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MARIO LABROCA

IL PRIMO FESTIVAL DI VENEZIA

L'USIGNOLO DI BOBOLI
pp. 112-117


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Quale fu il primo festival musicale in Italia? Non v'è ombra di dubbio, quello di Venezia del 1925 dedicato alla musica contemporanea da camera: organizzato per conto della Società Internazionale per la Musica Contemporanea [SIMC] radunò un pubblico, dato l'avvenimento, imponente: oltre seicento persone erano venute appositamente da tutta Europa e dall'America. Era il momento, quello, nel quale la musica contemporanea, per farla fiorire, bisognava coltivarla nell'atmosfera calda e favorevole dei festivals ad essa dedicati; sicché cotesti festivals erano allora una cosa di mezzo tra la serra e la catacomba, anche se di tanto in tanto era possibile cogliere durante il rito dell'ascolto l'inopportuno soffio d'aria di qualche isolata disapprovazione, conseguenza della infiltrazione nella catacomba di elementi non associati alla religione della contemporaneità.
La scelta della musica per coteste manifestazioni era piuttosto generica: bastava non essere ossequienti seguaci degli insegnamenti accademici per essere presi in considerazione, e il metodo di scelta, assolutamente negativo, pesava in modo assai grave sui programmi: lunghe, aride composizioni si seguivano una all'altra creando una pesante, noiosa atmosfera, illuminata di tanto in tanto da qualche composizione geniale e viva che faceva dimenticare i lunghi ascolti asfissiantì sopportati con rassegnazione. Ricordo il senso di clamorosa liberazione che certe musiche di Strawinsky, Hindemith, Malipiero, Casella, ecc. riuscivano a dare a tutti gli ascoltatori: erano le oasi preziose che giustificavano i lunghi viaggi nel deserto della aridità inutile.
Dunque fu a Venezia, in settembre, edella materiale organizzazione fui incaricato proprio io: mi sistemai in una stanzetta del Conservatorio Benedetto Marcello, allora cadente e disordinato, ché ancora Malipiero non lo aveva restituito alla sua originale bellezza, e mi detti da fare per scritturare gli esecutori, trovare le camere negli alberghi, mettere un po' in ordine il Teatro della Fenice che aspettava anch'esso, allora, le cure di un profondo restauro. Fu in settembre, nel pieno di una stagione che ricordava quelle precedenti la guerra; per intenderci, in quegli anni non c'era ancora il turismo di massa, ché anzi gli alberghi erano pieni di un pubblico qualificato e scelto, quando non era addirittura preceduto da titoli nobiliari o accademici. I palazzi del Canal Grande vantavano ospiti illustri o dal nome altisonante, e noi del festival fummo sicuri del conforto a quei tempi indispensabile, e cioè del conforto snobistico. Ricordo che la Fenice era sempre piena di un pubblico che in gran parte pagava il biglietto e che per l'altra parte aveva titoli sufficienti per aspirare all'onore dell'invito. Pubblico folto ma incassi magri: costretto ad una feroce economia, cercavo, per le formazioni dei piccoli gruppi strumentali, di rivolgermi a giovanissimi esecutori appena diplomati o ancora allievi del Conservatorio.
Un giorno mi si presentò un ragazzo vivo, intelligente e turbolento che mi offrì i suoi servigi come violinista: suonava bene, con una musicalità rara, una tecnica precisa e un gusto raffinatissimo; quando venne da me non compresi subito cosa volesse perché parlava un veneziano strettissimo, veloce, fatto di abbreviazioni, di parole che perdevano, nella fretta, l'ultima sillaba; era un parlare così rapido che a volte precedeva il pensiero. Quel giovane era Nino Sanzogno: non prevedevo allora che, pochi anni più tardi, il suo archetto sarebbe diventato la bacchetta del direttore d'orchestra, che l'avrei avuto collaboratore tra i più valenti e preziosi, alla Fenice, alla Scala, alla Radio, e che sarebbe diventato uno dei miei amici più cari. Tanto più che la nostra amicizia non data da quel festival perché diedi anzi al mio futuro amico una grande delusione: quando dopo aver suonato venne a chiedermi un compenso sia pure modesto, io, battendogli una mano sulla spalla con autorità paterna, gli dissi che, data la nostra povertà di mezzi doveva contentarsi dell'onore di aver partecipato al Festival in presenza di un pubblico così importante. Generoso anche allora che non aveva un soldo, Nino Sanzogno si contentò delle mie parole; ma io in fondo in fondo ebbi una punta di rimorso perché il poco denaro che mi chiedeva chi sa quale piacere gli avrebbe procurato. Mi consolai pensando che anch'io di soldi ne avevo pochissimi.
