Marcello Sorce Keller

Gilgamesh, la “illegal harmony” di Cage,
la “vendetta di Mussolini” e varie altre cose (1)


Questo articolo è pubblicato in
Il Saggiatore Musicale, XI(2004), no. 2, pp. 329-343.



“La porta ci veniva aperta come per incantesimo, c'era una piccola rampa di scale che immetteva nella cucina. Cominciava il grande silenzio della villa, un silenzio più intenso di quello della strada: vi si spengeva lo stridere delle cicale, l'eco dei passi, il ronzio dei mosconi. Istintivamente camminavo in punta di piedi. Salivamo; la cucina era deserta, ordinata sempre allo stesso modo: luccicavano alle pareti gli stampi di rame per gli sformati. Cambiava soltanto l'odore; nella cucina v'era afrore di burro, intenso, gradito. Di vivo v'era sol-tanto il tic-tac dell'orologio a muro che invece di rom-pere sottolineava il silenzio.” (Vasco Pratolini, Cronaca familiare, 1947)


Contro suoni e rumori, ma non sempre

“Allo spuntar dell’alba una nuvola nera si levò all’orizzonte”. Con queste parole l’epopea di Gilgamesh – un poema mitologico scritto 2000 anni prima di Cristo nell’antica Mesopotamia – descrive l’inizio del diluvio universale scagliato dagli Dei contro gli uomini che sulla terra producevano troppo rumore e, quindi, disturbavano le divine orecchie ultraterrene. (2)

Evidentemente, già da allora gli uomini (oltre che sociali e pensanti) avevano mostrato di essere animali oltremodo rumorosi. Che le divine orecchie fossero sensibili e meritevoli di rispetto è certamente credibile. In effetti oggigiorno, quando si entra in chiesa e si ascolta musica della liturgia post-conciliare, viene da osservare quanto maggiore debba davvero essere la bontà del Dio cristiano (rispetto a quella degli Dei antichi) per riuscire a melodie a tal punto inani. Certamente però anche le orecchie umane sono tutt’altro che invulnerabili; sono probabilmente la parte più esposta e indifesa del nostro corpo. E’ facilissimo ferirle con rumore e musica (ed è la musica altrui che spesso diventa per noi “rumore”, smentendo così il luogo comune secondo cui essa affratella e unisce, mentre invece più frequentemente divide e contrappone). (3) Ma il problema non si risolverebbe con l’eliminazione drastica dell’una e dell’altra cosa, ammesso che fosse possibile; perché, se a volte gli uomini soffrono per rumore e musica prodotti da altri uomini, soffrono spesso anche di fronte al completo silenzio.

In una camera anecoide, che ci isoli totalmente dall’esterno, avvertiremmo pur sempre il nostro stesso respiro e il battito del cuore. Anche a non essere inclini all’ipocondria ne saremmo disturbati perché questi suoni ci ricordano quanto sforzo e fatica compia, istante dopo istante, il nostro organismo solamente per continuare a vivere. In condizioni normali, invece, i suoni ambientali mascherano quelli prodotti dalla nostra macchina corporea e spesso, a loro volta, non sono nemmeno realmente ascoltati. Il nostro cervello è infatti straordinariamente capace di relegare suoni e rumori che non interessano al di sotto della soglia di attenzione. Dobbiamo quindi soffermarci e fare un piccolo sforzo per divenirne pienamente consapevoli: ecco allora il vecchio orologio a pendolo, il traffico, frammenti di conversazione, musica che proviene dall’appartamento vicino. Sono tutti esempi di quello che John Cage chiamava illegal harmony. Intendeva dire con ciò che l’”armonia” in musica si produce con la sovrapposizione intenzionale ed artistica di suoni elementari e discreti, che sono a loro volta già il risultato di una preselezione culturale. Al Conservatorio si impara a maneggiarli secondo procedimenti codificati dalla tradizione e quindi esprimibili in forma di “regole”. Questa è dunque l’armonia da manuale, quella “legale”. Ogni altra sovrapposizione di suoni, il simultaneo abbaiare di un cane che si combina col rumore di un aereo che ci sorvola, mentre una motocicletta che sgomma gira l’angolo di casa nostra, costituiscono un’armonia “illegale”. Cage sosteneva che anche le armonie “illegali”, per chi le sappia ascoltare, possono offrire piacere estetico. (4) Naturalmente, lui arrivava a questo tipo di sensibilità tramite il Buddismo Zen, che richiede una quiete interiore che per la maggior parte di noi, calati in una vita attiva di tipo occidentale, è sostanzialmente inattingibile. E’ paradossale quindi che Cage, americano del XXmo secolo (il più rumoroso in assoluto nella storia del mondo), dovesse ricorrere al pensiero orientale per poter convivere con alcuni degli aspetti più invasivi della propria stessa cultura. Viene da pensare. E viene anche da pensare quando dai testi classici apprendiamo che Virgilio, Cicerone e Lucrezio erano disturbati dal rumore prodotto dalla sega del falegname, strumento relativamente recente alla loro epoca. (5) Se consideriamo quanto sarebbe difficile per noi immaginare la vita senza i suoni e rumori prodotti da automobili, aerei, computer-games, radio e TV, ci rendiamo conto allora di come l’ascoltare o il non ascoltare (aprendo e chiudendo l’interruttore mentale secondo i casi) sia diventato una delle attività quotidiane più impegnative richieste al nostro cervello, una vera ginnastica psicologica che sicuramente in altre epoche non era necessario praticare in eguale misura. (6)

