo il gennaio del 1916, il lavoro giunse in fondo (è vero che dura appena otto minuti) senza proteste né interruzioni né scandali. Parve questa già una enorme vittoria. Giacomo Puccini che assisteva al concerto volle conoscermi ed ebbe per questo lavoretto parole di alta lode che mi fecero grandissimo piacere. La sua conoscenza del resto del fenomeno musicale contemporaneo - del quale egli era attento ed acuto osservatore - si attestava sempre profonda e «aggiornata». Non vi era lato del problema sonoro che egli non studiasse a fondo e sul quale non fosse in grado di discutere con reale competenza. Era anche un uomo infinitamente simpatico ed affabile e rimasto modestissimo malgrado il suo enorme successo.
Nella primavera di quel 1919, la
S. I. M. M. diede ancora tre concerti, che ebbero luogo al Teatro Quirino (Bossi ed i suoi alleati erano pervenuti ad ottenere la nostra «espulsione» da Santa Cecilia).
Questi concerti riuscirono alquanto più fiacchi dei precedenti. Era visibile che la Società aveva ormai fatto il suo tempo e che sarebbe difficile mantenerla in vita.
D'altra parte, io cominciavo a viaggiare molto per concerti all'estero ed in queste condizioni non vi era nessuno che potesse mandare avanti l'azienda in vece mia. Venne dunque deciso lo scioglimento della S. I. M. M., che aveva durato tre soli anni, ma che in quel periodo di tempo aveva realizzato un vasto sforzo artistico ed aveva veramente creato un movimento di interesse verso le nuove musiche senza precedenti a Roma e probabilmente in tutta Italia. Colla società, cessò pure la rivista Ars nova, che aveva rappresentato essa pure un tipo di pubblicazione assolutamente nuovo in Italia, un periodico al quale si sarebbe solamente potuto forse paragonare la fiorentina Lacerba, e che aveva nel suo campo svolto una opera culturale altamente utile se pur necessariamente estremista.
Il Liceo di Santa Cecilia intanto era sin dalla fine del 1918 teatro di una intensa agitazione, rivolta ad ottenere dallo Stato la regificazione dell'istituto. La trasformazione - per legittima che fosse, data la crescente importanza di quella scuola - non era molto simpatica al Conte San Martino, geloso di quella autonomia che permetteva al Presidente di prendersi molte responsabilità senza aver da subire gli ostruzionismi della burocrazia statale.
Ma la sua comprensione dei desideri e delle necessità dei suoi professori era troppo completa perché egli non dovesse finalmente stare dalla parte loro.Per parecchi mesi dunque, i corridoi e le aule del venerando stabile di via dei Greci furono sede di innumerevoli comizi di sapore alquanto sovietico (non mancavano fra i professori elementi scalmanati che invocavano l'avvento di Lenin purché fosse loro concesso di divenir finalmente impiegati di Stato). Tribuni particolarmente eloquenti erano Rosati (il maestro di Beniamino Gigli) ed il povero Setaccioli, il quale saliva sui tavoli per meglio arringare la minuscola folla di professori, inservienti e bidelli, alla quale si aggiungeva volta il vecchio portiere Cesare. E siccome le cose parevano dover tirare in lunga da parte dello Stato, così vi fu una mattina un certo numero di professori che proposero di ricorrere allo sciopero, nella demagogica speranza che di fronte a simile tremenda minaccia, il Governo avrebbe subito deposto le armi. E dovemmo faticare parecchio, quelli che avevano un grano di buon senso, a far recedere i nostri colleghi dal loro fiero proposito, dimostrando loro la scarsa probabilità di successo di questa insurrezione che al massimo avrebbe riempito di gioia i nostri alunni.
Il Liceo venne regificato in data 22 agosto 1919.
Il 26 gennaio 1919 Beethoven fece la sua riapparizione all'Augusleo - dopo due anni di assenza - e fu per merito di Vittorio Gui che diresse l'ouverture dell' «Egmont». Non è facile immaginare quale formidabile impressione di potenza producesse il ritorno di quella musica della quale un doloroso errore di psicologia ci aveva privati per così lungo tempo....
Nel mese seguente mi divisi da mia moglie Hélène K. Da parecchi anni era ormai palese che la vita doveva staccarci l'uno dall'altro. Ma fu singolare fortuna che questa separazione abbia potuto compiersi - e questo per merito della alta intelligenza della mia prima compagna che fece prova, in questa dolorosa circostanza, di una abnegazione e di uno spirito di comprensione dei quali non le sarò mai abbastanza grato - lasciandoci in rapporti di salda e devota amicizia, la quale tuttora dura. Due anni dopo, quel matrimonio venne annullato da una sentenza della prima sezione del Tribunale Civile di Roma.
L'ambiente nostro, ormai che la guerra era finita e che i giovani poco a poco si riaffacciavano alla vita dell'arte, si era assai migliorato. L'isolamento dei primi anni romani, ove vivevo in mezzo a cinque o sei amici soli veramente sicuri, era ormai superato e da tutte le parti vedevo accorrere verso di me nuove amicizie, nuovi volti di giovani che il mio esempio aveva incoraggiato. Ed anche la vita musicale della nazione, si era profondamente modificata coll'avvento della pace e la musica contemporanea cominciava a trovare il posto che le spettava. In queste condizioni, mi parve che la mia azione «interna» potesse subire una sosta e mi diedi a viaggiare molto fuori confini, svolgendo però sempre la più intensa propaganda in favore della nostra nuova arte, o per lo meno di quella che ritenevo suscettibile di interessare gli altri.
Fu appunto in quei primi mesi del 1919 che il caso mi fece incontrare un giovane musicista col quale dovevo poi legarmi di fraterna amicizia: Mario Labroca. Combattente e quindi per due anni prigioniero di guerra, egli rientrava in patria, carico di dolorosa esperienza umana, ma anche animato da una alta ambizione di artista. Da quel giorno ormai lontano, Mario ha percorsa molta strada, ed è anche lecito il dire che la sua ascensione in «carriera» è stata rapida e felice.
Ma egli rappresenta anche un tipo raro di uomo di molte, varie e convertibili energie; compositore di autentica ed inconfondibile personalità, scrittore e giornalista di grande autorità, organizzatore infine rivelatosi di eccezionale abilità a traverso vari alti incarichi : queste (ed altre ancora) rare capacità fanno di Labroca uno degli elementi più importanti e fattivi della presente vita musicale italiana.

