GASTONE ROSSI-DORIA

CONCLUSIONE

A chi volesse darsi ad un'apologia di G. F. Malipiero basterebbe presentare insieme alcune pagine di musica e la cronaca documentata della carriera del maestro veneziano in Italia ed al di là delle Alpi.
Da tale semplice presentazione verrebbero a stabilirsi anzitutto questi due fatti:

1º l'esistenza d'una nuova musica essenzialmente chiara ed italiana;

2º l'esatta valutazione di questa musica da parte degli stranieri e l'irritata ostilità dei connazionali, specie dei connazionali rivestiti d'«autorità» nella vita musicale del Paese.
In un secondo momento verrebbe a stabilirsi, dalla lettura dei giudizi apparsi fuori d'Italia, che se qualche italofobo ha talvolta voluto sogghignare di fronte all'ampiezza melodica malipieriana ( «...cette intolérable mélodie italienne... ») alla deferenza di tutti quei musicisti e critici s'è sempre imposta la maestria dell'artefice, specie dell'orchestratore e dell'armonista: tanto più notevole maestria quanto più lontana da quella cui si mira nei Conservatori di musica.
Dalla lettura dei giudizi apparsi in Italia verrebbe a stabilirsi che per moltissimi critici la musica malipieriana è sfornita di melodia, ispirata a modelli stranieri, amorfa e scritta male specie sotto il riguardo della tecnica orchestrale.
Un terzo documento si potrebbe anche allegare, se non si dovesse negargli valore: la cronaca degli applausi e dei fischi; il valore non glielo tolgo io; glielo hanno già tolto, a proposito, p. es., delle Sette Canzoni in queste ultime settimane rappresentate al Teatro Reale dell'Opera di Roma, i più onesti critici antimalipieriani, costretti ad ammettere che i fischi, come già quelli contro Pelléas et Mélisande, erano liberalmente largiti fin dalle prime battute e in perfetta noncuranza della musica che - qualunque essa fosse - si stava eseguendo. E non diversamente avvenne in occasione di altre esecuzioni di musica di Malipiero. Non si può conferire alla cronaca dei fischi e dei plausi il valore di «giudizio di popolo» se non quando i fischi ed i plausi siano stati emessi a conoscenza di causa.
Ciò detto, dichiariamo che non è il nostro animo quello di darci ad un'apologia, pur giustificata ch'ella sia per la violenza delle accuse, e preghiamo credere che di apologie, nè il Malipiero ha bisogno, eseguito com'egli è ed apprezzato secondo i suoi meriti in Europa ed in America, nè il sottoscritto sarebbe capace.
Ma di questa lotta contro Malipiero, praticamente manifestata con inconcludenti gazzarre, ma alimentata, sia pur in buona fede, dalle Accademie e dalla stampa quotidiana, è necessario una volta di più occuparsi seriamente perchè essa non è altro che lotta contro la vita della musica italiana in Italia.
Perchè abbiamo scritto: «sia pur in buona fede»?
Perchè così è nella maggior parte dei casi. Non si tratta tanto di odio quanto di totale ed assoluta sordità.
La scuola di musica qual è oggi in Italia è sacra ai Mani del prof. Hugo Riemann. I più baldi diplomati di Conservatorio completano poi o mascherano la loro bardatura germanica con goffi arnesi di stampo Strauss o Debussy o addirittura Strauss-Debussy insieme. I critici più autorevoli, che sono naturalmente coloro che conoscono il mestiere, sono stati allevati in questo àmbito e ne conservano ogni impronta.
Il loro motto è però «Italia». Ed è molto sincero, purchè sia tradotto così: «Du mein Italien!». Essi amano l'Italia dei tenori e delle mandolinate, e, da veri pedanti, tripudiano di fronte alla sciatteria.