Il talento particolarissimo di Cage suscita sicuramente simpatia, per questo suo saper provocare senza cattiveria e aggressività. Non credo però che l’Occidente debba abbracciare il Buddismo Zen per imparare a convivere con sé stesso. Ciò vorrebbe dire ristrutturare il nostro “io” da cima a fondo; dopodiché non ci rimarrebbe che andare a vivere in un convento tibetano, perché a quel punto null’altro questo nostro nuovo “io” ci consentirebbe di fare. Non penso quindi nemmeno che l’Occidente possa adottare il Taoismo, filosofia che come nessun’altra coglie la positiva felicità del silenzio, al punto che la sua accettazione diffusa renderebbe inutile e superflua qualsiasi legislazione sul controllo del rumore. La nostra cultura vive di rumore e finché rimane sostanzialmente quella che è, non potrà fare a meno di continuare a produrne copiosamente. Alcuni di noi, li sopportano meno bene di altri; ma ce ne sono di così sgradevoli e aggressivi da riuscire a irritare chiunque. Pare, per esempio, che lo sfregamento delle unghie o del gesso sulla lavagna produca vibrazioni acustiche considerate orripilanti in tutti i paesi e culture del mondo (anche se poi la loro analisi fisica non spiega perché). Rumori del genere non possono essere mentalmente bloccati ed esclusi psicologicamente. Se fosse davvero possibile chiudere l’ascolto completamente di fronte alle esperienze acustico-musicali più aggressive e traumatiche, allora la musica ad alto volume non potrebbe sarebbe stata impiegata a mo’ di strumento di tortura, come i giornali hanno riferito che sia stato fatto, a Guantanamo con i prigionieri non collaboranti – e non è certo un caso un caso unico. Anni fa mi capitò di leggere in un giornale latino-americano che, nel Nord-Est del Brasile (Stato di Bahia), per un certo tempo la polizia aveva deciso di punire i ladri di bestiame infliggendo loro musica sinfonica tedesca. Si trattava, a quanto pare, di una forma assai perversa di crudeltà, perché con persone socializzate in un ambiente tanto lontano e diverso da quello mitteleuropeo, non era nemmeno necessario alzare molto il volume dello stereo per ottenere effetti devastanti. Un simile resoconto non sarebbe probabilmente dispiaciuto, se mai avesse fatto in tempo a leggerlo, a Gian Francesco Malipiero, il quale una volta affermò che la musica germanica consisteva principalmente nel prendere un tema e, poi, “torturarlo in ogni modo possibile”! (7) Poco da sorprendersi allora che gli effetti di queste sevizie possano produrre reazioni psicosomatiche su persone non mitridatizzate a sopportarlo. Ma Malipiero avrebbe apprezzato meno quello che il musicologo Izaly Zemtsovsky, raccontò al sottoscritto tempo fa, e cioè che durante la Seconda Guerra Mondiale, nell'Asia Centrale, i soldati Usbechi venivano puniti infliggendo loro l’ascolto di dischi di opere…italiane. E’ quindi evidente che il diletto musicale di qualcuno può essere il tormento di qualcun altro e nemmeno la musica tedesca o la musica italiana, queste illustri tradizioni dell’Occidente, costituiscono un assoluto di positività. (8)

La nostra capacità di amare, oppure tollerare, o anche soffrire indicibilmente a causa di un dato tipo di musica dipende quindi in modo essenziale dalla cultura di cui siamo portatori, dalle caratteristiche dell’ambiente sonoro complessivo che ci circonda, dall’attività che dobbiamo svolgere in quell’ambiente, e anche naturalmente – come potrebbe essere altrimenti – da propensioni individuali. In ogni caso, può essere utile tenere presente la distinzione formulata da R. Murray Shafer quando parla di paesaggi sonori hi-fi e low-fi. Hi-fi sono, secondo la sua definizione, quelli in cui il rumore ambientale consente di percepire distintamente suoni singoli, la loro provenienza e distanza. L’orecchio coglie dunque un senso di prospettiva acustica. I paesaggi sonori low-fì sono invece quelli in cui l'ascoltatore ha di fronte una barriera ravvicinata di suoni diversi che rende la percezione dei rapporti di distanza delle singole fonti di provenienza difficile o impossibile. In altre parole, manca il senso stereoscopico. Essere immersi in un ambiente hi-fi o low-fi genera quindi sensazioni ben differenti. E’ evidente che in situazione hi-fi si è maggiormente predisposti a prestare attenzione ai suoni, a discriminarli, e si manifesta nei loro confronti un atteggiamento meno difensivo o indifferente. (9)

Oramai che trascorriamo buona parte della nostra vita in situazioni low-fi, o in cui comunque una singola fonte sonora spesso sovrasta ogni altra, diventa allora importante sviluppare una consapevolezza del problema che possa sperabilmente condurre a un’ecologia acustico-musicale. Potrebbe, credo, articolarsi in due parti, come il metodo baconiano, con la sua pars destruens consistente nel liberarsi dagli idola, e la pars construens che conduceva alla vera conoscenza. Per noi la pars destruens si realizzerebbe nel combattere gli aspetti più brutali e aggressivi dell’inquinamento acustico-musicale, quelli che non è possibile sopportare, quelli che superano la soglia del dolore e che producono danni fisici o psicologici chiaramente accertabili. La pars construens, invece, potrebbe consistere nel fare almeno in parte, ma in forma diversa, ciò che John Cage auspicava: estrarre il bello, l’interessante, il gradevole, il “musicale” in ogni fenomeno acustico che potenzialmente ce lo possa offrire. Non dovrebbe essere necessario arrivare al limite paranoico di Marcel Proust, che fece rivestire di sughero la stanza in cui viveva, al boulevard Haussman a Parigi, per proteggersi dai rumori della strada. Da suoni e rumori occorre proteggersi e, sicuramente, ci sono casi in cui andrebbero bloccati alla fonte. Ci sono però altri suoni e rumori suscettibili di essere filtrati, dosati e manipolati creativamente. Così come spesso interveniamo sugli aspetti fisici dell’ambiente, riplasmandolo secondo i nostri bisogni, potremmo intervenire anche sul paesaggio sonoro (del resto, il termine “paesaggio”, molto appropriatamente, a differenza di “territorio” è usato dai geografi in modo da comprendere gli interventi antropici che costantemente lo alterano). Nel cercare la possibilità di convivere con eventi acustici che per qualche ragione sarebbe difficile o costoso eliminare del tutto e fare anzi di questi la materia grezza con la quale produrre esperienze di tipo estetico, la funzione degli architetti potrebbe essere cruciale. Peccato che finora, forse addirittura meno che in passato sembrano interessati ad assumersi questo compito. I grandi architetti continuano a pensare le proprie opere come ad imponenti spettacoli da offrire al pubblico e da tramandare ai posteri in ricordo della loro genialità di artisti: sculture urbane autocelebrative. In ciò nulla di grave, solo che questo loro atteggiamento non contribuisce alla vivibilità di case, strade e città che ci organizzano lo spazio delimitandolo. Alcune di queste delimitazioni hanno grosse conseguenze (in un prato lasciato libero i bambini possono inventarsi qualunque gioco; in un parco giochi, invece, possono solo fare i giochi che sono stati progettati!). Succede però anche spesso che questa organizzazione dello spazio, attraverso le barriere fisiche che gli danno forma, sia efficace, funzionale, anche gradevole per l’occhio, ma – salvo eccezioni - è ben lontana dagli architetti l’idea che lo spazio possa essere definito anche acusticamente. Lo disse una volta molto bene Roland Barthes: “Come per il mammifero il territorio è contrassegnato da odori e da suoni, così anche per l'uomo - spesso non ci si pensa - l'appropriazione dello spazio è in parte sonora: lo spazio domestico, quello della casa, dell'appartamento (equivalente in fondo al territorio animale) è uno spazio di rumori familiari, riconosciuti, che nel complesso formano una sorta di sinfonia domestica”. (10)