MARIO LABROCA
Ma egli ha una ultima qualità, che sta sopra a tutte le altre e che costituisce la sua maggiore forza - quella sua purissima moralità, alla quale Labroca non è mai venuto meno pure innalzandosi continuamente verso sempre più importanti missioni, verso posizioni di crescente responsabilità. Egli rappresenta, nel nostro mondo musicale, uno fra i pochissimi esempi di artista che abbia saputo continuamente ascendere senza mai abbassarsi a rinuncie e senza venire a patti coi nemici di quell'arte che egli considera come unica vera. Sotto questo aspetto, la figura di Labroca è veramente nobilissima e capace di ridare fiducia anche a coloro che hanno qualche dubbio sulla possibilità odierna di una «illibatezza» artistica.
Nell'estate del 1920, terminai i cinque pezzi per quartetto d'archi. Questo lavoro segna la fine di un periodo assai turbinoso della mia attività creatrice, periodo, come già dissi, fatto di assimilazioni, ed anche di influenze, quelle volute e queste subite mio malgrado.
Oggi più che mai, mi rifiuto però ad ammettere che quel periodo sia stato meno che utilissimo e fecondo per la mia formazione definitiva. Dopo quattro anni di esperienze talvolta divergenti, la mia indipendenza di fronte allo strawinskismo ed allo schönberghismo era totale. E quei cinque pezzi rappresentano appunto la estrema fine della influenza strawinskiana e la scomparsa totale di ogni preoccupazione atonale. Dei lavori scritti in quel periodo 1914-20, hanno conservato la loro piena vitalità - sebbene siano lavori che per il loro tipo non possano avere molte esecuzioni - l'Elegia eroica ed A notte alta. Si può osservare che non è molto in sei anni. Ma (e ripeto qui pure cosa già detta) era destino che io dovessi rappresentare una figura di compositore eccessivamente tardivo e che solamente colla quarantina dovessi entrare nella fase di completa realizzazione di quanto avevo così faticosamente cercato per tanti anni.
Nel novembre successivo, videro la luce gli «undici pezzi infantili» per pianoforte. Pochi mesi dividono i cinque pezzi per quartetto, da questa piccola suite pianistica, ma gli «undici pezzi» segnano però la liberazione ultima dalle incertezze e dagli esperimenti e l'entrata sicura e consapevole in una fase creatrice ormai personale e chiarificata. Rappresentano insomma la pace avvenuta fra il creatore e la sua arte, pace all'ombra della quale egli potrà ormai percorrere tranquillamente la sua via e donare alla propria invenzione uno stile, un modo definitivo e conclusivo.
[Disse spiritosamente Edw. J. Dent: «Casella è il musicista italiano che maggiormente ha aiutato i giovani suoi connazionali a trovare il loro stile, ma che viceversa ha maggiormente faticato a raggiungere il proprio»].
Nella primavera del 1921, mi trovavo un giorno all'albergo Regina a Parigi, quando chiese di parlarmi un signore americano. Era questi un tale Mr Somlyo, mandato dalla casa di pianoforti «Baldwin» di Cincinnati per invitarmi a compiere un giro artistico agli Stati Uniti sotto gli auspici di quella casa. Il contratto era molto vantaggioso e lo accettai con vivo piacere.
Nel luglio seguente, essendo stato annullato il mio primo matrimonio, mi sposai per la seconda volta, e tolsi in moglie una mia discepola (essa pure parigina), Yvonne Müller, colla quale già da lunghi anni si era intrecciato un romanzo d'amore. Questa volta ebbi la fortuna di trovare una donna che fu per me la più ideale delle compagne. Parve che, entrando essa nella mia vita, questa si liberasse subitamente da quei troppi anni di grigiore, di difficoltà, di incertezze, di ostilità e di incomprensione insomma che avevo sino allora attraversato, e che la mia attività di artista assumesse da quel giorno una ampiezza ed un ritmo che non aveva mai conosciuto.
Anche la mia salute - che era andata declinando sin dal 1914 in modo così preoccupante - entrò in una nuova fase di rapido miglioramento, dovuto questo alle amorevoli, straordinarie cure delle quali mi circondò la mia giovane compagna. La eccezionale felicità della nostra unione fu infine allietata (alcuni anni più tardi) dalla nascita di una bambina che la madre volle chiamare col nome romano di Fulvia.