Ignorano, anche credendo di avere studiato, la musica italiana, il cui animo loro sfugge completamente: il merito dei Madrigalisti, per tali critici, è soprattutto merito di «ricercatori», e non va dimenticato che fino ad oggi il nome di Claudio Monteverdi è accompagnato, nei manuali storici, dalla lode di «celebre innovatore». E si sottintende che la vera ispirazione musicale non si ebbe in tutta la sua luce che al morire di ogni giovinezza d'armonie e di colori, di ogni gagliardia di contrappunti, tutte cose buone per i barbari, non per noi italiani, e da lasciare ai barbari. Chi s'azzardi ad amarle, verrà ora considerato come un imitatore degli stranieri, non già come un legittimo discendente della vecchia famiglia italiana.
Questo è il «caso Malipiero», e - come si vede - è il caso di ogni musicista italiano che non si rassegni a concepire l'opera in forma di «Concerto per urli e singhiozzi con accompagnamento di cassa e piatti».
È il caso Malipiero e lo rimane ancora oggi, mentre altri maestri vedono ormai acquetarsi intorno a loro le persecuzioni e gli scherni che i «circoli autorizzati» del Paese non fecero loro mancare durante un ventennio.
Odiatore dell' «aneddoto» debbo ricordare però due battute di dialogo che udii, tempo fa, tra un illustre musicista svizzero-francese ed il critico d'un giornale di Roma: le parole saranno state altre, ma suonavano press'a poco come queste: «La musica di Malipiero vi dà forse l'impressione d'essere musica italiana?». - «Mais naturellement, c'est même la toute première sensation qu'elle produit!».
Questo dialogo avveniva poco tempo dopo l'esecuzione del S. Francesco d'Assisi di G. F. Malipiero all'Augusteum, cioè d'un'opera purissima di cuore e di forma, che nel disegno melodico, nelle spaziate e semplici armonie, nella euritmia della costruzione, nella espressiva delicatezza delle colorazioni timbriche si accostava più che ogni altra alla pura e fervida italianità del Santo.
Il S. Francesco d'Assisi acclamato in tutto il mondo, e che perfino all'Augusteum aveva destato commozione e simpatia, dalla critica dei giornali romani venne schernito. Le più grasse risate trovarono su quelle colonne la loro notazione a proposito dell'inno Povertade poverella e si pose in rilievo la propria arguzia con i più spiritosi giuochetti di parole sulla «povertade» della musica che quell'inno sostiene.
Certo, non la musica di Malipiero ci voleva, per i nostri critici, ma quella di un dottore in teologia...
Alle Sette canzoni il dileggio venne da due giornali; di uno poco importa; dell'altro - per la fisionomia artistica del suo critico - non si lessero gli scherni («Il Conte Gianfrancesco Malipiero...») senza amarezza.
Quale sarà l'atteggiamento delle «autorità» di fronte ai nuovi lavori di Malipiero, soprattutto di fronte a Filomela ed a Merlino nei quali il musicista si va concentrando sempre più severamente nello sforzo espressivo, sempre più lontano da ogni lenocinio, fino a toccare (nel finale di Filomela, nel 2º atto di Merlino) il limite sinora estremo della propria singolarità artistica?
Sempre più si andrà scrivendo di «arte d'eccezione», dalla quale il pubblico vada tenuto lontano come dal veleno, e fingendo di ignorare le frequenti rappresentazioni di opere malipieriane che all'estero avvengono col miglior esito in teatri normali?
L'arte di Malipiero è il contrario dell' «arte di eccezione» o del cenacolo; è chiara rappresentazione di sentimenti elementari nella loro alterna vicenda.
Non vuole interessi di tecnici, ma amore di popolo.
Era quindi perfettamente logico e coerente, nelle «autorità musicali», il ritirare le Sette canzoni dal Teatro Reale dell'Opera prima che il popolo potesse andarle a sentire.
Ce ne ricorderemo, non si abbia dubbio! La lotta per Malipiero è la lotta per la musica italiana, che, vittoriosa al di là delle Alpi, dovrà pure un giorno conquistarsi contro i nemici «di dentro» la sua vittoria.