Verrebbe da pensare che nelle Scuole di architettura di acustica se ne sappia forse meno di quanto ne sapesse il romano Vitruvio, e che lo studio di questa scienza sia previsto, semmai, solo come ricerca della riduzione, dell'isolamento e dell'assorbimento del rumore. (11) Certamente non si legge molto di Murray Shafer nelle Accademie di Architettura. Eppure, in una società come la nostra, in cui si vive a strettissimo contatto con altri esseri umani e con macchine, bombardati da segnali acustici e annaffiati da musica che ci viene versata addosso nei supermercati, dal dentista, al ristorante e in cento altri luoghi, si dovrebbe arrivare alla convinzione che l’ambientazione acustica del nostro agire e del nostro vivere non può essere più lasciata al caso. Occorre un atteggiamento ecologico, e la ricerca acustica potrebbe essere il punto di partenza per progettare luoghi in cui i suoni prodotti dai movimenti e dalle azioni delle persone, oppure provenienti dall’esterno, possano amalgamarsi in una prospettiva hi-fi adatta a fare “ambiente”, un ambiente che distingua un edificio dall'altro, che sia funzionale e capace di farci sentire a nostro agio: “design acustico” insomma. In altri termini: una grondaia può essere più di un semplice scarico per l'acqua piovana. Il suono che produce, non è necessariamente da annullare con intercapedini assorbenti; potrebbe essere sfruttato, invece, come elemento da usare creativamente per la costruzione di un ambito acustico connotato. (12) Se è vero infatti che spesso siamo disturbati da suoni e rumori invadenti e aggressivi, è pur vero che con altrettanta frequenza siamo messi a disagio da ambienti in cui suoni vengono assorbiti troppo rapidamente o, al contrario, in cui la nostra voce si riverbera al punto da disturbare il nostro stesso parlare e da interferire con la comunicazione. Suoni e rumori non sono quindi necessariamente da escludere ma, spesso, solo da addomesticare; ed è la stessa teoria della comunicazione che suggerisce come una certa misura di rumore, e quindi di interferenza, possa addirittura rendere più chiaro un segnale che sia portatore di significato – ma deve essere una misura di rumore sapientemente controllato. (13)

Naturalmente, quello che chiamo “design acustico” non può essere la panacea di tutti i mali. Ho solo pensato di indicare uno spazio per interventi creativi che finora è stato lasciato interamente al caso. Il controllo assoluto dell’ambiente acustico, evidentemente, non lo avremo mai; ma possiamo sperare di aumentare le possibilità di sceglierlo in qualche caso e, come minimo, di creare una consapevolezza che la presenza o assenza di suono e musica debba essere oggetto di riflessione. Anche in questo gli architetti potrebbero aiutare: un edificio può essere costruito in modo avere al suo interno gradi diversi di riverbero, ambientazioni sonore a geometria variabile, oppure silenzio a seconda dei momenti. Sarebbe un bel progresso, perché mentre lo spazio fisico quasi mai possiamo adattarlo al nostro gusto (gli architetti immaginano che noi ci si voglia comportare in un dato modo e, completata l’opera, siamo costretti a comportarci come loro hanno pensato che noi ci si voglia comportare!). Una cosa però è essere innaffiati da suoni e rumori che provengono da luoghi vicini, che magari si sommano all’alto riverbero del locale in cui ci troviamo, oppure passare dal brusco silenzio di una stanza al vociare che rimbomba lungo il corridoio, altro è entrare in un ambiente in cui si è fatto almeno lo sforzo di pensare la relazione tra suoni, spazio e uso dello spazio, in cui si è cercato di rendere il passaggio da una stanza all’altra acusticamente allettante invece che traumatico. Potrà sempre non piacere e dobbiamo quindi tentare di conquistarci il diritto di poter dire la nostra in proposito e magari di rifiutare il tutto e farlo correggere. Partendo dal livello familiare a quello condominiale cittadino, statale, sarebbe bello quindi far crescere la consapevolezza della questione acustica, al punto da convincere che si tratta di questione degna di considerazione politica. Tentiamo di persuadere l’opinione pubblica che c’è un problema: che se ne parli e che se ne discuta.


