Declassicizziamo la musica "classica": alcune
riflessioni sul giardino botanico dell’arte dei suoni (1)


Questo articolo è stato pubblicato in
Musica/Realtà, LXXIX (2006), no. 1, pp. 23-34



Inusualmente, questo breve articolo ha un dedicatario. In genere sono le cose ben più sostanziose, i libri principalmente, ad averlo. Ma è successo che mentre scrivevo queste pagine, per associazione di idee, ho pensato a Edward J. Dent (1876-1957), professore a Cambridge tantissimi anni fa, oggi quasi dimenticato, che fu davvero un personaggio straordinario. Lo fu anche perché il suo atteggiamento di fronte alla musica del passato era di grande passione ed entusiasmo – ma mai di reverenza. È per tale ragione che gli dedico questo testo che a qualcuno potrebbe sembrare irriverente. Mi piace credere che, se mai Edward J. Dent potesse scendere dal Paradiso e leggerlo, reagirebbe a questi miei pensieri con qualche sorriso e un pizzico di simpatia.


Parte Prima: "The past is a foreign country…"

Non dico certo nulla di straordinario se osservo che, col del tempo, tutto cambia e, diventando anziani, alcune cose nuove ci sorprendono al punto che può essere difficile abituarcisi. Ma quando qualche innovazione è stata presente sin dalla nostra infanzia in quel caso, per noi, è quasi “come se” esistesse da sempre. Tendiamo allora a dimenticare quanto siano recenti (storicamente parlando), alcune acquisizioni del nostro tempo. Per esempio, quando io nacqui le automobili erano già ovunque ed è perciò difficile per me immaginare il mondo senza automobili; ma ricordo bene, invece, gli inizi della televisione e, quindi, come si vivesse prima della televisione. Molti giovani di oggi non possono saperlo e avranno forse qualche difficoltà a percepire tangibilmente quanto sia davvero recente il “fenomeno televisione” (storicamente parlando).

Cosa intendo di dire con tutto questo? Che spesso vediamo il passato come una semplice “estensione del presente” e dimentichiamo quanto fosse fondamentalmente diverso il modo di pensare e di sentire della gente, anche in tempi a noi relativamente vicini. Vorrei suggerire quindi che il passato ha bisogno di essere visto con gli occhi dell’antropologo piuttosto che con quelli dello storico. Perché sono numerose le cose che lo storico non coglie (2). Mi viene in mente a tal proposito l’inizio di un famoso romanzo di Leslie P. Hartley, The Go-Between, che comincia con queste illuminanti parole: “The past is a foreign country: they do things differently there.” (3)

Ma in quale misura il nostro proprio passato, quello della nostra stessa cultura occidentale ci può essere estraneo? Io credo che possa esserlo moltissimo – nonostante le conoscenze che la storia ce ne offre. Faccio alcuni esempi.

L’antichità greco-romana e il Medio Evo, siamo abituati a vederli come il sostrato formativo dell’Occidente. Ma varrebbe la pena considerare il vantaggio di vederli invece come propaggini della cultura medio-orientale. Di certo, la teoria musicale greca è ben più comprensibile se esaminata dal punto di vista di quella araba. Il concetto di nomos, quello di “modo” hanno molto in comune con quello di maqam. In effetti, io penso che l’Occidente, come noi lo conosciamo, allora, non esisteva proprio. L’Occidente non era ancora “occidentale”. Per esempio, Platone ci racconta nel Simposio che Socrate cadeva spesso e spontaneamente in uno stato di trance, e poteva rimanere immobile a lungo, senza mangiare o bere. Questo non è di sicuro un comportamento occidentale! (4) Ma anche in tempi molto recenti è possibile reperire informazioni che testimoniano differenze culturali straordinarie rispetto al presente: si pensi a Napoleone che arrivato a Vienna fa mettere due guardie sull’uscio di casa del Maestro Joseph Haydn, affinché non fosse disturbato dalla soldataglia e a lui stesso, il Generale Buonaparte, che può girare liberamente per le strade di Vienna senza scorta armata e senza quindi temere un possibile attentato. È proprio vero allora: “The past is a foreign country: they do things differently there.”