Bisogna a questo punto che ti parli di un personaggio che ebbe grande parte nella vita della Società Internazionale per la Musica Contemporanea, e cioè di Edward Dent che ne fu per molti anni il presidente. Dent, come tu sai, fu un illustre musicologo inglese che dedicò quasi tutta la sua vita allo studio degli Scarlatti, e l'opera sua intorno a quei nostri musicisti è certamente fondamentale ed ancora oggi fa testo. Dent non era un appassionato della musica contemporanea, anzi egli non fingeva nemmeno di esserne un ammiratore; credeva nelle inevitabili trasformazioni del linguaggio musicale e pensava fosse doveroso favorire la conoscenza di coteste trasformazioni. Era un uomo alto, magro, coltissimo, che parlava alla perfezione l'italiano, il francese, il tedesco, che aveva una mirabile facoltà discorsiva che a un certo punto ti accorgevi essere una vera e propria forma di arte oratoria. I suoi interventi erano pieni di quell'umorismo attento e preciso che è proprio degli inglesi intelligenti, e quando parlava ti faceva passare di sorpresa in sorpresa. Fornito anche di un fine senso diplomatico, egli seppe presiedere con grande equilibrio le assemblee della S.I.M.C. e ti assicuro che non era facile; perché purtroppo anche nella musica era entrato il bacillo del «prestigio nazionale», e la S.I.M.C. correva pericolo di dimenticare le sue finalità artistiche per correre dietro ai capricci, ai brontolii, alle proteste dei vari delegati nazionali. Dent con grande abilità eliminò i pericoli delle pretese nazionalistiche e riuscì, sia pure tra grandi difficoltà, a conservare l'organismo nei confini delle sue vere finalità.
Durante la preparazione di quel festival (che fu realizzato grazie a un contributo governativo di 10.000 lire), io ebbi Dent sempre vicino. Viaggiatore instancabile, era padrone dell'arte tutta inglese di affezionarsi ai piccoli, modesti alberghetti, alle trattorie semplici e saporose, ai luoghi dove è più facile il contatto con le persone e le cose che caratterizzano le città e i loro abitanti; aveva girato tutto il mondo e di tutti i paesi del mondo conosceva quanto valeva davvero la pena di conoscere; la sua compagnia, perciò, oltre ad essere piacevole, era anche utile ché egli aveva familiarità con i caratteri, le debolezze, le storture e sapeva consigliare quale la strada più utile e il mezzo più sicuro per non incorrere in errori diplomatici, per non scontentare il critico polacco o il compositore cecoslovacco o il musicologo ungherese.
Il festival del '25 presentò alcune opere il cui interesse era tutto nella stranezza degli aspetti esteriori: ricordo per esempio una sonata per pianoforte del pianista Schnabel che durava esattamente un'ora e cinque minuti senza interruzione di sorta, perché i quattro tempi erano strettamente saldati uno all'altro, ragion per cui non avevi il tempo di respirare: vedo ancora il pubblico tormentarsi e agitarsi sulle vecchie poltrone della Fenice che emettevano sinistri scricchiolii, avverto ancora il senso di profonda invidia per i fortunati ospiti dei palchi ai quali era possibile la salvezza nel corridoio e di là all'aperto: le note piovevano dal pianoforte pigiate e fitte sicché a pensarle trasformate in goccie avevi la sensazione di un nuovo diluvio universale sulla testa dei mortali; e c'era chi con la coda dell'occhio tentava di scoprire se per caso non apparisse a salvarli la nuova arca di un nuovo Noé.