A favore della bella e buona musica,
ma non sempre e non ovunque


Che un controllo debba essere esercitato su rumori e suoni casuali e sciolti è forse, tutto sommato, evidente. Lo è di meno il fatto che anche la musica, la buona musica possa fare soffrire. Non solo oggi, ma anche in passato la buona musica ha spesso dato fastidio. Per esempio, quando nel 1835 si diffuse a Napoli la canzone “Io te voglio bene assaje”, il suo enorme successo e la sua ossessiva presenza in ogni quartiere della città generarono reazioni di rigetto, anche umoristicamente espresse in parodia:

Addio mia bella Napoli
Fuggo da te lontano
Perché pensier sì strano
Tu mi dirai perché

Perché mi reca nausea
Quella canzone ormai
Ti voglio bene assai
E tu non pensi a me. (14)

Qualcosa di simile avvenne pure quando Domenico Modugno trionfò con la canzone intitolata “Nel blu dipinto di blu” (più generalmente nota come “Volare”) che vinse il Festival di Sanremo nel 1958. La canzone godette di travolgente popolarità anche in America. (15) Insomma, ci fu un momento in cui negli Stati Uniti da ogni juke box, da ogni radio, da ogni apparecchio televisivo provenivano le note di “Volare”. Non tutti ne furono contenti perché la canzone era diventata una presenza ineludibile e persecutiva. Fu così che qualche mattacchione la definì “la vendetta di Mussolini”: gli Stati Uniti avevano vinto la guerra contro Mussolini ma il vecchio dittatore avrebbe inviato (si presume dall’inferno) la propria vendetta, una canzone ossessiva che aveva conquistato l’America e veniva ripetuta e suonata con tanto martellante assiduità da fare temere che la nazione intera, alla fine, potesse uscire di senno. Ancora oggi in America, ne sono stato testimone, quando qualche radio specializzata nelle canzoni degli anni 50/60 ripropone “Nel blu dipinto di blu”, c’è qualche anziano che borbotta: “ah eccola qui di nuovo, la vendetta di Mussolini”!

Anche gli aneddoti mettono dunque in luce una questione importante: che anche la bella e buona musica può essere causa di disturbo; anche quando piace troppo e non siamo nello stato d’animo adatto per far fronte al suo impatto emotivo. Esemplare al riguardo è il caso descritto da Proust di Mme Verdurin che, a volte, era addirittura sopraffatta dalla bellezza della musica, al punto di sviluppare un feroce mal di testa: un caso di gradimento sofferto e quindi da esperire con cautela e senso della misura. Ma questi sottili problemi dell’ascolto musicale non erano noti al gerente del ristorante in cui una volta il sottoscritto si lamentò della musica di fondo. Questo signore si manifestò molto sorpreso e dichiarò con enfasi che si trattava di…“musica classica”! Evidentemente apparteneva a quella categoria che Vitaliano Brancati definiva dei “profondisti”, di coloro cioè che amano le cose serie e profonde e non accettano quel tanto di lieta frivolezza che spesso, in alcune situazioni, proprio ci sta bene. (16) Penso che casi del genere rivelino bene come il romanticismo sia riuscito a imprimere nella consapevolezza comune l’idea che la “buona musica” sia un valore positivo assoluto. Ne deriverebbe che in ogni momento, in ogni luogo un bel brano musicale sia sempre da gradire. Ma non è affatto così: la quantità può fare la differenza (in inglese si dice “too much of a good thing...”), e poi naturalmente il contesto, la funzione, l’occasione (esterna o interiore). Forse occorrerebbe ripensare il concetto di “capolavoro” e accettare come tale non l’oggetto sonoro di determinate caratteristiche qualitative e storiche, ma invece la performance, quella che meglio riesce ad adattarsi e a rendere più significativo, gradevole o emozionante un determinato momento e una determinata occasione della nostra vita. Anche una imperfetta esecuzione amatoriale può essere di grande valore (umano e sociale) quando raggiunge lo scopo che si prefigge, magari quello di favorire la convivialità e il buon umore di un certo gruppo di persone; stato d’animo che forse, in quel momento, un’impeccabile esecuzione della Wanderer-Phantasie di Schubert (magari nel pomposo arrangiamento di Franz Liszt) potrebbe rovinare. Verrebbe quindi voglia di chiedere che sia iscritto nella Costituzione degli stati civili il diritto del cittadino a poter sempre scegliere quale musica ascoltare, quando ascoltarla e magari di non ascoltarla affatto. Eppure, sarebbe peccato dover introdurre nuove limitazioni legislative. Finora non è stato necessario legiferare per impedire che la gente sia costretta a trangugiare gelato ogni volta che entra in un ascensore o un supermercato. Con la musica invece questa assurdità avviene. Troppo spesso ce la fanno ingollare in modo non dissimile da come le povere oche in Francia vengono ingozzate per produrre fois gras.

La tecnologia aiuta a metterci in questa sofferta situazione. C’è da osservare a questo proposito che, se da un lato, addirittura secoli fa, Tommaso Campanella nella sua Città del Sole aveva sperato che un giorno si sarebbe potuto “conservare i suoni”, non appena ciò divenne realmente possibile, furono in molti a comprendere subito non solo i vantaggi, ma anche i pericoli creati dalla nuova realtà tecnologica. Sir Arthur Seymour Sullivan, per esempio, quando incontrò Edison che da poco aveva inventato il fonografo, disse: "I am astonished and somewhat terrified. Astonished at the wonderful power you have developed and terrified at the thought that so much hideous and bad music may be put on record for ever"! (17) Ma fu in effetti Arnold Schoenberg uno dei primi a vedere lucidamente alcuni aspetti cruciali della questione. Ce lo ricorda Milan Kundera quando, citandolo, ci dice che: "La radio è un nemico, un nemico implacabile che avanza irresistibilmente e contro il quale ogni resistenza è vana", essa "ci ingozza di musica...senza chiedersi se abbiamo voglia di ascoltarla, se abbiamo la possibilità di percepirla", cosicché la musica diventa un semplice rumore, un rumore fra altri rumori. Schoenberg, occorre riconoscerlo, era un carattere apocalittico, ma in questo caso una parte di ragione forse l’aveva. Così almeno la pensa Kundera che ci aggiunge poi del suo: (la radio)“flusso in cui tutto si mescola, al punto che non sappiamo chi sia il compositore (la musica diventata rumore è anonima), che non distinguiamo l'inizio dalla fine (la musica diventata rumore non ha forma).” (18)


Perversioni estreme

Vorrei ancora insistere su come, pur essendo importante difendersi dall’invadenza del rumore (Schopenhauer, drastico come sempre, disse addirittura: "E’ da molto tempo che mi sono formato l’opinione che la quantità di rumore che qualcuno può sopportare agevolmente sia in proporzione inversa alle sue capacità mentali…") (19) sia poi di fatto la musica a costituire il problema maggiore, anche quando si tratta di musica qualitativamente eccellente. L’idea che la costante presenza di musica debba essere accettabile è un’idea moderna e non è l’essere moderna a renderla sensata.

