MARIO LABROCA

PASSEGGIATA CON MALIPIERO

L'USIGNOLO DI BOBOLI

Non credere che all'incontro con Pizzetti ci andassi a cuor leggero: ricordati che nella mia giovinezza mi ero trovato di fronte a notorietà consacrate che solo pochi audaci osavano discutere. Nei riguardi di Pizzetti la mia timidezza era accresciuta dall'ammirazione che gli portavo e quel colloquio, che ricordo benissimo, fu piuttosto un monologo ché io ben poco avevo da obiettare e da aggiungere nei riguardi di una situazione che mi era completamente ignota. Puoi immaginare quindi con che animo trepidante mi diressi con Lodovici all'Albergo Internazionale, in Roma, per conoscere Malipiero. Fu verso la fine del 1919 quando io, libero finalmente da qualsiasi obbligo militare, dovetti affrontare tanti piccoli e grossi problemi che non ti sto a raccontare. La prima immagine di Malipiero è quella di un giovane signore con il cappello alquanto sgualcito, il bastone nella mano sinistra, che avanzava trascinato da due piccoli volpini tenuti al guinzaglio. L'incontro avvenne in via Sistina, nei pressi della pensione dove egli abitava e non ti nascondo che ebbi subito la sensazione che quella stretta di mano era la firma di una amicizia che, fortunatamente, mi avrebbe sempre accompagnato. Malipiero non mi fece discorsi: con spiccato accento veneziano iniziò con Lodovici una conversazione apparentemente svagata, spezzettata da parentesi, da soste, da motti di spirito, sicché mi fu difficile seguire i due amici che mi parve stessero dando fondo a un passato a me sconosciuto. Si ritrovavano dopo molto tempo e la ricerca degli amici comuni che essi andavano facendo, servendosi l'uno delle notizie dell'altro, mi parve anche un pretesto per chiacchierare un po' svagatamente.
Non mi resi subito conto che l'estro di Malipiero ti è possibile coglierlo nelle prime parole che dice; esse ti avviano sopra una strada, svicolano di colpo ad altro argomento; ma poi ti accorgi che l'altro argomento è strettamente legato al primo e che le parentesi sono i colori del quadro, sicché alla fine tra deviazioni, arresti, falsi scopi, comprendi di aver ascoltato un discorso che dice molte cose e le dice con un prezioso senso del pittoresco; ti accorgi che l'aria svagata che ti sembra essere la caratteristica di Malipiero non è disattenzione ma capacità di comprendere più di quello che tu non dica, allo stesso modo di come la sua grande e profonda cultura ti si rivela attraverso i casi che essa è chiamata a risolvere e non già attraverso quelle esposizioni che sembrano tesi di laurea, sempre pronte per chi ha voglia di berle. Ti appare smemorato e poi ti si rivela in possesso di una memoria capace di archiviare gli episodi più apparentemente insignificanti. Naturalmente non fu certo al primo incontro che Malipiero mi si rivelò così come oggi te lo descrivo: quella prima volta notai il suo modo di camminare, piuttosto lento, interrotto da soste volontarie o da soste imposte dai cani, da fermate davanti a qualche vetrina (e se la vetrina era di un antiquario sapeva quello che era buono e quello che buono non era), un camminare che sembrava una passeggiata fine a se stessa, senza scopo, ma che poi ti accorgevi essere un percorso prestabilito per giungere a una determinata mèta.
E certo, compresi più tardi, tra il suo modo di camminare e il suo modo di parlare esisteva un'affinità; giacché quella stessa apparenza svagata a un tratto svaniva di fronte al delinearsi della mèta o al definirsi dell'argomento.
Non ti so dire quali furono gli argomenti dei nostri discorsi in quel primo incontro, anche perché da quel momento con Malipiero, finché rimase a Roma, ci incontrammo almeno una volta al giorno. Egli aveva terminato in quel periodo le Sette Canzoni e un giorno mi chiese se volevo sentirle; puoi immaginare
la mia gioia. Fummo ospitati in una sala dell'Accademia di Santa Cecilia e lì, per la prima volta, mi si rivelò, e clamorosamente, un aspetto nuovo dell'arte di Malipiero. Le «Sette Canzoni», Come sai, sono sette espressioni drammatiche; e qui la drammaticità consiste nel verificarsi di un fatto, nel nascer di un'azione nel momento che fatto e azione sono inattesi, in un ambiente che non è stato predisposto per il loro verificarsi. E quasi sempre il risultato è profondamente amaro: è il cantastorie cieco che è abbandonato dalla sua compagna non appena ha terminato di cantare il madrigale amoroso; è la madre pazza che piange il figlio creduto motto proprio nel momento in cui questi ritorna; è la povera donna immersa nella preghiera cui non è concesso di continuarla e concluderla proprio in chiesa; è il campanaro che mentre suona a stormo per un incendio che avvampa nel paese canta una canzonaccia sguaiata e allegra; è il carro della buona morte che all'alba delle ceneri si scontra con chi ancora si sente nel pieno carnevale ecc.