Trascorremmo l'estate a Capri, dove strumentai per pianoforte ed orchestra A notte alta, destinando la prima esecuzione di questa nuova versione all'America, dove mi sarei recato in ottobre. L'idea di trascrivere il pezzo nella nuova forma mi era stata suggerita da Busoni, il quale amava molto questa musica e diceva che il suo carattere tragico ed espressivo risulterebbe meglio coll'ausilio dell'orchestra.

Verso la metà di ottobre, ci imbarcammo dall'Havre per New York, dove trovai una accoglienza molto cordiale e piena di attesa. L'America mi fu subito simpatica. L'arrivo a New York fu uno fra i più belli che si potessero desiderare: una leggera nebbia mattutina piena però di sole, lasciava intravedere quel mondo ciclopico e fantastico della città bassa, quella prodigiosa «scalata al cielo» la quale ricorda parecchio - portato beninteso alla ennesima potenza - l'aspetto della minuscola nostra San Gimignano.
Appena sbrigata la solita lotta col consueto gruppo di 25-30 corrispondenti che chiedono: «come vi piace l'America?» al viaggiatore che ha appena veduto la statua della Libertà e superato vittoriosamente la quarantena, ripartii per Filadelfia, dove mi attendeva Stokowski, col quale dovevo dare i primi concerti. Egli era a quei tempi una persona simpaticissima (per quanto fosse già alquanto 'enfant gáté' dal successo), non andava in viaggio con Greta Garbo, e non faceva il «gigione» come oggi. Aveva un talento di direttore grandissimo: una memoria straordinaria, una penetrazione magnifica della partitura, qualità mimiche di prim'ordine, un ascendente formidabile sulla sua orchestra, un insieme insomma di qualità che spiegavano la immensa popolarità che lo circondava in America. L'orchestra poi - interamente creazione sua - era incomparabile e lo è tuttora, per quanto negli ultimi anni la Boston Symphony l'abbia forse lievemente sorpassata.
Per il mio debutto a Filadelfia suonai coll'orchestra il concerto n. XX di Mozart e diressi le Pagine di guerra. Il successo fu lietissimo. Pochi giorni dopo, diedi il mio primo concerto a New York, al Carnegie Hall, sempre coll'orchestra di Stokowski, e suonai A notte alta e la Variazioni sinfoniche di Franck [H.P. e catalogo]. Qui pure le cose andarono benissimo, cosa capitale perché in America il verdetto di New York decide di tutto ed è impossibile rialzarsi da un fiasco avuto in quella città.
Rimasi due mesi agli Stati Uniti, dando, oltre ai recitals di solista, altri concerti colle orchestre di Detroit e di Cincinnati. In questa ultima città ebbi l'alta soddisfazione di suonare sotto la direzione di Eugenio Ysaye, che era allora a capo di quella orchestra. Eseguii con lui il concerto di Mozart in re minore e diressi poi Italia. Era alquanto invecchiato.
Ma aveva però conservato quella mirabile vitalità artistica che sembrava circondarlo di una atmosfera misteriosa, a contatto della quale uomini e cose divenivano musicali. La sua interpretazione di Mozart riuscì indimenticabile per drammaticità e grandiosità. Dopo il concerto, egli mi portò nella sua campagna che distava mezz'ora da Cincinnati. Una cena prodigiosa ci attendeva, perché Ysaye era un luculliano come la storia pochi ne ricorda, e solo la sua erculea resistenza fisica gli permise di resistere ai perpetui eccessi di tavola.