E adesso un caso arcinoto per storici della musica, quello di Johannes Tinctoris che afferma: “Per quanto sembri incredibile, non esiste un singolo brano musicale, non composto negli ultimi quaranta anni, che sia considerato dai competenti degno di essere ascoltato” (5). La History of Western Music di Grout-Palisca, riporta questa frase en passant, come semplice annotazione folklorica. Ma è molto di più di questo, è una affermazione che rivela un modo fondamentalmente diverso dal nostro di rapportarsi alla musica; è una affermazione che ci segnala come nei secoli successivi sia avvenuta una vera e propria mutazione antropologica per quanto riguarda il modo di vivere l’esperienza artistica. Noi oggi in Occidente classicizziamo tutto, prendiamo tutto sul serio quello che appartiene al passato. Non era evidentemente così nel Rinascimento, ai tempi di Tinctoris. Non è così ancora oggi ad altre latitudini. I giapponesi – almeno per ora – non classicizzano il loro passato; tanto è vero che ogni vent’anni distruggono le loro pagode per poi ricostruirle di forma identica. Non manifestano, quindi, quel feticismo per la materia che caratterizza la cultura occidentale contemporanea e che ci induce a mettere sul piedistallo anche quello che in passato fu considerato vile, volgare o semplicemente frivolo.

Il lettore che abbia avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto penserà forse che io l’abbia presa molto alla larga, ma tutto ciò che ho espresso finora ha molto a che vedere con la musica e con il modo, tutto sommato piuttosto anomalo (da un punto di vista antropologico) che abbiamo oggi di viverla; perché sono proprio convinto che sia assai difficile renderci conto di come il mondo musicale che conosciamo e il modo di considerare la musica che ci è abituale sia – storicamente parlando – davvero molto recente.

Non è difficile presentare qualche esemplificazione. Se analizziamo Bach, infatti, subito riconosciamo nella sua musica le inversioni degli accordi; ma dimentichiamo facilmente che questa è la terminologia di Rameau. Bach non accettò mai la Théorie de l’armonie. In verità Bach riteneva che quelle di Rameau fossero…tutte balle! Fu il teorico Heinrich Schenker (1867-1935), all’inizio del Novecento, a ricordarci come le teorie di Rameau, diffuse in Germania da Friedrich Wilhelm Marpurg (1718-1795), non furono prese sul serio né da Bach, né da Haydn, o Mozart o Beethoven. (6) Carl Maria von Weber fu in realtà il solo grande compositore tedesco ad esserne influenzato, grazie agli insegnamenti dell’Abbé Vogler – che Mozart considerava un emerito ciarlatano.

Oppure analizziamo Schubert e parliamo di ”tonica” e “dominante”, dimenticando che questi sono concetti formulati da Hugo Riemann solo nel 1893! (7) Ciò vuol dire che Donizetti, Bellini, naturalmente Schubert, ma anche Giuseppe Verdi, produssero la loro intera opera senza la più lontana idea di cosa fosse una tonica o una dominante. (8) Il paradosso è dunque che noi oggi “comprendiamo” la loro musica attraverso concetti che quei maestri ignoravano o rifiutavano.

E poi parliamo di Mozart come di un compositore “classico”. Ma seconto E.T.A. Hoffmann, era invece un romantico! Ci riferiamo al “Balletto classico”, dimenticando che si tratta di una creazione del XIXmo secolo. Nulla dunque è più romantico del balletto classico. E, naturalmente, definiamo “barocca” la musica di Bach, cosa che secondo me dovrebbe essere considerata un crimine passibile, come minimo, di alcuni anni di galera (forse Couperin lo potremmo dire ‘barocco’, forse anche il Mozart delle cose turche, ma Bach proprio…). Sia come sia, il termine “barocco” per indicare il lungo periodo che va dal 1600 al 1750 è di uso recentissimo, lo dobbiamo, principalmente a Curt Sachs che lo propose nel 1919 e che però entrò in uso solo molto più tardi. (9) Fino a quasi la prima metà del secolo scorso si usava il termine coniato da Hugo Riemann nel tardo Ottocento: Generalbasszeitalter (epoca del basso continuo). (10)

Naturalmente, nessun compositore detto oggi “barocco” si considerò mai tale, e neppure i compositori classici pensarono mai di essere classici. È evidente. Ma non è questo il problema, il problema, risiede semmai nel fatto che quando si considera un compositore “barocco”, “classico” o “romantico” si evoca, così facendo, immediatamente un determinato modello esecutivo che limita notevolmente il campo di azione dell’interprete. (11) Ma questa è certamente un’altra storia, da esaminare in altra sede.

