H. H. STUCKENSCHMIDT

LE OPERE PER TEATRO
DI G. F. MALIPIERO


L'OPERA DI G. F. MALIPIERO
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La razza latina spesso esprime temperamenti artistici che, in forme miti o violente, riuniscono il desiderio di fedeltà alla tradizione con quello delle più, inquiete innovazioni.
Nulla è più tipico, nel musicista G. F. Malipiero, della sua arte bifronte, la quale dà vita alla tristezza sonora del nostro tempo all'ombra di quella del glorioso passato. Lo si è conosciuto soltanto a metà quando lo si considerava come un aristocratico discendente di Venezia e annunziatore di un nuovo rinascimento. Coi suoi 52 anni, lo si potrebbe porre ugualmente all'avanguardia, e per l'arditezza del pensiero e il coraggio nelle speculazioni estetiche potrebbe svergognare molti giovani. Non per caso Malipiero è cosmopolita: ha studiato in Germania, ha avuto a Parigi le prime esecuzioni e trovato i suoi editori a Vienna, Berlino e Londra. Ciò nonostante (ed egli non se ne rende ben conto) la sua musica più di molte altre reca l'impronta della nazionalità italiana, molto più forte che in Respighi o Casella, nei quali gli elementi folkloristici servono solo per tracciare uno sfondo di ambiente.
Risponde al carattere di questo artista l'aver iniziato, anni or sono, un'edizione degna del XX secolo di tutte le opere di Claudio Monteverdi. Insieme col grande contemporaneo Shakespeare, il geniale creatore dell'opera in musica ha molti punti di contatto con Malipiero che vuole ricondurre l'accento drammatico alle più pure sorgenti non però sulle comode orme del classicismo. Ciò che Malipiero cerca di riconquistare è lo spirito dell'opera secentesca, il suo carattere epico, l'equilibrio fra testo e musica e il modo di cantare. Questa volontà lo porta da un esperimento all'altro. Sempre più luminosa si fa la mèta, più maturi appaiono i mezzi che nella sua economia artistica sceglie con molta castigatezza.
Il linguaggio di Malipiero è stato esposto a varie influenze: il cosciente eclettismo, che egli ha pure sviluppato tecnicamente, non rappresenta per lui rinunzia alla propria personalità, ma arricchimento dei mezzi di espressione. La sua natura è più vicina a quella delle armonie dei quattro suoni non risolte di Debussy, e pure per le dissonanze deve all'impressionismo la sua delicatezza, ma egli sviluppa il suo sistema armonico senza impalcature, col singolare sistema della politonalità, con arditezze sonore che vanno molto al di là del mondo del «Pelléas» ; in tal modo tocca a volte le durezze degli accordi di Schönberg o di Milhaud. Con questo sfondo sonoro, nel quale rasenta la dodecafonia, egli tesse la trama di una monodia che in forma vaga è imparentata con la canzone popolare, è monodica e con carattere salmodiante, flessibile; si afferma attraverso molte metamorfosi, quasi mai sconfina dalla scala diatonica, spesso si accontenta del pentacordo quale materiale da costruzione, il cromatismo le è completamente estraneo. Nella forma domina la chiara, quasi classica, calma della simmetria, la quale risulta da un'infinità di nuove sfumature caratterizzate dalla ripetizione di brevi motivi, di libere imitazioni e a canone, da bassi ostinati, quasi pedale.
Sull'inquietudine ritmica, nella quale si ritrova forse la metrica del tempo rubato nei recitativi, è fondata l'essenza salmodiante della melodia: un continuo variare del tempo ternario e binario, che nello spazio di ogni battuta è ricco di terzine, quintine e metri normali, dà una snellezza alla linea cantabile la quale, se non bene eseguita, può provocare un'anarchia ritmica e rendere l'impressione di una voluta monotonia.
Il punto culminante della ricca attività creativa di Gian Francesco Malipiero (alla quale noi dobbiamo sinfonie, lieder, i bellissimi quartetti) rimane nel campo teatrale. Alcuni anni or sono le Sette canzoni, per la novità del soggetto e del procedimento, hanno sollevato molto scalpore fra le avanguardie di tutti i paesi, eccezion fatta della Germania che ha scoperto Malipiero in ritardo. Ho sentito di questa singolare opera una esecuzione molto ridotta al Teatro Beriza a Parigi nel 1924 e mi ha fatto un'indimenticabile impressione, senza ch'io potessi però entrare nella realtà: queste mistiche oscurità mi apparvero non rischiarabili.
Malipiero ama i soggetti simbolici che rispecchiano molti destini. Ciò a cui egli aspira viene velato dalle gesta reali del teatro epico. I caratteri non si sviluppano, restano fermi nella loro singolarità, costantemente sottolineati e illuminati. Egli traccia dei tipi, tutte le sue figure potrebbero portare la maschera; in questo senso la sua arte di trasfigurare è singolarissima. Che egli elabori Goldoni, Pirandello, favole della commedia dell'arte o il mito italiano, sotto il suo impulso le situazioni e le figure s'immergono nell'atmosfera dell'inverosimile, dell'ultra tipico, dell'al di là.
Per esempio, sotto il titolo Filomela e l'Infatuato si nasconde l'eterno dilemma fra l'amore terrestre e quello sovrumano. Filomela, innamorata del principe d'argento, diventa la vittima del feroce Infatuato che riesce a dominarla. Appaiono poi le figure di una commedia che è una parodia a sfondo mitologico: suonatori di liuto in maschera, il domatore di orsi, il pastore con un usignolo in gabbia.
Il carattere epico risalta ancor più in un'opera posteriore; nel Torneo notturno. Come nella sua opera giovanile, anche qui la divisione è in sette scene. Una donna viene tratta in inganno dal canto dello «Spensierato», il «Disperato» volendola vendicare insegue la canzone del tempo, ma arriva sempre troppo tardi: nella notte tempestosa, nel bosco, nell'osteria del bontempo, nella casa paterna e nel castello della noia. La melodia dello Spensierato, variata armonicamente e un po' metricamente, forma lo scheletro di una nuova forma musicale. Nel carcere il Disperato uccide lo Spensierato, del quale intona la Canzone per trarre a sua volta in inganno la castellana che lo libera. Riacquistata la libertà il Buttafuori, rivolto al pubblico, dopo alcuni funebri rulli di tamburo dice:

«Non è finito! Voi avete veduto morire lo Spensierato e Madonna Aurora. Forse crederete che la vendetta e la riacquistata libertà abbiano ridato pace al Disperato, ma egli invece ha ripreso il suo cammino senza meta, Voi avete veduto morire, vivere, agitarsi alcuni uomini che le più discordanti passioni tormentavano. Non è finito. Udite? Udite il ritmo di un funebre corteo? È la vita che passa agitando il gonfalone della morte».
In questa azione i caratteri non sono sviluppati, gli avvenimenti sono di una mitica semplicità, in un solo tema si svolge tutto il limitato sviluppo drammatico.
Questo musicista doveva venir attratto da un suo contemporaneo del quale le opere drammatiche avevano raggiunto lo sdoppiamento fra simbolo e realtà: Luigi Pirandello. La base interiore era data dalla parentela della natura artistica, la collaborazione è risultata dai mezzi di un nuova coscienza teatrale che pone tutte le forme artistiche di un'avanguardia drammatica al servizio di un'idea fuori del tempo.
La favola del figlio cambiato è il prodotto di un lavoro in comune. Il testo di Pirandello varia il tema del bambino cambiato nella culla, dall'alta alla bassa nascita. La nuova soluzione sta in questo, che il vero principe è demente, il falso sano e ambizioso. La povera madre disperata, che cerca il suo vero bambino, viene posta accanto alla mitica figura di Vanna Scoma, la strega. Dei tre atti, il secondo drammaticamente è il più ardito e il più nuovo: in un caffè del porto appare lacero, balbuziente, con la corona di cartone, il vero principe; sgualdrine, marinai e popolo lo dileggiano ed egli crede invece che gli rendano onori. Le estreme forme della femminilità contrastano qui duramente - da una parte la donna eternamente gravida (nè si sa da chi nè come) e la sciantosa, dall'altra il tono austero di Vanna Scoma e l'esultanza della madre visionaria. La commedia finisce con un inno all'amore materno. Il vero figlio dal freddo splendore della regalità si getta nelle braccia di colei che è il suo sangue e rinuncia al trono in favore dell'idiota.
Musicalmente Malipiero ha qui raggiunto la sua meta in un chiuso stile arioso nell'impiego delle voci, ottenendo, la rinunzia al semplice recitativo. Sopra un'orchestra che con un'enorme varietà rimane però sempre uno sfondo (eccezione fatta nei magnifici intermezzi), egli ha composto una partitura vocale di grande forza d'espressione. I canti nostalgici della madre diventano spesso l'anima dell'azione musicale. Pure in questa parte, che è la principale dell'opera, non si sviluppa nulla, ma essa è per sè stessa tanto vera e costantemente aggrappata all'espressione e all'originalità, da nobilitare pure la monotonia. In nessuna delle sue figure Malipiero è mai riuscito ad ottenere lo stile dell'opera secentesca (verso il quale ha sempre aspirato) con tale profondità e concretamente come nella parte di questa madre. Siamo di fronte a qualche cosa di completamente antiborghese, alla totale rinunzia al materialismo. La passione personale si nasconde come nel dramma antico dietro il tragico della collettività. Da quest'opera, nella quale l'arte di Malipiero ha raggiunto la massima altezza, mutano le misure estetiche ed etiche. Pure le cose più comuni come le più alte servono qui alla secolare potenza di un'idea e di uno stile. La gamma dei mezzi di espressione raggiunge la visione dalle sommità alle profondità. Jazz, canto gregoriano, atonalità, falso bordone, canzoni popolari e danze si riuniscono con magica unità. Dalla contraddizione nasce la forma, alla quale nulla si potrebbe mutare; indipendenti, le battute si susseguono, le scene pure. È stato creato un capolavoro di stile.