UNA LETTERA DI G. F. MALIPIERO [1]

Asolo (Treviso), 13 gennaio

Caro Marinetti

Ho letto la tua lettera pubblicata sull'Impero e ti ringrazio per la tua difesa, difesa che si trasforma in accusa se si pensa all'accoglienza fatta dal pubblico del Teatro Reale dell'Opera alle mie Sette canzoni. Fortunatamente le Sette canzoni non si rappresentavano per la prima volta, perciò quei pochi capponi che si son messi a strillare perchè non possono essere galli, han perduto il loro tempo. L'imboscata romana rimane un episodio e le Sette canzoni rimangono quello che sono.

È indiscutibile, però, che pur attribuendo al lancio dei siluri sottomarini la causa del sinistro (non, è colpa mia se certi criticuzzi, microscopici musicomani, per sfumarsi debbono umiliarsi a scribacchiare su per le gazzette, facendo i buffoni e nessuno si cura di loro al di là della cinta daziaria della città ove imperversano; per conquistare la loro amicizia dovrei forse impedire che l'opera mia si prenda sul serio in tutti i paesi ove si coltiva la musica?) è indiscutibile ti dico che il pubblico pensa che la parola della critica sia autorevole, la colpa è di coloro che guidano le sorti del nostro movimento intellettuale e non mandano al confino i disfattisti.
È disf attismo, nel campo musicale, affermare che il musicista italiano è fatto con lo stampo, che la musica italiana è una sola (ricorderai che dalle trincee nemiche ci chiamavano mandolinisti!) non parliamo poi del melodramma italiano: nasce già bello che imballato per l'esportazione, tondo tondo come gli aranci di Sicilia. E poi, che si legge nelle gazzette alla vigilia delle prime? «Il pubblico è chiamato stasera a giudicare ecc. ecc.». Riesce dunque facile agli amici dell'autore di sobillare coloro che si credono giudici e che per salvare l'arte italiana si accingono a demolire l'accusato con ogni sorta di manifestazioni incivili e indecorose.
Spostando lo scopo dell'arte si distrugge la ragione d'essere dell'arte stessa e si ottengono i risultati che ogni buon italiano può melanconicamente constatare se di quando in quando fa il bilancio del nostro movimento musicale. Ma è meglio non parlare di cose tristi, tanto più che il tuo amico Carli ha già trovato tetro l'argomento delle Sette canzoni. Forse egli ha ragione, ma dopo Caporetto (le Sette canzoni sono state scritte in una lugubre pensione romana nel 1918) io non ero molto allegro. Ciò non ostante la II canzone è sarcastica, la III drammatica, la IV buffa, la VI grottesca e la VII ironica. Soltanto la I e la V canzone sono tetre.
Pare che a Roma nella settima canzone abbiano scoperto un funerale. Invece si tratta di una mascherata che rientra dopo i bagordi dell'ultima sera di carnevale e si incontra con un'altra mascherata! Sono cose che accadono; anch'io vedo il pubblico differente da quello che s'illude di essere; però, ti ripeto, il pubblico italiano si potrebbe trasformare e ridurre il pubblico più intelligente, se si togliesse la parola a chi è interessato a conservarlo com'è. La delinquenza non germoglia soltanto nei bassifondi e fra gli strozzini!
Non credere che io difenda le Sette canzoni. Non seguendo io un ricettario approvato dalle Accademie non saprei che dire per difenderle. Sono quello che sono e la più bella risposta la troverai nel mio Orfeo, ovvero l'ottava canzone. La conosci questa ottava canzone? L'ho scritta dopo che ebbi osservato il pubblico di fronte alle mie sette canzoni all'Opera di Parigi nel 1920! In quanto poi al mio teatro musicale, per dirti del suo valore dovrei darti appuntamento fra una cinquantina d'anni. Purtroppo temerei di dover mancare a questo appuntamento e mi rincresce anche di pensare che tutti «i petti inamidati e le belle donne» dell'8 gennaio 1929, sarebbero felici di assistere ad una delle rappresentazioni delle Sette canzoni nel 1979, e che non sta in me di dar loro tanta felicità!
Questa avventura, come molte altre del genere, mi lasciano completamente indifferente, sono però rattristato dallo spettacolo miserando che offre oggi la nostra musica. Se mi condannassero, ma esaltassero dei musicisti non fabbricati con lo stampo del falso nazionalismo, e se questi fossero degni del nostro paese, nessuna tristezza potrebbe dominarmi nemmeno per cinque minuti. Amo il mio paese e mi devo accontentare di non denigrare il nome d'Italia al di là delle Alpi e oltre l'Oceano. Ciò mi è facile tanto più che odio il mandolino.
Ancora grazie, mio caro e nobile amico. Ringrazia pure il comune amico Carli. Ti stringo la mano. Il tuo aff.mo

G. FRANCESCO MALIPIERO

[1] Il Malipiero ha risposto alla precedente lettera di F. T. Marinetti con la lettera che qui si riproduce dall'Impero del 18 Gennaio 1929.