FABIO FANO

VITA E MISSIONE ARTISTICA

3. IL SECONDO PERIODO NAPOLETANO
1902- 1909


L'amarezza del distacco del Martucci da Bologna, manifestata in modo cosi sentito nella lettera sopra citata, aveva una ragione profonda - a parte quella affettiva facilmente comprensibile -: ossia il presentimento che, con quel distacco, un ciclo importantissimo della sua vita d'artista fatalmente si chiudeva.
In effetto, quello che abbiamo chiamato il suo apostolato artistico poteva dirsi allora sostanzialmente compiuto. Ormai in Italia la rinascita del culto della grande arte strumentale e, d'altra parte, la diffusione delle opere wagneriane, erano bene avviate, e altri con fervore vi davano opera. I suoi discepoli erano diventati a loro volta maestri ed esecutori: il Toscanini era lanciato nella carriera sia nel campo dell'opera che dei concerti sinfonici, e più di una volta fu compagno del Martucci in manifestazioni artistiche. Insomma il movimento culturale di cui egli era stato il principale fautore continuava ora a svilupparsi per impulso proprio.
Ciò tuttavia non significa che negli anni di direzione del Conservatorio di Napoli, purtroppo i pochi che dovevano rimanergli da vivere, la sua attività artistica sia diminuita: al contrario, egli continuò a prodigare la propria energia con abnegazione tanto più ammirevole se si pensi al suo stato di salute che, delicato sin dalla gioventù, diveniva cogli anni e con le fatiche sempre più precario.
Tornato a Napoli il 27 Marzo 1902, attese con zelo alla riorganizzazione amministrativa e artistica di quell'Istituto ove egli ritrovava ora come dipendente alcuno che era stato suo condiscepolo, come Florestano Rossomandi, o addirittura suo maestro, come Beniamino Cesi - il quale dopo gli anni di attività svolta a Pietroburgo, a Palermo, a Roma, tornava proprio nel 1902 al Conservatorio di Napoli come incaricato dell'insegnamento della musica d'insieme - e adempì la difficile missione, per quanto gli fu possibile in quei pochi anni, con delicatezza e con fermezza a un tempo.
Inoltre diede nuovo impulso all'attività concertistica della città, che dopo la sua partenza nell'86 aveva languito, sebbene egli a tratti fosse ritornato a ravvivarla con le sue interpretazioni. La Società di concerti, ricostituita lo stesso anno del suo ritorno per opera di Carlo Clausetti, ebbe cinque annate di splendida fioritura culminante nella esecuzione della 9ª Sinfonia di Beethoven al Politeama Giacosa nel giugno 1905. Numerosi e importanti furono ancora i suoi concerti in altre città d'Italia: da ricordare specialmente quelli nei quali esegui la sua seconda Sinfonia, la più importante sua creazione artistica di questo periodo, composta in buona parte a Napoli e compiuta a Quisisana nel bolognese in una villeggiatura del 1904, da lui diretta la prima volta nel dicembre dello stesso animo a Milano (città che dunque ebbe l'onore di accogliere la prima esecuzione di entrambe le sinfonie martucciane); quindi nel 1905 a Torino, nel 1906 nella non ancora italiana Trieste; e, in Germania, nell'ottobre 1906, a Francoforte sul Meno, in un programma quasi tutto di musica italiana. A Roma la 2ª Sinfonia fu eseguita nel febbraio sotto la direzione del Toscanini, presente l'Autore.