Penso inoltre che non sia solo il disturbo di musica aggressiva e invadente a dovere essere combattuto, e i torturatori di Guantanamo e Bahia a dover essere puniti. Ci sono altre forme di disagio che la musica può dare, più sottili, ma pure da risanare, per onore e rispetto della musica stessa, anche quando ci viene imposta a volume basso e in modo delicato. E qui sono i musicisti che dovrebbero farsi avanti. Penso, per esempio a quanto mi capitò anni fa negli Stati Uniti, a Roanoke in Virginia, durante una calda estate. In questa piccola città entrai con un collega in un grandissimo albergo, per mangiare nel ristorante che ne faceva parte. C'era una strana atmosfera. Dal gran caldo eravamo entrati in una nube di asettica e gelida aria condizionata. Tutto era enorme e i clienti, le persone visibili erano pochissime. Naturalmente, ci avvolgeva una soffusa e soffice coltre musicale, presente ovunque: popular music, canzoni classiche rivestite di raffinati arrangiamenti realizzati con grandi orchestre, insomma la cosiddetta easy listening. Strana atmosfera davvero. Ne ero consapevole. Ma non immaginavo quale forte impressione supplementare mi sarebbe arrivata di lì a qualche minuto. Di lì a qualche minuto, infatti, decisi di visitare la toilette. Così feci, ed entrai in un salone che conteneva una serie di lavandini lussuosi, pulitissimi, distribuiti in ampi spazi. Ero solo lì dentro e percepii che c'era qualcosa di strano. Mi ci volle qualche secondo perché ne divenissi lucidamente consapevole. In effetti, proprio nel preciso momento in cui mi accingevo a fare quello che ero andato a fare, compresi che la delicata e soffice musica di sottofondo era Bach, era il preludio IX dal “Clavicembalo ben Temperato”. Ma pensate! Sentire quella musica che per noi musicisti ha carattere quasi sacrale mi inibiva in fondo dal fare quello che avevo una certa urgenza di fare. Ma lo feci comunque, soffrendo – perché quando pur si deve, si deve. Mi passò allora per la mente che di certo Mendelssohn, quando diede il primo forte impulso al revival Bachiano, eseguendo nel 1829 la Passione Secondo S. Matteo, e Robert Schumann quando collaborò alla fondazione della Bach Gesellschaft, non avrebbero certo mai potuto immaginare che il successo di questa loro operazione culturale sarebbe stato tanto totale e completo da portare Bach financo nei gabinetti. E forse oggi è diventata proprio questa l'unità di misura del successo di un brano, di un compositore, o di un genere musicale. Se lo si incontra nelle palestre, nei supermercati o nei gabinetti, solo allora è “vera gloria” – i posteri hanno dato la loro “ardua sentenza”. (20) Ecco quindi un tema su cui riflettere il giorno in cui si svilupperà una teoria del design acustico…

La musica può essere bella, ma non tutti sono tenuti ad apprezzarla. Dovrebbe essere evidente. Altrimenti non sarebbe venuto in mente a Philip Kogan, editore londinese, di pubblicare nel 1991 una Muzak-free guide to London. Ritenendo che l’onnipresente musica di sottofondo dia fastidio a molti (per esempio a chi, cenando con una bella signora vorrebbe dedicarle tutta l’attenzione di cui è capace, invece di sforzarsi a leggere sulle sue labbra quello che sta tentando di dire, col pericolo di produrre gaffes pericolosissime) ha reso disponibile una lista di 400 ristoranti, pubs e negozi in cui si fa a meno di sottofondo musicale. Non solo occorrerebbe favorire la pubblicazione di simili guide, ma forse bisognerebbe addirittura passare al contrattacco e boicottare i locali pubblici musicalmente inquinati. Quantomeno, se le ferrovie, i ristoranti e altri luoghi hanno istituito da molti anni scompartimenti per non fumatori, perché non indurli a creare anche ambienti acusticamente trasparenti? In effetti sarebbe probabilmente già un considerevole progresso se si cominciasse realmente a parlare di “inquinamento musicale” mettendo quindi in circolazione questa espressione. Diffondiamo la consapevolezza che di inquinamento realmente si tratta e che quando al ristorante troviamo musica di fondo, che non abbiamo scelto, è come se di fronte al menu ci fosse imposto di prendere delle portate a gusto del cameriere invece che seguendo il nostro o, più precisamente, come se il privilegio di scegliere il cibo che meglio ci aggrada dovesse essere pagato, anche, con l’accettazione della musica che il proprietario decide di farci ascoltare. Forse dovremmo addirittura scendere in piazza e manifestare di fronte agli esercizi commerciali che diffondono musica, o come minimo pretendere uno sconto. Qualcosa si deve fare e credo che sarebbe appropriato se i musicologi, coloro che professionalmente si occupano di musica in quanto cultura, fossero in prima linea. Basta con la difesa passiva, basta con le scomode palline di cera che si modellano e si pongono nelle orecchie e che molti di noi ormai si portano sempre in tasca. (21) L’assedio musicale è ormai tanto costante che a leggere Gialal al-Din Rumi (il poeta sufi fondatore dell’ordine dei dervisci vissuto in Anatolia tra il 1207 e il 1273), quando afferma che "In verità, quando non c'è suono, l'udito è ancor più all'erta; invece, quando c'è suono, la qualità dell'ascolto è inferiore", oppure Rainer Maria Rilke che nelle sue “Elegie duinesi” esprime il simile concetto della "ununterbrochene Nachricht, die aus der Stille sich bildet" è per noi un confronto con fantasie letterarie che non sono più rapportabili ad alcuna esperienza quotidiana diretta e che sembrano ormai quasi forme di poetico delirio.