Ora consideriamo per un attimo, e molto brevemente, cosa fosse il gusto musicale nell’Ottocento. È vero che Schumann apprezzava Scarlatti, ma con la condiscendenza di un abbiente milanese che socializza con i villici quando va a fare dell’agriturismo; e Clara Schumann, semplicemente non riusciva a capire come Brahms potesse interessarsi a compositori precedenti a Bach; e i seguaci di Wagner non consideravano il Ring un modo di comporre opere essenzialmente diverso da quello di Bellini, ma solo un modo molto migliore di farlo. Ancora una volta, va ripetuto con enfasi: “The past is a foreign country: they do things differently there.”


Parte Seconda: quando cambiano le regole del gioco

Ora entriamo nella parte veramente sismica del discorso, perché occorre prendere atto del fatto che gli appassionati di musica, di quella classica (ma anche in buona misura quelli del jazz, del pop e del rock), sono tuttora ancorati all’idea che la “grande musica” debba durare nel tempo. Questo, anche se i grandi compositori e le loro opere “immortali”, sono tali da molto poco tempo (storicamente parlando) e non sappiamo quanto durerà effettivamente questa loro presunta immortalità. Dimentichiamo anche che non si è sempre pensato in questi termini e nulla ci assicura che si continuerà a farlo. Al contrario. Tutto cambia, sempre, ovunque. Ciò che il mondo della musica è oggi, non è sempre stato; e di una cosa sola possiamo essere sicuri: che non sarà sempre così. Ciò che diamo per scontato oggi sarà sicuramente messo in dubbio, forse anche deriso, domani. Non solo quello di “capolavoro” e di “compositore immortale” sono concetti sviluppati tra il 1850 e il 1950, ma lo stesso modo odierno di vivere la musica dipende da una serie di abitudini culturali tanto profondamente assimilate che ci è difficile credere quanto sia recente l’idea di “musica classica”. (12) La sua origine è da ricercare in quei pochi decenni, durante la seconda metà del XIXmo secolo, in cui mutarono abitudini culturali che erano esistite a lungo e che rapidamente furono dimenticate.

Ecco un breve riepilogo. Verso la fine del XIXmo secolo la pratica dell’improvvisazione scompare progressivamente, comincia ad affermarsi l’idea che si debba essere fedeli all’opera (come l’autore la scrisse), i musicisti si specializzano (solo esecutori, direttori d’orchestra, o compositori), e si sviluppa un crescente interesse per la musica del passato (prima incuriosiva solo gli eruditi sul tipo dei Barone van Swieten, quello che fece conoscere Bach a Mozart).

E ancora, sempre durante la seconda metà del XIXmo secolo, il diffuso dilettantismo musicale di alto livello comincia a scemare (già dopo il congresso di Vienna emerge la moda del virtuosismo che esclude i dilettanti), (13) proliferano poi le sale da concerto, si consolida l’insegnamento conservatoriale come porta di accesso quasi indispensabile alla professione musicale (14) e nascono le orchestre professionali (ricordiamoci che le sinfonie di Beethoven furono presentate all’epoca da orchestre amatoriali in cui sedeva anche qualche professionista). (15) E, finalmente, e questa mi pare la cosa più grossa, durante la seconda metà del XIXmo secolo nasce la nostra idea di “musica classica”! Quindi, qualcosa di separato, di antagonistico alla musica di puro intrattenimento che, da questo momento in poi, sarà sempre più nelle mani di specialisti della produzione leggera.


