I «CAPRICCI» DI MALIPIERO






Gian Francesco Malipiero, questo personaggio così poco ufficiale della musica italiana del nostro secolo, così lontano dalla mischia delle tendenze dell'avanguardia e pure così attuale ed importante nel panorama della nostra musica, ha avuto l'«onore», alla soglia dell'ottantaseiesimo anno di età, di essere rappresentato per la terza volta in vita sua al Teatro alla Scala di Milano. E quando si pensa che suoi coetanei - tanto meno significativi - come Pizzetti e Respighi hanno avuto nel corso del secolo decine di rappresentazioni in quello che vorrebbe essere il massimo teatro lirico d'Italia, si comprenderanno bene le ragioni per cui Malipiero continua a essere pressoché sconosciuto nella vita musicale del nostro Paese.
Come terza opera malipieriana accolta in cartellone dopo le Tre commedie goldoniane eseguite nel 1945 e L'allegra brigata (in prima assoluta) nel 1950 e lasciando da parte i due lavori in un atto dati alla «Piccola» pochi anni fa, la Scala ha scelto I capricci di Callot, che Malipiero ha composto nel 1942 su testo proprio ispirato alla serie di incisioni «I balli di Sfessania» del secentista jacques Callot e alle omonime novelle di E. T. A. Hoffmann.
È questa una pagina importante innanzi tutto per la «storia» del musicista veneziano: dopo gli attacchi politici alla Favola del figlio cambiato su testo di Pirandello (rappresentato nel 1934 a Roma), Malipiero lascia per qualche anno una tematica che suona critica diretta alla realtà che lo circonda, e si rifugia nel dramma classico, musicando il quale addirittura accoglie quei criteri formali e costruttivi che per tanto tempo aveva decisamente combattuto. Una parentesi, questa, che si chiude appunto nel 1942 con I capricci di Callot, dove, per dirla con Piero Santi, in lui «torna a ridestarsi, con acuito rigore, l'impulso fantastico che un tempo assumeva tutta intera la responsabilità di corroborare, per intrinseca virtù, la libera esposizione delle idee musicali».
Ciò si risolve in primo luogo nella scelta di una trama che tale non è; il filo che collega tra loro i tre atti è assai debole, quasi pretestuoso, laddove il tema vero dell'opera va ricercato in vari momenti scenici che presentano aspetti diversi di una realtà teatrale-umana: la fata che crea vestiti meravigliosi, capaci di dar vita a personaggi di sogno; la ridda di «maschere di vestiti» di ogni sorta; il fantastico corteo; la burla; il sacrificio delle fanciulle; la follia di Giacinta e le nozze finali in mezzo alle maschere. Un caleidoscopio di situazioni, dunque, quasi di flash teatrali in cui si cala, tenue, la vicenda dei due innamorati, Giglio e Giacinta. E la musica, specchio sensibile di questo libero rapsodiare della fantasia, si distende in un continuum temporale esente da tematismi, da forme chiuse, da convenzioni melodrammatiche: è una musica volutamente opaca, vibrazione di un animo in cui non hanno finito di risuonare i madrigali dell'antica tradizione italiana mi dove trovano posto le inquietudini dell'uomo di oggi, la desolazione di chi non sa trovare le ragioni della vita in una comunità rinnovata o da rinnovarsi ma nemmeno si piega all'integrazione borghese e alla sua finzione di un mondo non modificabile.
Queste appaiono davvero essere le corde più sensibili della musica malipieriana; che non tanto tocca e commuove nei passi che, per intenderci, chiamerò a carattere «realistico» (e cioè quelli affidati al dialogo, alla botta e alla risposta, alla declamazione), quanto là dove è dato libero corso al rapsodico fantasticare di cui si diceva: il dolcissimo e mesto prologo con le quattro coppie di maschere, il carnevale romano, capovolto in fioco ricordo intriso di malinconia e sfocato in sonorità stralunate, il finale delle maschere. Un'opera evanescente, non un'architettura sapientemente costruita ma un organismo che si annulla nel momento stesso del suo farsi, lasciando tuttavia una traccia indelebile nel ricordo. Peccato che, così poco abituato al nome di Malipiero e al suo teatro, il pubblico della Scala non abbia, almeno alla prima, saputo cogliere l'intima poesia di questa pagina.

(1968)