E’ quindi appropriato riflettere sulle conseguenze che, in definitiva, tutto ciò ha sulla nostra reale capacità di ascoltare. Non è lontano il tempo, storicamente parlando, in cui si viveva in una condizione di sostanziale deprivazione musicale, quando per andare ad un concerto occorreva fare un grosso sforzo: prendere una carrozza, affrontare una fredda notte invernale, con neve, fango e simili disagi. A quel punto, l'ascoltatore era motivato ad ascoltare, forse con un’avidità e con una curiosità che oggi possiamo solo intuire. Come ben si sa, fino a buona parte dell'Ottocento, ci si recava ad ascoltare musica nuova, mai prima sentita e non ci si accontentava di pochi pezzi, ma si esigeva una macrodose di musica (almeno un paio di sinfonie, un concerto, e due o tre arie operistiche per condimento). Fa dunque impressione rileggere le annotazioni di Beethoven che, consapevole che la sua terza sinfonia era ben più lunga del normale, consigliava di eseguirla verso l'inizio di un concerto quando il pubblico era ancora fresco e soggiungeva, che andrebbe sentita magari solo dopo un’ouverture, un'aria e un concerto! Ma questo inizio oggi sarebbe già considerato eccessivo. Come reagirebbe il pubblico contemporaneo che alla fine di un concerto che dura solo un'ora e mezza (concerto che tra l’altro ha pagato) è impaziente e non ha voglia di ascoltare nemmeno i bis, cosicché numerose persone a quel punto si alzano dalla sala e, magari applaudendo, corrono al tempo stesso e si avviano verso l'uscita. I concerti una volta potevano durare anche delle ore ma chi ci andava aveva scelto di andarci per compensarsi di una prolungata astinenza. Oggi invece la possibilità di coltivare una gastronomia musicale di nostro gusto, o se occorre una sana dieta, ci viene costantemente negata.

Mi domando quali siano i tasti su cui maggiormente battere per venire fuori da una situazione tanto drammatica. Sicuramente, lo accennavo prima, è importante parlare di “inquinamento musicale” e rendere consapevole chi non lo sia che la musica inquina, la musica non è bella e positiva in assoluto, questa è un’idea sviluppata in Occidente in tempi storicamente recenti e che peraltro l’Occidente sta esportando. In altre culture la musica è più spesso concepita come “pharmakon”, termine che in greco antico indicava sia la “medicina” che il “veleno”. (22) Mi sembra altrettanto importante stimolare chi si occupa professionalmente di architettura e urbanistica a pensare in termini di ecologia sonora e non solamente, il che poi non si fa necessariamente nemmeno spesso, allo schermaggio dei rumori più invadenti. Ma l’ecologia acustica riguarda la dimensione collettiva e sociale del nostro vivere. A livello di vita individuale e familiare ci sarebbe da introdurre un concetto che ormai ha perso la sua incisività ed è infatti espresso da un termine desueto: “igiene”, “igiene acustico-musicale”. Chi insegna musica a qualunque livello dovrebbe, io penso, diventare apostolo e propagandista di una sana igiene dell’ascolto. Speriamo che “l’igiene musicale” trovi presto qualche eroe, magari come lo fu nell’Ottocento il famoso Dottor Semmelweis a cui Louis-Ferdinand Céline dedicò un bellissimo romanzo; quel Semmelweiss che fu un pioniere dell’igiene prima ancora che Pasteur dimostrasse l'esistenza dei microbi, perché si era accorto che la paurosa mortalità delle donne per febbre puerperale nelle cliniche ostetriche del suo tempo era dovuta al fatto che i medici non si disinfettavano le mani dopo aver manipolato cadaveri. (23)

Questa dell’igiene sanitario fu una grande battaglia combattuta e vinta tra Otto e Novecento. Un’altra grande battaglia per il benessere fisico e psichico degli esseri umani, quella per un igiene musicale personale e una ecologia sonora per gli ambienti in cui viviamo, potrebbe essere, io lo spero, “la” battaglia culturale del XXI secolo. Sta ai musicologi e agli educatori musicali, più che a ogni altro, di promuoverla.



NOTE

(1) Questo scritto è stato suggerito, direi meglio ispirato, dalla lettura di quello che Giuseppina La Face Bianconi e Carla Cuomo hanno recentemente pubblicato su questa stessa rivista ("Musica urbana: il problema dell'inquinamento", Il Saggiatore Musicale, IX(2002), nn. 1-2, pp. 183-197); anche se è evidente, mi piace sottolinearlo. Questi due interventi aprono un discorso importante al quale ho desiderato dare un mio contributo. Anche io ho, come Giuseppina La Face Bianconi, ho introdotto qualche ricordo ed esperienza personale. Spero di averlo saputo fare con lo stesso tono garbato e non invadente che a Lei è riuscito tanto bene.

(2)
Robert Temple (a cura di), Gilgamesh , Random Century Group Ltd., London, Sydney, Auckland, Johannerburg, 1991,

(3)
Nel XIXmo secolo il fisico Hermann von Helmoltz parlò di rumore, e di "suono non musicale", per descrivere le vibrazioni aperiodiche Il termine “rumore”, preso nel suo senso usuale e quotidiano, indica più generalmente ciò che per noi non è musica – il contrario, l’opposto della musica. Quando parliamo di musica e rumore sembrerebbe quindi che si vogliano mettere insieme due cose che sono estranee l’una all’altra. Ma in realtà, non è proprio del tutto così perché la percezione del rumore (inteso come disturbo, come interferenza, come non-musica) è ampiamente soggettiva: ci sono persone che non sopportano nemmeno il canto del gallo, ce ne sono altre che vanno in estasi per il rombo di una Ferrari. Il solo riferimento oggettivo, uguale per tutti, pare che sia la “soglia del dolore” che si raggiunge con una intensità di circa ca. 125 Decibel.