Parte Terza: C’era una volta…

Queste sono precisamente le parole da usare, c’era una volta, perché oggi pare quasi una fiaba. C’era un tempo in cui la musica classica non era “classica”. Quando Bach era vivo, o Mozart, o Beethoven, l’idea che una musica potesse essere portatrice di significati tanto importanti, di un contenuto estetico di valore durevole, tale da essere destinata all’ammirazione e alla venerazione dei posteri, era in preparazione – ma ben lontana dall’essere assimilata dal grande pubblico. L’idea che la musica potesse o dovesse sopravvivere all’occasione per la quale fu concepita non giocava ancora alcun ruolo nella cultura del tempo (viene in mente un caso antico, l’Orfeo di Monteverdi che fu un grande successo nel 1607, ma quante volte venne poi rappresentato?). (16) La musica allora veniva presa forse meno sul serio, e però era importante per la vita di molti. Di sicuro se ne godeva in modo diverso. Per esempio, nel XVIIImo secolo (e fino agli inizi del XIXmo) la parola “sinfonia” (come la parola “romanzo”, genere letterario più o meno nato nello stesso periodo) non incuteva soggezione a nessuno. E’ ben possibile che a Vienna, nel 1818, qualcuno, incontrando un amico per le strade di Vienna abbia detto: “Hai sentito che stasera al Theater an der Wien, il Beethoven Ludwig presenterà la sua Quinta Sinfonia? È un tipo interessante, sai, è quello che nelle taverne ogni tanto prova a ballare, ma non riesce mai a tenere il tempo; però fa cose sorprendenti. Andiamolo a sentire, ci divertiremo!” (17)

Sembra proprio una favola, specie se pensiamo che quel pubblico esprimeva anche il proprio assenso o dissenso ad alta voce. Quello di oggi ascolta in religioso silenzio (come diceva Jean Cocteau: “avec la tête dans les mains!”). Oggi il pubblico non reagisce, nemmeno quando sarebbe ragionevole. La musica “classica” contiene spesso passaggi umoristici; ma nessuno ride. Durante questo rito di sacralità laica che è il concerto, sembrerebbe offensivo farlo. Ma non sarà che la vera offesa consiste proprio nel non ridere?! Non ci sarebbe da farlo quando Beethoven, nelle Diabelli, nella variazione 22, fa la parodia di Leporello che canta “Notte e giorno faticar”? O quando Schumann nella Kreisleriana imita Chopin?

Abbiamo quindi messo una maschera di ferro sul volto di grandi musicisti che possedevano anche la corda dell’umorismo. Non è probabilmente questo il modo migliore di rendergli omaggio. E quando vedo che non si ride, o almeno si sorride, alle Diabelli Variationen, penso allora che il canale comunicativo col mondo a cui appartengono davvero non esiste più. Non mi dilungo oltre. Si sarà già compreso che mi sarebbe molto piaciuto vivere al tempo in cui la musica classica non era ancora ‘classica’.


Parte Quarta: Ballare o non ballare…

A molti sarà capitato di osservare che quando in qualche luogo di vacanza, per esempio al Club Méditerranée, si vede gente diversa che balla insieme, il confronto tra un europeo e un africano, va quasi sempre a favore dell’africano; anche nel caso in cui l’europeo sia un musicista, un musicista classico; anzi, allora è quasi garantito che sia…un imbranato, che abbia un rapporto di disagio col proprio corpo. I musicisti occidentali sono quasi sempre portatori di questa inibizione. Il caso forse più paradossale ed emblematico è quello di Johann Strauss junior, il re del Valzer: non sapeva proprio ballare! (18) Ma anche Beethoven. L’ho appena ricordato, gli sarebbe piaciuto farlo, ma non riusciva a tenere il tempo.

La ragione di questa difficoltà ad esprimersi col proprio corpo è sostanzialmente nota. Il Cristianesimo proibisce l’uso liturgico della danza. I Padri della Chiesa la considerarono pericolosa – perché può solleticare la sensualità. E non c’è modo di ballare senza mobilitare corpo. Per questo la danza non entrò nella liturgia. Ma la musica invece può, in certa misura, essere depurata dalle pulsioni viscerali che contiene e quindi, se pur con cautela, fu ammessa.