Ma un'altra e più ponderosa impresa artistica egli doveva compiere, che fu l'ultima e probabilmente fatale alla sua salute: la direzione di due opere wagneriane al Teatro S. Carlo di Napoli, Tristano nel dicembre 1907, Crepuscolo un anno dopo. Egli vi fu indotto anche da richieste di amici e ammiratori, tra i quali era Rocco Pagliara, il delicato verseggiatore della Canzone dei ricordi, fervente wagneriano (successore del Florimo come bibliotecario del Conservatorio di Napoli), il quale poi si rammaricò di aver troppo insistito a fargli compiere l'improba fatica del Tristano, e per la seconda opera tentò invano far cadere la scelta sul meno grave Oro del Reno. Ma a parte gli incitamenti estranei, si può credere che la maggior spinta gli sia venuta dall'intimo, dall'esigenza cioè di dare alla propria missione un solenne coronamento. Era scritto che l'impresa da lui mirabilmente condotta a termine a Bologna nel 1888 non rimanesse isolata, che si ripetesse e si integrasse nella sua Napoli prima che egli vi esalasse l'anima: altrimenti la sua passione per l'arte wagneriana sarebbe parsa non avere avuto abbastanza completa manifestazione, di fronte all'opera già svolta da altri direttori di teatro, giacché l'insufficienza delle esecuzioni wagneriane in concerto, quand'anche animate da quel senso religiosamente austero che vi poneva il Martucci, tanto più evidente doveva apparire ora che quelle in teatro diventavano abbastanza frequenti.
Tale la ragione storica che crediamo di vedere in quel duplice avvenimento. Certo che esso diede alla fine della vita del Martucci un'impronta veramente eroica: come di artista che non rinuncia, per guadagnare qualche anno di vita, a un'occasione, quale probabilmente non si sarebbe più presentata, di compire il suo apostolato wagneriano. Fine che ha qualcosa in comune, per questa dedizione alla causa wagneriana, con quella di Liszt che già malandato in salute si reca a Bayreuth per ascoltare ancora una volta Tristano e Parsifal, e rimanervi poi sepolto accanto all'artista prediletto.
Fra l'esecuzione del Tristano e quella del Crepuscolo, Martucci si recò - nell'agosto 1908 - a Monaco di Baviera per sentire l'intera Trilogia nell'interpretazione del Mottl; nello stesso periodo cercò ristoro sui laghi bavaresi. Ma un morbo inesorabile lo insidiava, e ai primi dell'anno successivo, subito dopo le trionfali rappresentazioni dei Crepuscolo, si manifestò in tutta la sua gravità. Dovette rinunciare a partecipare a un concerto a Roma nel gennaio 1919 per le vittime del terremoto di Messina, pur avendone preso l'impegno. (Volle però, sebbene stremato, recarsi a Roma, chiamato in commissione per un concorso a cattedre del Conservatorio di Napoli). Ma a nulla valse il riposo cercato in una villa a Capodimonte, e a nulla valsero, dopo il suo ritorno in città, le cure prodigategli dai medici più insigni. Ormai il suo destino era segnato. Che egli lo sentisse o no, seppe mantenersi forte nella sofferenza. Nei vaneggiamenti degli ultimi giorni, rievocava gli avvenimenti artistici di cui era stato animatore, sognava i grandi musicisti da lui venerati e interpretati. Negli ultimi momenti di lucidità, rincorava il Pagliara desolato di averlo indotto alle soverchianti fatiche di concertazione, e gli diceva che era bene che fosse stato così per lui e per i suoi figli: certo intendeva dire per lasciar loro un esempio edificante. L'ultima sua visione fu quella del vascello sospirato da Tristano, e, insieme, del rogo di Brunilde alla caduta del Walhalla.
Mori a Napoli il lo giugno 1909.
Le sue esequie furono di una solennità adeguata alla grandezza della. sua figura. Giunto l'immenso corteo davanti al S. Carlo, la sua bara fa sollevata a braccia e la banda esegui la marcia funebre di Sigfrido nel Crepuscolo degli Dei. Sebbene altri abbia visto in ciò una manifestazionepoco seria, noi vediamo diversamente. Non è il caso di dar troppo peso certi particolari esteriori: l'essenziale è che il popolo italiano sentiva di aver perduto, dopo Verdi, un altro eroe della propria epopea musicale. Fu quello uno di quei rari momenti in cui, sulla miseria della vita di tutti i giorni, risplende pure agli occhi del volgo una scintilla della verità eterna, traluce il profondo significato di ciò che di più importante avviene nella vita stessa, e che diviene poi storia.