(4)
Qualcosa di simile sosteneva Proust, quando scrisse un saggio per rallegrare un giovanotto infelice della noiosa quotidianità. La ricetta di Proust era quella di visitare il Louvre e, invece di cercare i quadri di Van Dyck o del Veronese, di soffermarsi invece su quelli di Jean-Baptiste Chardin, pittore particolarmente capace di mettere in luce la singolarità e la bellezza, che quasi sempre ci sfugge, degli oggetti banali che quotidianamente accompagnano la nostra vita (Marcel Proust, “Chardin et Rembrandt”, Essais et articles, Présentation de Thierry Laget, Paris Gallimard, 1994, pagg. 68-78).

5)
Il primo studio, che io sappia, sulle conseguenze patologiche causate da suoni e rumori prodotti dal lavoro meccanizzato arrivò solo molto più tardi: Bernardino Ramazzini, De morbis artificium diatriba, 1713(tr. it. Le malattie dei lavoratori, a cura di F. Carnevale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1982).; il primo studio conosciuto in cui si parli di sordità industriale.

(6)
Jean-Pierre Gutton, Bruits et sons dans nôtre histoire, Essai sur la reconstitution du paysage sonore, Paris, PUF, 2000.

(7)
Gian Francesco Malipiero, Il filo di Arianna, Torino, Einaudi, 1966, p. 201. Io stesso, confesso di non avere mai particolarmente gradito la coerenza motivica e ricordo quindi il momento di disagio da cui fui colto il giorno in cui mi resi conto che Mozart, nel 1785, con i sei quartetti dedicati a Haydn, non si limitò ad accogliere il principio del lavoro tematico, ma fece addirittura in modo che il secondo tema derivasse dal primo! Il lettore curioso di questo e altri pronunciamenti di Malipiero potrà trovarli commentati in un mio vecchio articolo: “A ‘Bent for Aphorisms’: Some Remarks about Music and about his own Music by Gian Francesco Malipiero”, The Music Review, XXIX(1978), no. 3/4, pagg. 231-239.

(8)
Un articolo pubblicato sul Corriere del Ticino (Venerdì 12 agosto 1994, p. 36) ci ricorda che anche gli animali (i quali in quanto animali non sono portatori della nostra cultura) possono essere egualmente feriti: "Gli animali dello zoo di Copenhagen si chiuderanno la porta alle spalle quando l'orchestra suonerà a poche centinaia di metri da loro. E'questa una delle decisioni adottate in Danimarca per salvaguardare la salute delle bestie dall'inquinamento acustico, dopo la morte, domenica scorsa, di un okapi per il gran fracasso degli strumenti musicali. E' stato infatti dimostrato che la musica, o meglio i suoni troppo sostenuti, possono stressare le bestie: per quanto sembri incredibile l'okapi (animale africano più piccolo di un cavallo, con arti zebrati) è morto dopo un concerto operistico tenuto il giorno prima, e secondo l'autopsia la causa sarebbe stata uno shock improvviso, forse quello provocato dagli strumenti musicali. Per questo l'orchestra del Teatro Reale, che in estate suona in un parco attiguo allo zoo di Copenhagen, ha dovuto prendere atto del problema: d'ora in poi si esibirà a sipario chiuso e darà comunicazione ai guardiani dello zoo sull'ora delle prove e del concerto, in modo che gli animali possano rientrare in tempo nelle loro dimore."

(9)
R. Murray Shafer, The Tuning of the World, Toronto, McClelland and Steward, 1977 (trad. it., Il paesaggio sonoro, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985).

(10)
Roland Barthes, L’obvie et l’obtus, Paris, Seuil, 1982 (trad. it. L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985, p. 238). In effetti, concettualizzare e organizzare lo spazio solo con barriere fisiche è solamente il modo più crudo di farlo, anche perché inevitabilmente ne viene fuori una sua strutturazione euclidea che, così come non corrisponde realmente al mondo fisico, non corrisponde nemmeno alle nostre realtà psicologiche. Ogni tipo di sensazione, acustica e non solo, potrebbe concorrere al nostro modo di percepirlo. Non mancano esempi dall’antropologia. Gli abitanti dell’arcipelago delle isole Andamane, nel Golfo del Bengala, per esempio, si costruiscono una immagine mentale dello spazio attraverso gli odori (quelli del mare, della foresta, delle piante, degli animali)! (Constance Classen, David Howes and Anthony Synnott, Aroma - The Cultural History of Smell, London, Routledge, 1994, pagg. 96-97).

(11)
L'avveniristico edificio del teatro dell'opera di Sidney induce a sospettarlo. Si tratta di una costruzione assai fantasiosa dell'architetto danese Joern Utzon, una costruzione molto bella che oramai per gli australiani è quasi diventata un simbolo nazionale. Entro le mura di questo teatro d'opera, per migliorarne l'acustica, sono stati incorporati degli spazi vuoti, dei grandi risuonatori cioè, che funzionano ne più né meno (udite, udite), secondo i principi descritti da Vitruvio circa duemila anni fa! Forse non si poteva far di meglio dopo duemila anni? Forse non c’è stato alcun progresso al riguardo?

(12)
Non sono molti i contributi che vanno in questa direzione. Uno piuttosto interessante mi sembra questo di Brandon LaBelle & Steve Roden (a cura di), Site of Sound: of Architecture and the Ear, Smart Art Press, Santa Monica, CA, 1999. Naturalmente qualcos’altro lo si può spesso trovare nelle pubblicazioni del World Forum for Acoustic Ecology: http://interact.uoregon.edu/MediaLit/WFAE/ecoacoustics/summary19.html