Questa inibizione storica nei confronti dell’espressione corporea ha giocato un grosso ruolo in Occidente. Proprio per questo la musica “classica”, un repertorio sacralizzato, richiede un ascolto silenzioso e immobile e anche gli esecutori devono contenere le naturali reazioni del proprio corpo. Proprio per questo gli insegnanti di strumento, agli studenti che battono il piede per tenere il tempo, ricordano che il ritmo occorre averlo nella testa e non nei piedi... Ma è così che si perde il senso fisico del ritmo, che se ne fa un’esperienza mentale; a tal punto che, se per caso, ad un concerto classico, la musica proponesse un ritmo irresistibile che faccia venire voglia di ballare, il pubblico penserebbe di essere stato imbrogliato; penserebbe che non si tratti realmente di musica “classica”. Il critico d’arte Leo Stein ebbe a dire addirittura, a questo proposito, che la musica che richiede movimenti del corpo da parte dell’ascoltatore per essere apprezzata a pieno, come è il caso della musica da ballo e di intrattenimento, è proprio per questo musica artisticamente imperfetta! (19) Riemerge dunque, espressa questa volta da un grande intellettuale, per giunta ebreo (ma nel considerare la danza potenzialmente pericolosa le tre grandi religioni rivelate dell’area mediterranea hanno molto in comune), questa “ostilità ideologica” per il corpo a cui probabilmente si deve attribuire la susseguente “autonomia” della musica, cioè la progressiva separazione del fatto musicale da quel complesso di comportamenti espressivi che altrove si realizza nella inscindibile interconnessione di linguaggio, suono e, danza.

Una cosa è sicura che, al punto in cui ormai siamo, la musica seria non si balla, e se si balla non può esser seria. Si veda il caso rivelatore del jazz: che si ballava una volta, fin quando poi non cominciò a essere considerato grande arte. Ora la musica jazz si ascolta e basta. (20) Se questo è il principio di riferimento, si comprende allora perché i Conservatori siano scuole in cui si suona, ma in cui non si impara a ballare. (21) La perdita è molto grossa perché la musica, non esiste senza il corpo, o quantomeno senza il corpo perde qualcosa, perché è originariamente legata alla corporeità, nasce sempre da un gesto o da un soffio, tanto che si può dire che ogni suono musicale sia in qualche modo la traccia di gesto o di un respiro. Ancor più, l'ascolto musicale è un fatto che coinvolge tutto il corpo, che ne assorbe completamente le vibrazioni, non limitandosi alla sola percezione attraverso il timpano.

Ma da secoli la nostra cultura ci ha abituato a dimenticare queste cose. È certo ben raro ormai che ad un concerto di musica “classica” ci venga voglia di ballare, specie se l’autore appartiene alla tradizione otto-novecentesca. Questi compositori hanno imparato a dimenticare tutto ciò che collega la musica al corpo. Hanno imparato a produrre ritmi che non hanno nulla a che fare col ritmo fisicamente inteso. Si potrebbe quasi dire che l’addestramento compositivo consiste in buona parte nell’inibire nell’aspirante compositore, ogni possibile traccia residua di “ritmicità corporea” che gli capitasse di possedere. Ma se per caso, nonostante tutto ciò, durante un concerto, ci venisse voglia di muoverci e di battere il piedino – stiamo attenti a non farlo. Sappiamo bene come saremmo guardati dai vicini di posto.