CESAR FRANCK



Alla cena, seguì una seduta musicale di proporzioni adeguate. Ysaye mi pose al pianoforte, e facemmo le ore piccole a suonare i Quintetti di Schumann e di Brahms, un quartetto di Fauré e la Sonata di Franck. Il suo arco e la sua intonazione non avevano più la sicurezza infattibile di prima. Ma nondimeno questa serata da camera lasciò in me ed in mia moglie un ricordo incancellabile di arte e di umanità.

Tornato, a Roma, trovai che alcuni colleghi di Santa Cecilia - togliendo pretesto da una domanda di permesso inoltrata al Ministero in forma burocraticamente irregolare - avevano tentato, facendo pressioni sull'on. Rosadi allora Sottosegretario alle Belle Arti, di farmi cacciare via dal mio posto di insegnante. Il direttore Bossi, invece di difendermi, aveva lasciato fare. E dovetti di non perdere il posto all'intervento di qualche quotidiano romano che fece rilevare la scarsa opportunità di trattare in quel modo un artista che aveva passato due mesi a difendere vittoriosamente il nome nazionale in terre
lontane,
e così finalmente l'on. Rosadi si rimangiò il suo decreto ed i colleghi mi si fecero attorno più sorridenti di prima. Questo poco piacevole tentativo, oltre alla scarsa simpatia che Bossi aveva per me e la troppo evidente invidia di certuni miei colleghi vedendo che ormai la vita mi andava bene, mi determinarono poco a poco a rassegnare le mie dimissioni dalla mia cattedra di pianoforte in quel Conservatorio. Mi staccai con vivo rammarico dai miei discepoli, ma d'altronde era ormai evidente che - a prescindere dalle ragioni morali di cui sopra - non mi era possibile continuare ad occupare un posto dal quale i miei continui viaggi mi allontanavano per troppi mesi dell'anno. Rimango però grato al Presidente San Martino per avermi chiamato ad occupare quella cattedra, dimostrandomi - in anni così difficili - una. fiducia ed una stima le quali avevo tentato per otto anni di meritare.