(13) Tradizionalmente il rumore è stato considerato nemico della comunicazione. L’idea era che un caotico inviluppo di suoni e rumori maschera i segnali regolari portatori di messaggi. Al contrario, ricerche recenti suggeriscono che, in certe condizioni, una data misura di rumore, lungi dall’affogare i segnali deboli li può invece esaltare. Il fenomeno è stato chiamato “risonanza stocastica”. Il concetto di “risonanza stocastica” fu proposto per la prima volta nel 1981 da Roberto Benzi, Alfonso Sutera e Angelo Vulpiani, per spiegare la regolarità delle ere glaciali. Queste tendono a prodursi ogni circa 100.000 anni, il periodo cioè in cui l’orbita della terra intorno al sole diminuisce la sua ellitticità fino a diventare quasi una circonferenza, per poi tornare alla sua massima condizione ellittica. Questo mutamento dell’orbita riduce la quantità di irradiazione solare che raggiunge la terra. Ma il mutamento sembrava troppo modesto per spiegare l’innescamento di un’era glaciale, e del resto i dati geologici mostrano che, mentre l’orbita muta gradualmente di poco, l’era glaciale arriva (in termini geologici) con rapidità sorprendente. Robereto Benzi ha suggerito un’interpretazione plausibile di questo fenomeno. Affinché la terra entri in un’era glaciale, il clima deve saltare da una condizione stabile ad un’altra meno stabile. La quantità di irradiazione solare che raggiunge la terra sarebbe solo uno tra i numerosi fattori che fanno a un certo punto precipitare la situazione, una volta raggiunta e superata una certa soglia. Ciò renderebbe più probabile che le ere glaciali inizino durante le fasi del ciclo orbitale in cui la irradiazione della terra è minore, ma esse hanno però anche bisogno della spinta di quel “rumore atmosferico” capace di rinforzare il “segnale” orbitale (si indica, appropriatamente col termine “rumore” il “disturbo all'interno d'un qualsiasi sistema di comunicazione"; in elettronica il termine indica qualsiasi disturbo che non faccia parte del segnale stesso, come il suono prodotto dall'elettricità in un telefono o dall' “effetto-neve” su di uno schermo televisivo). La teoria è ancora controversa tra i climatologi, ma il suo senso più generale, in termini comunicativi, è invece chiaro. Per mostrare risonanza stocastica un sistema deve essere non-lineare. In altre parole, il suo output non cambia linearmente (analogicamente) in proporzione agli incrementi di input ma in modo asimmetrico, irregolare (il tipo più semplice di meccanismo non lineare è il grilletto di una pistola: fino ad un certo punto la pressione del dito non produce alcun effetto; ma oltre un certo punto si ha lo sparo). Se un segnale è troppo debole per attivare una reazione, una certa misura di “rumore” (acustico, elettronico o climatico che esso sia) può spingere l’effetto inizialmente modesto del segnale oltre la soglia che scatena la reazione. Ma deve trattarsi della giusta misura di rumore però: troppo rumore potrebbe fare “sparare” il sistema in continuità, senza alcun riguardo al segnale; troppo poco rumore può non creare nessuna differenza.

(14)
Marcello Sorce Keller: “Una famosa canzone napoletana, tradizionalmente attribuita a Donizetti”, La Nuova Rivista Musicale Italiana, 1985, no. 4, 642- 653.

(15)
Il 21 luglio 1958 la rivista Billboard recensiva ben sette versioni di “Nel blu dipinto di blu” cantate da sette artisti diversi, tra questi: Dean Martin, Nelson Riddle, Jesse Belvin, Alan Dale, Linda Ross. Dean Martin fra questi, fu l‘unico serio concorrente del disco originale di Domenico Modugno che si vendeva pure moltissimo in quel momento. Il disco di Modugno fu nominato da questa rivista Billboard disco dell’anno per il 1958. E infatti il disco aveva vinto in America ben tre Grammy Awards. Due anni dopo, nel 1960, Bobby Rydell riaccese il successo della canzone e molto dopo, nel 1975, Al Martino riuscì ancora a farla rientrare nelle Hit Parades.

(16) Vitaliano Brancati, I piaceri, Milano, Bompiani, 1964, p. 48.

(17)
Howard Goodall, Big Bangs, The Story of Five Discoveries that Changed Musical History (2000), London, Vintage, 2001, pag. 188.

(18)
Milan Kundera, L'ignoranza (2000), tr. it., Milano, Adelphi, 2001, p. 138-139. Questa di Kundera non è una citazione del tutto letterale di Schoenberg; riprende con qualche libertà quello che il compositore scrisse in “The Radio: Reply to a Questionnaire” (1930), in Leonard Stein (a cura di), Style and Idea, traduzione di Leo Black, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1975, pag. 147.

(19)
"On Noise", in The Pessimist Handbook: a Collection of Popular Essays, traduzione di T. Bailey Saunders (a cura di) e con una introduzione di Hazel E. Barnes, Lincoln, Nebraska, (1964)1976, pp. 217-218.

(20)
Per queste riflessioni non mi si prenda, per favore, per un Adorniano aristocratico che si scandalizza per questo uso prosaico della grande musica del passato. Io non escluderei, anzi mi sembra di averlo provato io stesso, che alcune musiche antiche o moderne possano esercitare - a volte - un blando effetto diuretico. Anche in questo caso però è ovvio che mentre un anziano prostatico può averne bisogno, i giovani evidentemente no.

(21)
Quasi tutti conoscono le palline di cera ottenibili in farmacia. Non sono l’ideale perché non sempre si fissano bene nell’orecchio e anche perché pur attutendo i suoni quello che ancora si riesce a sentire ha una risonanza sgradevole. Assai migliori sono quei protettori acustici con filtro. Grazie al filtro tutte le frequenze sono percepibili ma a volume ridotto. In altre parole, la qualità del suono non ne è influenzata. Un ulteriore vantaggio consiste nel fatto che esistono filtri attenuatori da 9 dB, 15 dB, and 25 dB. Il più popolare è quello da 15 dB perché offre il filtraggio più lineare e uniforme. E’ usato da musicisti, tecnici del suono e DJ.

(22)
Per esempio nella tradizione araba e persiana non c’è mai stato un diretto collegamento tra il concetto di musica e quello di bellezza o di cosa positiva e buona (vedi p. es. Hans Engel, Die Stellung des Musikers im arabisch-islamischen Raum, Bonn, Orpheus Verlag, 1987).

(23)
Il dottor Semmelweis, tr. it., Milano, Adelphi 1975.