ARTHUR GOLD
ROBERT FIZDALE


MISIA
LA VITA DI MISIA SERT

MONDADORI
MILANO 1981
pp. 11-14

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Nell'anno 1880 una bimba è affacciata al balcone del collegio di Madame Maurice in avenue Niel, a Parigi. Braccia tornite appoggiate alla balaustra di ferro battuto, gli occhi scuri e l'incarnato radioso incorniciato dai riccioli castani, pare l'essenza della pensosa fanciulletta di Renoir.
Compare un organettista che si trascina il suo strumento lungo la via silenziosa. Scorge la bambina, si ferma, assume l'inimitabile posa a gambe divaricate e le fa la serenata con un motivetto popolare. La fanciulla ascolta rapita, poi si ritrae dal balcone. Riappare dopo un istante e lascia cadere un ninnolo verso quel suo amico musicista. L'uomo lo afferra destramente a mezz'aria. È un minuscolo porcellino d'oro, l'oggetto più prezioso che lei abbia. Il bruno musicista si leva il cappello, alza verso la bambina uno sguardo attento e poi s'allontana lentamente lungo la strada.
Un'occhiata ardente, l'eccitante spezzettato ansimare di un organetto meccanico, un gesto impulsivo e stravagante, e ha inizio la carriera di Misia quale patrona delle arti.
Cresciuta, quella fanciulla divenne non soltanto patrona delle arti bensì anche una musa, un'ispirazione per gli artisti. Molti anni più tardi un suo scintillante ritratto comparve nella Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Rievocando quei magici anni quando Parigi vide «la prodigiosa fioritura dei Ballets Russes che rivelarono uno dopo l'altro Bakst, Nijinskij, Benois, il genio di Stravinskij» Proust descrisse Misia trasformandola nella «Principessa Yurbeletiev, la giovanile patrona di tutti quel grandi uomini», la quale compariva nel suo palco al balletto «portando sul capo un'immensa, vibrante aigrette, sconosciuta alle parigine che subito vollero copiarla. Si sarebbe potuto supporre» soggiungeva Proust «che quella meravigliosa creatura fosse stata importata nei loro innumerevoli bagagli quale più prezioso tesoro dal ballerini russi». Nel suo caratteristico modo Proust fece di Misia una principessa. Sebbene non lo fosse - i suoi tre matrimoni la fecero semplicemente Madame Thadée Natanson, Madame Alfred Edwards, e Madame José-Maria Sert - aveva un fascino così accattivante e un temperamento così maestoso che, proprio come una principessa, era nota al mondo con un unico nome: Misia.
Pochi dei personaggi di Proust sfuggono alla sua malizia. Allo stesso modo con cui Odilon Redon, che in campagna fu vicino di Misia, aggiunge al dipinto d'un mazzo di fiori misteriosamente ultraterreno quell'acidulo tocco di verde che gli conferisce una sorprendente potenza, Proust, in un momento di sdoppiata visionarietà, vide Misia come due personaggi. La raffigurò come la principessa Yurbeletiev, che trova affascinante, seducente quanto gli stessi Ballets Russes, ma l'adoperò anche come una delle modelle per Madame Verdurin, l'antipatica 'arriviste' a cui attribuisce l'acre appellativo di «padrona». Quando descrive il modo col quale Madame Verdurin raggiunse la sua privilegiata posizione nella Parigi bene grazie a un insieme di fortuna e di astute manovre, traccia in effetti la carriera di Misia.
Proust non era certamente il primo uomo di genio a rendersi sensibile a quella «meravigliosa creatura» nata Marie Godebska. Quando ancora era bambina, la sua vitalità e il talento pianistico deliziarono sia Liszt sia Fauré. Da giovane sposa fu amica e modella di Vuillard, Bonnard, Toulouse-Lautrec e Renoir. Ognuno di loro la ritrasse più volte. In seguito, nella sua qualità di amica parigina più intima di Diaghilev, sedette sul trono al suo fianco, éminence rose dei Ballets Russes.
Conoscere Misia significava poter accedere alla cerchia di Diaghilev; era una delle poche donne la cui opinione gli era preziosa e il cui consiglio ricercava. Nella prima stagione dei Ballets Russes il giovane Jean Cocteau, ansioso d'unirsi alla troupe e desideroso di creare storie per i balletti di Diaghilev, speranzoso quindi che Misia usasse la sua influenza per favorirlo, ne divenne il protégé. Un protetto che lei alternativamente aiutava od ostacolava, coccolava o tormentava. Di Misia Cocteau avrebbe fatto l'eroina di Thomas l'imposteur, il suo romanzo ambientato durante la Grande Guerra. Nessuno ha meglio di lui descritto il suo singolare fascino, la sua spensieratezza, quel suo 'sans-gêne'. Come Proust, preferì pensarla una nobile:
La Princesse de Bormes era polacca. La Polonia è la patria dei pianisti. Suonava la vita così come un virtuoso suona il pianoforte. E come un virtuoso era capace di creare straordinari effetti sia con la musica mediocre sia con la più bella. Il suo dovere era il piacere. Ecco dunque che quell'eccellente donna poteva dire: «Non mi piacciono i poveri. Detesto gli infermi.» Non sorprende certo che simili parole fossero considerate scandalose.
Voleva essere divertita e sapeva come esserlo. Aveva capito, diversamente da molte donne del suo ambiente, che il piacere non va trovato nelle cose ma nel modo con cui le si prende. Un atteggiamento che richiede salute robusta. Superati i quarant'anni aveva occhi sfavillanti e il viso d'una giovane, occhi che la noia spegneva in un istante. Quindi evitava la noia e si godeva una risata, che invece le altre signore evitavano perché provocatrice di rughe. La sua eccellente salute, il suo gusto per la vita, la singolarità del suo vestire, i suoi modi, la maniera che aveva di camminare le conferirono una straordinaria reputazione.
In realtà era l'essenza della purezza e della nobiltà. Ed è proprio questo che confondeva la gente, per la quale nobiltà e purezza erano sacri oggetti il cui uso costituiva sacrilegio. La principessa infatti li usava, li plasmava, dava loro un lustro nuovo. Modellava la virtù secondo l'uso che voleva fame, così come l'eleganza modella un abito troppo rigido; in lei la bellezza dell'anima era cosi naturale.che nessuno gliela notava.
Dopo la seconda guerra mondiale, Misia, ormai sull'ottantina, infelice, dedita agli stupefacenti e quasi cieca, dettò le sue memorie al devoto amico e compagno deì suoi ultimi anni, Boulos Ristelhueber. Sebbene a noi siano parse generalmente accurate, molti degli amici di Misia che ci misero a parte dei loro ricordi si riferirono a quel libro come a «un insieme di bugie». Certo, molto vi è omesso, taluni episodi ricevono una luce fin troppo romantica, gli schemi degli avvenimenti sono come offuscati. Sembra quasi che gli archivi della sua memoria fossero stati disordinatamente rovistati. Il passato le parlava sottovoce, indistintamente. Purtroppo, nel tentativi di Misia di ricatturarlo, la morfina non fu di aiuto a Misia così come la maddalena l'era stata per Proust. Ma dopo tutto, scelse di ricordare l'essenziale sua verità poetica.
Come molte belle donne, mentì riguardo al suoi anni. Cambiò sul passaporto la data di nascita da 1872 a 1882... e lo fece maldestramente graffiando un otto sopra il sette. Cosicché Misia, che Erik Satie definì una maga, si fece sparire dieci anni con uno svolazzo di penna. Fu la bugia a cui tutti credettero, cronisti e amici insieme. Accettarono senza discutere la sua dichiarazione d'essersi sposata appena raggiunta «l'età legale di quindici anni e tre mesi», sebbene il certificato del suo primo matrimonio dica chiaramente come di anni ne avesse avuti ventuno. Né fu mai messa in dubbio quando tramutò i quattro anni d'indecisione che precedettero la sua seconda unione in un fidanzamento lampo.
Diversamente dal suoi contemporanei d'oltre Manica, quelli del gruppo Bloomsbury, le cui reazioni a ogni dilemma sociale, a ogni corrente artistica - persino a ogni tazza di tè condivisa, a ogni costipazione - venivano annotate in contrastanti versioni nei loro diari e discusse nelle loro argute e talora angosciate lettere, Misia non tenne mai diari e scrisse poche lettere. Consentì che molte delle migliaia di lettere che riceveva scomparissero, così come aveva permesso ai disegni che Toulouse-Lautrec aveva schizzato alla sua tavola di venire spazzati via insieme alle briciole. Perciò questa storia sarà informale quanto Misia stessa. Talvolta è lei che osserveremo, mentre in altri momenti guarderemo oltre la sua spalla le cose che anche lei vedeva, le persone che frequentava, tutti coloro di cui scrisse e che scrissero di lei.
Misia parlava raramente del passato. Viveva per l'attimo presente, facendone un'arte. Il suo salotto era un teatro informale che mutava di personaggi e di significati a mano a mano che lei mutava la propria esistenza. Il giovane diplomatico Paul Morand nel suo Journal d'un attaché d'Ambassade descrisse una visita fatta a Proust: Proust a letto in una camera talmente gelida che Morand dovette tenersi addosso il cappotto foderato di pelliccia. Lo scrittore gli parlò di Misia come di un «monumento storico». Morand soggiunge: «In realtà, Misia è un monumento portato a Parigi da una qualche lontana contrada, come l'obelisco, e collocato poi al centro del buon gusto francese, così come l'Ago di Luxor sta al centro dei Champs-Elysées».