BERNARDINO MOLINARI SUL PODIO
Il 19 febbraio 1922, partecipai ad un concerto dell'Augusteo diretto da Molinari, e vi eseguii, oltre ad un concerto di Mozart ed alle Variazioni sinfoniche di Frank, il mio poema A notte alta. Mentre ottennero vivissimo successo i due primi pezzi, suscitò invece vivaci contrasti il lavoro mio, che stentò assai ad arrivare in fondo, malgrado la bellissima esecuzione di Molinari. Alla fine un subisso di rumori di ogni genere ebbe facilmente ragione degli scarsi applausi. Il giorno dopo, non parve vero, ai grossi calibri della critica, di scrivere ancora una volta che ero finito come compositore e che era meglio che mi limitassi ormai a far solamente il pianista [4].
Parecchi anni dopo, seppi che uno fra i più accaniti fra quei ragazzini che fischiavano così sonoramente al loggione, era... Goffredo Petrassi [II] il quale era appena adolescente, e non sapeva chi fosse Casella, ma gli avevano detto che doveva fischiare e lui aveva obbedito alle energiche ingiunzioni (inutile il dire che quelle provenivano dal Conservatorio di Santa Cecilia). Questa storia è rimasta argomento di perpetua ilarità fra me e Goffredo ed ogni tanto, ricordandola, ci facciamo sopra quattro matte risate.
Nel 1922, la composizione tacque. Dopo i pezzi infantili, provavo la necessità di non riprendere ormai la creazione che quando avrei maturato alcuni lavori di impegno e di mole che sentivo dovere inaugurare il mio periodo più fecondo e vittorioso.
Nell'autunno di quell'anno, diedi molti concerti come pianista e direttore in Germania, Austria, Francia e Italia. Mi trovavo a Monaco-Baviera nei giorni della Marcia su Roma, la notizia della quale fu accolta con delirante giubilo dal piccolo gruppo di connazionali che stavano con me quella sera. Da anni, la figura di Benito Mussolini mi era già apparsa grandissima. La sua ascensione al potere mi parve un atto del destino nostro, e ne ebbi la immediata certezza di una prossima prodigiosa resurrezione della nostra nazione. In quei tardi giorni del 1922, la Germania traversava giorni lugubri. Si stava maturando l'occupazione della Ruhr, e così a Monaco trovammo scritto sui ristoranti Hunden und Franzosen verboten (ingresso proibito ai cani ed ai francesi). A dire due parole in francese si rischiava un grave incidente.


GOFFREDO PETRASSI
In un concerto che davo colla cantante ungherese Ghita Lenart e nel quale essa doveva interpretare le mie quattro «liriche» di Tagore-Gide, appena cominciò a cantare, si alzò un gruppo di giovani che si misero ad inveirla e buttarono nella sala una buona quantità di pastiglie lagrimogene, col risultato di determinare la immediata fuga di tutto il pubblico. Venne a vedermi all'albergo un vecchio dottore tedesco che si chiamava Casella, il quale voleva accertare se vi fosse tra le nostre famiglie qualche parentela. Cosa forse non inverosimile essendo loro pure oriundi liguri come mio nonno. Egli mi raccontò di un suo nipote chiamato Theodor, che era iscritto al partito nazional-socialista e del quale egli parlava con vivo affetto. Questo nipote doveva essere ucciso pochi giorni dopo nel putsch nazista del 9 novembre capitanato da Hitler, ed oggi egli dorme il suo sonno eterno accanto ai suoi 15 compagni, recando - cosa curiosa - il nostro italianissimo nome in quel sacrario di martiri germanici.

NOTE

* Carlo Perinello, compositore e scrittore di musica italiano (Trieste, 13-II-1877 - Roma, 2-I-1942). Studiò musica nella città natale con G. Wieselberger e poi al Conservatorio di Lipsia con S. Jadassohn; compì invece gli studi classici a Firenze. Nominato nel 1904 insegnante di composizione al Conservatorio di Trieste, dal 1914 ricoprì la stessa carica al Conservatorio di Milano. Nel 1919 si trasferì ad Abbazia, quindi a Roma. Più che per la produzione musicale, è noto per aver diretto a Milano la sezione musicale dell'Istituto Editoriale Italiano.
Compose opere teatrali, poemi sinfonici, musica da camera, un Miserere, liriche, ecc.
Curò le revisioni di: J. Peri, Euridice; G. B. Sammartini, Sonate Notturne per vl. e pf.; F. Turrini, Sonate per pf.; G. Rutini, 5 Sonate per clav.; G. Caccini, Arie; Palestrina, Canzonette e madrigali (Milano, 1919); G. Paisiello, La pazza per amore; O. Vecchi, Amfiparnaso, facs. e ediz. moderna (Bologna, 1938); A. Striggio, Il cicalamento delle donne al bucato (ivi, 1942).
Scrisse G. Verdi (Berlino, 1900); Casella (Trieste, 1904); Rapporti sonori superarmonici (in RMI, 1922); Armonia razionale (Fiume, 1933); Trattato d'armonia (med.). Curò, inoltre, la trad. ital. del Trattato del contrappunto semplice, doppio, triplo e quadruplo (Lipsia, 1898) di S. Jadassohn.
** Salomon Jadassohn (1831 - 1902). Er war Schüler von Moritz Hauptmann (1848/49), Franz Liszt in Weimar (1849 - 1851), und auch von Hesse und Brosig. 1871 wurde als Lehrer für Theorie, Klavier und Komposition ans Leipziger Konservatorium berufen und lehrte dort bis 1902. 1893 wurde er Professor. 1867/9 war Jadassohn Dirigent der Euterpe-Konzerte in Leipzig.
Salomon Jadassohn arbeitete mit dem Pseudonym 'Olivier'.
[1] Anche Ravel in quei medesimi anni, ebbe altissima ammirazione per Schönberg e lo studiò attentamente come bastano a provarlo i Trois poèmes de Mallarmé che datano appunto dal 1914.

