MASSIMO MILA

GIAN FRANCESCO MALIPIERO

Nonostante le accuse di cerebralità e tecnicismo cui è spesso fatto segno, anche G. F. Malipiero (Venezia 1882-1973) ha sviluppato la sua arte verso un assoluto predominio della melodia, nutrita anch'essa di gregoriano -«che per gli Italiani », egli dice, « ha preso la stessa importanza della canzone popolare nella giovane scuola russa» - e dei modi della grande musica italiana preottocentesca, da Monteverdi a Corelli, dai Gabrieli a Benedetto Marcello. Insofferente di schemi, Malipiero ripudia il principio stesso dello sviluppo tematico, cardine della composizione ottocentesca. Nella sua ossessione di continuità, egli concepisce il discorso musicale come un perenne pullulare d'idee melodiche, di natura squisitamente vocale, nude di ogni carico armonico e strumentale, ma all'occorrenza combinate polifonicamente con una grande libertà tonale e frequente ricorso a « modi » antichi.
Questa tecnica musicale ha condotto Malipiero a una concezione rivoluzionaria del teatro con l'abolizione o la riduzione al minimo del recitativo, e quindi di tutte le necessità discorsive, e con la conseguente aspirazione a fare dell'opera un seguito di canzoni, come avviene appunto nelle Sette canzoni (1918-19). Questa concezione teatrale, polemicamente antiottocentesca, fiori entro un clima espressivo nettamente romantico, di pessimismo dolorante e ribelle, spesso sarcasticamente atteggiato, e con larghe venature di estetismo dannunziano, perfino di arcaismi benelliani. È incredibile come da un complesso psicologico e letterario cosí discutibile abbiano potuto realizzarsi ispirazioni musicali di grandissima levatura, che culminano nel Torneo notturno (1929): è un'opera concepita «a pannelli», nel modo caro a Malipiero, come sette notturni, cioè sette situazioni drammatiche svolte attorno ad un nucleo musicale, la Canzone del tempo, di grande efficacia per un certo senso di vertigine, d'ineluttabile e perpetuo moto, un trasformarsi e divenire continuo in un'immutabile ed eterna diversità, come l'acqua, come il tempo che va, fugge, ritorna e sempre fugge di nuovo. Opera che a Bontempelli richiamava la visione di «un lugubre aggirarsi di volti disperati tra le pareti di una città squallida».
Tutta l'opera di Malipiero sta nell'ambito di due forze essenziali: «l'una, il sogno d'un'incantata bellezza, l'altra la distruzione di questo sogno, il suo insensato e inevitabile destino di morte» (D'Amico). E benché questi siano poli espressivi tra i quali è compresa ogni opera sua, è evidente nel corso della sua produzione un crescente predominio, a partire pressì poco dalle opere che seguirono il Torneo notturno, e cioè la musica per il film Acciaio, gli Inni, i Cantari alla madrigalesca, dell'ideale di bellezza classica, che si compendia per Malipiero in un'italianità affondata nei secoli piú gloriosi della tradizione veneziana, musicale e pittorica. È «un processo di semplificazione, graduale e continuo... fino alla vasta e macerata calma della sua musica d'oggi... Si parte da un colorismo strumentale e ritmico mobilissimo per arrivare a un senso disteso di pianura solo confinata dal piú lontano orizzonte ove la terra si confonde col cielo» (Bontempelli).
Questo trapasso dall'atmosfera arroventata e convulsa di Pantea, delle Sette canzoni, del Torneo notturno, a una condizione pacificata e serena di conquistata innocenza ha giovato alle opere strumentali e sacre, come la Sinfonia (1934), la Passione (193 5) e quelle poc'anzi citate. Non sembra si possa dire altrettanto per il teatro, dove, dopo la Favola del figlio cambiato (1933), Malipiero ha abbandonato i suoi caratteristici libretti, tutta essenzialità lirica con elisione d'ogni raccordo ed elemento logicamente connettivo, per prepararsi da sé grandi drammi classici, da Shakespeare (Giulio Cesare, 1935; Antonio e Cleopatra, 1938), da Euripide (Ecuba, 1939) e Calderón (La vita è sogno, 1940): ha dovuto perciò acconciarsi alle esigenze esplicative d'un testo coerentemente organizzato, e per far ciò pare abbia notevolmente spento la vitalità della sua perenne invenzione melodica in quel declamato amorfo, che, dal piú al meno, fa oggi le spese di quasi tutti quei tentativi teatrali che non vogliono ricadere nelle consuetudini melodrammatiche. Tuttavia I capricci di Callot (1942) hanno segnato un ritorno alla liberissima concezione teatrale d'un tempo, fantasia pura, svincolata da ogni necessità logica di discorso prosastico. Altre opere come Donna Urraca (1954), Venere prigioniera (1957), L'allegra brigata (1950), Il festino (1954), Il capitan Spavento (1956), sono seguite su questo indirizzo di libertà fantastica da schemi formali; e cosí numerose cantate (Santa Eufrosina, 1942; Vergilii Aeneis, 1944; La terra, 1946; Magister Josephus, 1954) e molta musica strumentale, tra cui 9 Sinfonie, in libera forma concertante, e i Dialoghi per vari complessi (1956-57).
Sebbene immerso in un impegno di modernità quale finora non abbiamo ancora riscontrato in un musicista italiano, Malipiero è artista di formazione isolata, al riparo dalle mode e dagli esperimenti internazionali. Sensibile, nei suoi inizi, ai suggerimenti d'un impressionismo franco-russo, dove si combinano Rimskij Korsakov e Debussy, non tarda a scrollarli via da sé: la novità del suo linguaggio si genera tutta in una personale rimeditazione del declamato monteverdiano e della scuola veneta cinquecentesca, non senza qualche curiosità negli ultimi tempi, per le novità musicali di derivazione espressionistica.