Parte Quinta: Sale da concerto

Consideriamo adesso quest’idea che la musica “classica” debba essere fruita in una sala da concerto, in un auditorium. Di fatto l’ascoltiamo assai più frequentemente su disco, questo è noto a tutti, ma la convinzione che il disco rimanga sempre e solo un surrogato dell’esecuzione dal vivo, invece che forma d’arte sui generis, è assai dura a morire (strano che non si pensi la stessa cosa del cinema rispetto al teatro). (22)

Le sale da concerto non sarebbero in effetti indispensabili. La musica si era sempre fatta senza bisogno di ingabbiarla così, fino a tempi recentissimi (storicamente parlando). Solo un esempio: la prima esecuzione della Sonata a Kreutzer di Beethoven si diede a Vienna nell’Augarten, il più antico giardino pubblico della città (e non risulta che Beethoven abbia trovato la cosa disdicevole). In altre parole: l’idea che debba esistere un evento sociale che consiste di sola musica è un’idea moderna (è non è il semplice fatto di essere moderna a renderla automaticamente una buona idea). Infatti, le sale da concerto che conosciamo furono “inventate” verso la fine del XIXmo secolo (prima ne esistevano solo pochissime ed erano soprattutto sale multiuso). Ciò vuol dire che praticamente tutta la musica “classica” composta nel Sei-Settecento e fino al primo Ottocento, quando oggi la si esegue in sale da concerto, non si trova nel suo habitat naturale. Ma quello non è in fondo un habitat del tutto naturale nemmeno per gli esseri umani che la frequentano.

Al pubblico si dà l’impressione di partecipare ad un evento in cui le ragioni dell’arte siano in primo piano. Scopo dichiarato del rito sarebbe la grande musica. Ipocrisia, naturalmente, perché al pubblico si nega di sapere quanto si faccia pagare la Anne Sophie Mutter di turno. Ma soprattutto, poi, all’interno della sala, si comprende bene che la musica non è diretta ad una comunità di fruitori, ma a singoli individui, che non si conoscono e che non devono fraternizzare perché il loro compito è solo quello di ascoltare. Va da sé che non avranno alcun contatto con i musicisti, né prima, né durante, né dopo. In altre parole, diamo ormai per scontato che il concerto debba essere un evento a senso unico: dal compositore, all’esecutore, al pubblico. Il pubblico paga, siede, tace, ascolta. È come la Messa, con la differenza che la messa è gratis. E poi guai a battere il tempo col piede, guai a scartare una caramella, apriti cielo se qualcuno canticchia. E se si vuole applaudire, che lo si faccia almeno nei momenti consentiti. Elias Canetti descrive molto bene in Masse und Macht come anche il ruolo carismatico e autoritario del direttore d’orchestra contribuisce a reprimere sia negli orchestrali come nel pubblico ogni pulsione motoria che la musica possa attivare, fino al momento in cui il suo gesto benignamente consente l’inizio dell’applauso. (23) Insomma, il pubblico paga, e non può nemmeno manifestare il proprio consenso, come faceva il pubblico di Mozart e Beethoven (ma, naturalmente, nessuno gli aveva ancora detto che stava ascoltando musica “classica”).

Non posso provarlo ma davvero penso che, se uno di questi grandi del passato scendesse dal paradiso per andare ad ascoltare un concerto di musica propria, di fronte a questo pubblico ibernato, penserebbe probabilmente che la sua musica non piace.


Conclusione

Io credo che siano fortunate le culture (e ce ne sono ancora) che non hanno bisogno di inventarsi una musica “classica”; perché una musica “classica” interagisce male col diffuso sentire della gente. Una musica “classica” non solo diviene automaticamente elitaria ma, ancor peggio, museale e poco funzionale (se per giunta la si funzionalizza, utilizzandola magari come sottofondo a uno spot pubblicitario, ciò sembra a molti una dissacrazione). Non si possono creare serre e giardini botanici e poi meravigliarsi se la maggior parte della gente continua a preferire il contatto con la natura, nei prati e nei boschi, e non in quei luoghi in cui la natura viene addomesticata. Piante, fiori e alberi continuano a vivere al di fuori dei giardini botanici e subiscono processi evolutivi che non sono quelli guidati dai giardinieri. I giardinieri progettano il futuro di questa o quella specie di rosa o di orchidea ma, al di fuori del giardino, la selezione naturale fa altre scelte, totalmente imprevedibili. E la musica, a differenza delle altre arti, è natura prima ancora di essere cultura. Per questo io preferisco passeggiare tra i boschi (anche quelli della musica) piuttosto che visitare i giardini botanici e le serre, per belle e interessanti che esse siano.