[2] Di Lord Berners (che era allora addetto all'Ambasciata Britannica a Roma e si chiamava semplicemente Gerald Tyrwhitt) eseguii le tre spassosissime marcie funebri a) pour un ministre; b) pour un canari; c) pour une tante à héritage. A proposito appunto di questa ultima e di quella esecuzione del 30 marzo 1917, accadde che poche settimane dopo morì a Londra non la «zia», ma uno zio il quale lasciava al giovane Tyrwhitt la sua cospicua fortuna ed il titolo di Lord Berners. Dimodoché questi conservò sempre un ricordo alquanto malizioso di quella mia esecuzione romana, alla quale - senza essere eccessivamente superstizioso - attribuiva nondimeno un misterioso rapporto col fato della morte dello zio à héritage.

[3] Scriveva infatti il giorno seguente sul Messaggero Raffaello de Rensis: «Casella è forse il tipo più rappresentativo dei musicisti arrivisti. Egli fa lo straniero in Italia e l'italiano all'estero. Procede negli anni, sa di non poter più trasformare la sua mentalità musicale, sa di perdere terreno nel pubblico medio e serio ed allora si aggrappa, more solilo, ai giovani del Gruppo musicale universitario dai quali ottiene facilmente entusiasmi. Battaglia per a notte alta vi fu, ed i fischi si sono scatenati ancora una volta sul suo purissimo capo di vittima dell'ideale (sic) ».

[2] Nel gennaio del 1925, Schönberg ebbe a scrivermi: «La morte di Puccini mi ha recato un profondo dolore. Non avrei mai creduto di non dover più rivedere questo così grande uomo. E sono rimasto orgoglioso di aver suscitato il suo interesse, e Le sono riconoscente che Ella lo abbia fatto sapere ai miei nemici in un recente Suo articolo».

[5] È opportuno il ricordare - per la storia - che gli «organiZZ1t~)ri» del colpo avevano incluso coi loro anche il nome di A fano. Ma questi, inforniato in tempo titile, svento il disonesto trucco e fece toglieie la ~na fimia che non Ccia mai stata,
[6] Mi sia permesso di ricordare che i seguenti la,,ori di Strawinski hanno avuto la loro prima esecuzione in Italia sotto la mia direzione: Petroucbka (Roma, 1915), OMUo per fiati ed Histoire du soldat (« C. D. N. M. », 1924), Trois berceuses du chat e Trois Iyriques japonaises (« C. D. M. », 1925), Noces (giro italiano del 1927), ed infine Oedipus Rex (E. I. A. R., Roma, 1933). Furono, inoltre da me dirette le ptime esecuzioni a Milano di Petrouchka (1916) e della Sinfonia di Salmi (Scala, 1932). Diedi pure la prima esecuzione a Roma ed in parecchie città d'Italia della Sonata per pianoforte (1926). Ebbero infine la loro prima esecuzione in Italia alla « S. I. M. M. » ed alla « C. D. N. M. » gli Otto pezzi per jLmofoite a quattro mani (1918) ed il Concerlino per atchi (1924).
1935, 18 novembre: a Ginevra la Società delle Nazioni decide il blocco economico contro l'Italia. Il paese reagisce di slancio contro le "inique sanzioni": è autarchia.