Ricordo ancora come composizione per lo meno inconsueta il lavoro di un giovane americano, Raggels, per sei trombe dal titolo «Angels». Non sto a dirti le difficoltà che dovemmo superare per trovare le sei trombe; ne facemmo venire da Milano, da Genova, da Napoli, da Palermo, costringemmo al riposo qualche complesso jazz che, privo di una tromba, non aveva possibilità di svolgere il normale servizio; scrivemmo, telegrafammo e finalmente, un giorno felice, le sei trombe si ritrovarono tutte all'appuntamento veneziano; un giovane direttore d'orchestra era giunt appositamente dall'America per dirigerle; chiusi, i sette esecutori, nella sala di prova non li rivedemmo che la sera del concerto. Il «Quartetto Veneziano» aveva appena terminato di eseguire il mio primo quartetto, che i servi di scena si precipitarono sul palcoscenico; portati via i quattro leggii, sistemarono una pedana, su questa disposero sei leggii e sei sedie, davanti alla pedana alzarono il podio direttoriale: fu un lavoro che durò un bel pezzo e tutti ci disponevamo ad un ascolto proporzionato, come lunghezza, alla durata dei preparativi, quando finalmente gli esecutori entrarono con passo solenne, vestiti di nero, con la tromba sotto il braccio; sedettero per alzarsi subito dopo quando entrò il direttore.
Si fece un silenzio grave e proporzionato all'evento, ché le sei trombe incutevano soggezione profonda; poi il direttore alzò le braccia, e i sei suonatori diedero fiato ai loro strumenti. L'opera ebbe inizio con pochi rabbiosi accordi, poi tutto tacque in una lunga pausa, e mentre ci preparavamo all'ascolto ulteriore, vedemmo il direttore inchinarsi al pubblico e andarsene, i sei esecutori alzarsi a loro volta e, con la tromba sotto il braccio e il passo funerario dell'entrata, uscire anch'essi dalla scena. Cos'era successo? Niente di grave, il pezzo era già finito; era durato non più di cinque o sei secondi.
Una grande risata salutò la curiosa esibizione e ricordo Toscanini che, in un palco, rideva anche lui senza sapersi frenare.
Ti ho citato i due casi come esempi di un evidente disordine nella scelta delle musiche. La commissione che si riuniva durante l'inverno per selezionare i lavori ricevuti dai diversi paesi, si lasciava spesso guidare da considerazioni politiche; era più grave, evidentemente, scontentare qualche paese che non gettare sulla musica contemporanea l'ombra di opere che forse era più opportuno eseguire in altra sede, se non addirittura dimenticare nei cassetti degli autori.
Devo dirti però che, proprio in quel festival, Strawinsky eseguì per la prima volta la sua «Sonata per pianoforte» e quello fu un avvenimento di grande importanza e costituì una parentesi luminosa nel grigiore diffuso di tutta la manifestazione. Posso parlarti con questo tono, ora, a tanti anni di distanza; infatti noi vediamo ancora vive tre o quattro soltanto delle trenta composizioni che furono eseguite in quel festival e ci rendiamo conto che il resto fu zavorra o poco più; ma allora tutto fu preso sul serio perché prodotto del momento, parte del nostro costume, della polemica del giorno, della nostra vita: opere minori, sia pure, e non riuscite, ma che contribuirono anch'esse a dare sviluppo a quelle espressioni armoniche e ritmiche che portarono la musica fuori dalla soggezione scolastica; furono l'humus che alimentò la terra, il calore che intiepidì l'atmosfera. La pattuglia dei pionieri preparò l'ambiente all'opera d'arte vera che ascoltiamo oggi, fresca e viva, come quella già legata oramai da tempo alla immortalità. Opere minori le altre, tra le quali è certamente qualcuna degna di un ritorno alla luce. Ma credo sia meglio lasciarle dormire fino a che il musicologo del 2100 o di secoli più lontani le scoprirà, le illustrerà, se le godrà e tenterà di farle godere agli altri. Allora, forse, il nome dimenticato tornerà in luce, e non è detto che non debba sedere alla tavola dei principi.
Permetti adesso che àuguri ai posteri musicologi seri e capaci, perché non debba cadere sulla loro testa la pioggia delle antiche opere inutili e noiose. Per il loro bene non vorrei che assistessero anch'essi, a secoli di distanza, allo stesso Festival di Venezia del 1925, al quale diedi tanta parte del mio entusiasmo giovanile.