Se ci sono ancora ragioni per voler far vivere nel presente musica che era congrua a stagioni trascorse della nostra storia (al di là del senso storico e culturale che veicola) – e io non sono del tutto sicuro che queste ragioni ci siano – allora un modo di aiutarla a vivere veramente sarebbe quello di toglierla dal giardino botanico, “declassicizzarla”, lasciarla libera di trasformarsi, ibridarsi anche diluirsi e sciogliersi nelle forme della contemporaneità.

NOTE

(1) Alcuni spunti elaborati in questo articolo furono presentati per la prima volta nelle emissioni radiofoniche che l’autore ha realizzato nel corso degli anni per i microfoni della Rete Due della Radio Svizzera di Lingua Italiana (poi pubblicati in: Marcello Sorce Keller, Note in libertà – storie di musica e di musicisti, Lugano, Radiotelevisione della Svizzera Italiana, 2005) e che successivamente hanno preso forma dapprima in una conferenza data alla University of Melbourne, School of Music, (agosto 26, 2004) e poi in una relazione presentata al Convegno internazionale su “Musica e formazione tra comunicazione e paideia”, Libera Università degli Studi di Milano-Bicocca, Milano, 10-11 novembre 2005. Nella presente forma questo articolo è comparso la prima volta in Musica/Realtà, LXXIX(2006), no. 1, pp. 23-34.

(2) Occorre naturalmente dire che una lettura antropologica della storia non è per nulla facile, come mostra il recente e controverso libro del noto antropologo americano Marshall Sahlins, Apologies to Thucydides: Understanding History as Culture and Vice Versa, Chicago, 2004.

(3) Leslie Poles Hartley, The Go-Between, 1953.

(4) La trance è una anormalità nella nostra società; ma fino al Medioevo, quando il cristianesimo considerava l’esperienza estatica segno di santità, la trance veniva presa sul serio e osservata con stupore e ammirazione.

(5) Donald J. Grout e Claude V. Palisca, A History of Western Music, 6a edizione, New York, W.W. Norton, 2001, pag. 147 (il passaggio si riferisce al Liber de arte contrapuncti, 1477, Libro II, Cap. 23)

(6) Friedrich Wilhelm Marpurg, che aveva vissuto a Parigi dove entrò in contatto con le teorie di Rameau, nel suo Handbuch bey dem Generalbasse und der Composition (1755) elaborò la teoria del basso fondamentale che Rameau aveva formulato.

(7) Vereinfachte Harmonielehre oder die Lehre von den tonalen Funktionen der Harmonie, London, 1893.

(8) Giuseppe Verdi, che visse fino al 1901, avrebbe forse potuto negli ultimi anni della sua vita leggere il grande trattato di Hugo Riemann sulle funzioni dell’armonia. E’ fortemente improbabile che lo abbia fatto e non solo perché era disponibile unicamente in tedesco; ma anche perché in Italia la tradizione teorica si era già da molto tempo isterilita (l’ultimo contributo importante che l’Italia diede in questo campo fu quello di Francesco Galeazzi, Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l'arte di suonare il violino analizata, ed a dimostrabili principi ridotta, Roma, 1791). I compositori italiani dell’Ottocento non manifestarono mai interessi per la teoria o la storia della teoria.

(9) C. Sachs, "Barockmusik", in Jahrbuch der Musikbibliothek Peters, XXVI
(1919), p. 7-15.

(10) Si veda il suo Kleines Handbuch der Musikgeschichte mit Periodisierung nach Stilprinzipien und Formen, Leipzig, Breitkopf & Härtel, e il Grundriss der Musikwissenschaft, Leipzig, Verlag von Quelle & Meyer, tutti e due del 1908.