Del carattere umano del Martucci, quelli che lo conobbero da vicino, sono concordi nel mettere in rilievo alcuni tratti che c'interessano assai, in quanto - ciò che vedremo meglio in seguito - si fondono con le qualità dell'artista si da formare un'insieme di rara armonia. Sono precisamente la semplicità del porgere, della parola e del gesto, la grande e schietta modestia: e, con tutto ciò, un qualcosa nel suo occhio e nella sua piccola figura che avvinceva e imponeva reverenza. In particolare, nel dirigere l'orchestra, la figura si animava e quasi s'ingigantiva, la fisonomia si trasformava. Tuttavia sarebbe insufficiente mettere in rilievo soltanto ciò che in lui vi era di austero, di grave. Questo irreprensibile sacerdote dell'arte era di un'ipersensibilità che, fisicamente soltanto, poteva dirsi morbosa, perché arrivava al punto da fargli male: mentre spiritualmente era uno dei lati della sua natura d'artista, fatta in buona parte di delicatezza, di sensitività sognante ed anche dolorosa. Si aggiunga a ciò il grande amore per la campagna - ove cercava non le vaste ispirazioni di un Beethoven, ma un senso di solitudine e di raccoglimento - e un sano sentimento della vita familiare. Aveva sposato a 23 anni Maria Golella, che in vita gli fu cara compagna e, sopravvissutagli di trentasei anni, ebbe per sacro compito di far nota e apprezzata la di lui opera. Ebbe tre figli: il maschio, Paolo, nato a Napoli nel 1883, segui l'orma paterna come concertista e insegnante di pianoforte, e da tempo si trasferi all'estero: delle due femmine una sola è vivente
[questo libro fu pubblicato nel 1950], sposa del pianista Finizio. Nei suoi rapporti con le persone, il Martucci fu generalmente mite, cordiale, compito, come risulta anche dalle poche sue lettere che fin qui abbiamo potuto raccogliere e che, a parte il vario interesse intrinseco, ci piace riprodurre integralmente in appendice in quanto dimostrano questa sua egualità di carattere.
Ci siamo soffermati alquanto sull'indole dell'uomo non già perché intendiamo fare dello psicologismo, cioè considerare l'opera d'arte come una risultante o un riflesso della vita empirico-sentimentale di chi l'ha prodotta; ma per estrarre dalla vita morale o anche, ma in alto senso, sentimentale, spirituale insomma, quel tanto che ritroveremo tradotto in musica, ora come piena espressione artistica ora anche come residuo psicologico non interamente superato nella forma. L'ideale della armonia assoluta fra l'uomo e l'artista, quale sosteneva e di cui anche dava raro esempio Roberto Schumann, è invero un ideale limite, da cui la realtà è per lo più assai discosta; ma c'è sempre per lo meno un'armonia parziale, ossia una parte della vita interiore che si riflette nell'opera, senza di che l'opera stessa non potrebbe nascere: e questa parte la critica non può non tenerla presente, sebbene l'indirizzo moderno tenda per lo pii a separare l'uomo dall'artista. Ora, il caso di Martucci ci sembra tra quelli, ben pochi, in cui quell'ideale limite sia più vicino a esser raggiunto, perché la sua è tra le poche vite che non offrano alcuna materia all'indiscrezione, alla curiosità, al pettegolezzo del biografo. Si può quasi dire ch'essa non presenti alcunché di interessante che non sia legato in qualche modo alla sua arte, senza per questo esser priva di interesse umano come quella di molti artisti, anche grandissimi, del Rinascimento; giacché la sua umanità consiste appunto in una dedizione fedele all'ideale artistico che non pregiudica (come avvenne invece in Wagner) ma implica la nobiltà dell'uomo morale.
Ma ormai ci conviene volgerci all'opera d'arte, e internarci del tutto in essa, in modo che l'armonia testé affermata risulti direttamente dallo studio di essa.