Ricordo ancora l'emozione di quell'ascolto: il teatro entrava in un nuovo clima, rompeva gli schemi tradizionali, si metteva sulla via delle sintesi drammatiche e credo anche oggi che quella sia la buona strada per far correre un po' d'aria nel chiuso ambiente. Ma non approfondiamo argomenti critici perché voglio che le tue opinioni nascano da un diretto contatto con le opere e non dai giudizi degli altri. Desidero solo informarti che le «Sette Canzoni», grazie alla sensibilità di Rouché, direttore dell'Opera di Parigi, furono rappresentate in quel teatro nel 1920 e che suscitarono la benefica tempesta delle discussioni.
Tra Pizzetti e Malipiero ero caduto in pieno nel mondo dei musicisti moderni; erano lontani i tempi dei fischi a Debussy, ed in me, insieme con la conoscenza della musica, si faceva più viva l'ammirazione per i nuovi aspetti del linguaggio musicale. Quasi tutti i pomeriggi, verso le cinque, andavo a prendere Malipiero nella sua pensione; scendevamo con i cani la scala di Trinità dei Monti ed andavamo a sederci in una latteria in via Frattina. Quella latteria fu, in certo senso, l'aula delle lezioni che Malipiero mi dava, la prima aula per il suo primo allievo; ogni giorno era una rivelazione, e la storia della musica mi appariva illuminata dal metodo col quale lui la impostava, sul piano della filologia. Facemmo il viaggio meraviglioso attraverso il vasto campo delle «modalità» ed approdammo alla «tonalità» dove, dopo tanta ricchezza, ci trovavamo a disagio; ma dovevamo anche vedere come ci si potesse sprofondare negli abissi del cromatismo e come potesse fiorire da quegli abissi la premessa di un nuovo linguaggio. Chiacchierate lunghe, naturalmente, e confortate dagli esempi; il freddo marmo del tavolo della latteria servì di piattaforma ai contrappunti nuovi ed alle esposizioni delle «fughe».
Immagino tu voglia conoscere l'opinione di Malipiero sul momento nel quale vivevamo. Anche Malipiero come Pizzetti e come poi Casella, e anche un po' Respighi, aveva la sensazione di essere considerato un estraneo dal mondo circostante. E quel che è peggio, un estraneo da eliminare senza pietà; e purtroppo la sua sensazione era giusta. Bastava leggere quel che la critica allora scriveva per rendersi conto della gravità della situazione. Sembrava che tutti fossero fermi ad un punto e che fosse proibito a chicchessia di oltrepassarlo. Zelanti scribacchini s'erano dati la pena di fissare le barriere al di là delle quali esisteva solo l'illecito, sicché era facile cadere nella dura prescrizione; l'esilio pendeva come una minaccia perenne e fu per questo che l'estero apparve a molti il solo rifugio possibile. Nacque in tal modo il bisogno di un respiro più ampio, di amicizie più profonde, di conoscenze più estese; ed i rapporti superarono agilmente i confini dei paesi; cominciò a crearsi un'intesa fra quanti erano legati alla stessa necessità di vita. I viaggi tra paese e paese diventarono più frequenti e da essi l'unione riceveva un nuovo impulso; dopo gli anni che la guerra aveva tenuti lontani e divisi tanti uomini, il bisogno di riunirsi e di trovarsi in una intirnità fino allora sconosciuta nasceva nei musicisti. E' stata questa, tra l'altro, una delle più tipiche caratteristiche dell'altro dopoguerra anche se di tanto In tanto certe strane e pericolose ritirate facessero temere il crollo del movimento: e di questo ti dirò altre volte. Intanto le nostre lezioni continuavano ed anche le nostre passeggiate nel tratto, allora tranquillo, tra la Trinità dei Monti e il Píncío; i tramonti erano dorati come le nostre speranze in un mondo migliore dove alla musica venisse concesso di uscire all'aperto, liberata finalmente dall'assedio dell'indifferenza.





Cinquant'anni di vita musicale italiana, raccontati in forma di lettera a un giovane amico.
La forma epistolare, estremamente funzionale per le possibilità e le libertà narrative che consente, si manifesta senza dotte pedanterie e col solo ausilio della memoria capace di mettere a fuoco, in rapidi scorci, le figure e i momenti più singolari di quella che, non a torto, è chiamata la rivoluzione del teatro musicale europeo.
Mario Labroca è stato, ed è ancora, una delle maggiori figure che si conoscano nel campo dell'invenzione dello spettacolo; e sono legate al suo nome alcune tra le realizzazioni più poetiche che meritirto memoria. Basta, a citarne una soli, la recita al Giardino Boboli di Firenze, in collaborazione con Renato Simoni, dell'Aminta del Tasso.
Esperto d'ogni forma di rappresentazione scenica, testimone acuto e criticamente preparato di memorabili rappresentazioni, spregiudicato assertore d'ogni nuova forma d'arte - l'Autore, oramai confortato dal consenso di successi che portano il nome della poesia, racconta in forma piana, facile, chiara La storia del teatro italiano. E non è chi non veda, nel susseguirsi della narrazione, quale preziosa testimonianza lascia con questo libro il suo autore.