(11) C’è poco da meravigliarsi quindi se così tanti interpreti eseguono la musica di Haydn e Mozart some se si trattasse di sciroppo al rosolio…

(12) Ancora negli anni ’40 del Novecento non è raro trovare testimonianze di autori che non manifestano la convinzione che i compositori considerati grandi in quel tempo continueranno ad essere considerati tali anche in futuro; p. es. Deems Taylor, “The Twilight of the Gods”, in The Well-Tempered Listner, Editions for the Armed Services, Inc, published by arrangement with Simon and Schuster, Inc., New York, 1940, pagg. 44-53, in cui si possono leggere queste significative parole: “…every composer has a very definite span of artistic life; that sooner or later his work is doomed to be superseded by that of newer men, and tobe forgotten; that our habit of referring to certain music as ‘immortal’ is born of the fact that we wish the music the music we love to be immortal, and not having much historical perspective, persuade ourselves that it will be.”

(13) Secondo me una cosa tragica, poiché la professionalizzazione del far musica vuol dire espropriare la gente comune della possibilità di fare qualcosa che quasi tutti amerebbero fare in qualche modo.

(14) Beethoven, Schubert, von Weber, Mendelssohn, Schumann, Brahms sono ancora compositori che non ebbero addestramento conservatoriale.

(15) Le prime orchestre professionali full-time nacquero nel 1842: i Wiener Filarmoniker e la New York Philarmonic Orchestra.

(16) L'Orfeo di Monteverdi (1607) fu patrocinato dall'Accademia degli Invaghiti (a Mantova), posta a sua volta sotto la protezione della famiglia regnante. Fu eseguito per la prima volta nel mese di febbraio di quell’anno per un pubblico di circa una trentina di persone, in un appartamento privato a Mantova. Si trattò di un successo senza precedenti, replicato successivamente nel teatro di corte di Cremona e poi a Torino, Firenze e Milano. Fu pubblicato a stampa due volte, nel 1609 e nel 1615, cosa che all’epoca era nulla di meno che sorprendente. E poi, dopo questo straordinario suo primo anno di vita, fu abbandonato fino ad essere ripreso nel XXmoi secolo (D. Arnold & N. Fortune, a cura di, The Monteverdi Companion, Faber, 1968).

(17) Paul Nettl, “Dancing and Dance Music”, in Beethoven Handbook (1956), Greenwood Press, 1967, pp. 35 (riporta una testimonianza di Franz Anton Ries, insegnante di violino di Beethoven, riguardo all’incapacità del compositore di tenere il tempo).

(18) Paul Nettl, “Dancing and Dance Music”, in Beethoven Handbook (1956), Greenwood Press, 1967, pp. 35 (in questa pagina si cita anche l’incapacità di ballare di Johann Strauss Jr.).

(19) Leo Stein, The ABC of Aesthetics, New York, Horace Liveright, 1927, pagg. 197-98.
Anni fa mi capitò di leggere un critico musicale americano che osservava come “Jazz, once the arch_fiend threatening the whole fabric of musical society, is now allowed to be respectable, as a sort of first cousin to serious music who prefers to live apart.” Un film girato durante il concerto che Duke Ellington diede Newport (da cui venne fatto un album, Ellington At Newport, 1956), mostra una bella donna che, presa dalla musica uscì dal gruppo di persone che ascoltava, si fece avanti e si mise a ballare. Forse fu quella una delle ultime occasioni in cui qualcuno osò reagire alle pulsioni dionisiache della musica jazz, scendendo in pista!

(20) Nella nostra cultura sono relativamente molti i sostenitori dell’educazione musicale, che sostengono l’importanza di favorire il dilettantismo. Nessuno sostiene però l’importanza di imparare a ballare. Chi lo sa fare lo apprende per imitazione, ma il ballo non è considerato realmente cultura o, perlomeno, non una forma cultura meritevole di essere diffusa attraverso la scuola.

(22) Nessuno si scandalizza che nel cinema le scene non vengano girate nel loro ordine logico (prima gli esterni, poi gli interni) e che l’attore non possa quindi recitare sviluppando il proprio personaggio con quel grado di continuità emotiva che il teatro consente. Ci si scandalizza invece che nel registrare una performance su disco, sia consueto cucire tra loro segmenti registrati separatamente, scegliendo i migliori tra un gruppo di ripetute esecuzioni dello stesso passaggio…proprio come si fa nel cinema.

(23) Masse und Macht, Hamburg, Claassen, 1960 (trad. it., Massa e potere, Milano, Rizzoli, 1972).