FABIO FANO

L'OPERA

2. LE COMPOSIZIONI PIANISTICHE

L'attività del Martucci compositore, a parte qualche saggio inedito, comincia coi pezzi pianistici, generalmente brevi, formanti i primi fascicoli nella serie dei sei pubblicati da Ricordi: serie questa che ebbe la maggior diffusione e che contiene buona parte delle composizioni pianistiche martucciane. È giudizio ormai comune, e raffermato tra i conoscitori più obiettivi, che quei primi gruppi, compresi a un dipresso dall'op. 2 all'op. 50, non contengano nulla di veramente importante, cioè di artistico, di poetico in senso assoluto. Vi si trovano forme musicali nel gusto del tempo, cioè pezzi cosiddetti da salotto o «di carattere» come mazurke o polke da concerto, melodie, romanze, pensieri musicali; ma anche alcune forme riapparse poi con ben altro carattere nel Martucci più maturo, come scherzi, barcarole, notturni, capricci. In questo primo getto si vede tuttavia profilarsi a poco a poco una personalità dapprima fioca, poi man mano più visibile, se pur sempre timida, consistente non tanto nelle idee musicali quanto nei disegni pianistici, ritmi, armonie, e in alcuni tratti indefinibili dello stile d'insieme. Tali elementi bastano di già per distinguere anche questi primi lavori del Martucci dalla produzione pianistica di moda in Italia a quel tempo. Egli comincia bensì a comporre nel gusto corrente - il che è più che comprensibile se si pensi che i primi due Capricci apparvero quando era sedicenne, e gli altri via via entro i sei anni successivi -; ma rivela sin da ora un sano istinto musicale che gli fa scansare la piatta banalità e in certo modo nobilitare lo stesso gusto che accetta; inoltre, una tendenza alla pienezza armonica e alla complessità contrappuntistica che lo fa ben presto uscire dai limiti di quel gusto e trattare con tecnica già esperta forme rigorosamente polifoniche come quelle di fuga e fughetta o ampiamente classiche come quella di sonata. Insomma, già qui si può distinguere un'individuo artistico che avrà la sua parola da dire: un artista in potenza.
Ciò posto, ci sembra inutile esaminare una per una le sue opere di questo periodo: altri lo ha già fatto, con apprezzamento complessivo che coincide col nostro. Basti dunque qui additare alcuni pezzi che si distinguono per spunti felici, per vivacità e spontaneità che pur senza formare ancora bellezza producono tuttavia impressione gradevole. Così il notissimo Studio da concerto op. 9, brillante e di sicuro effetto pianistico perché scritto già peritamente per pianoforte, e che in complesso può dirsi un pezzo di getto, scorrevole se non di gusto fine; l'Improvviso op. 17, simpatico nella sua elementare scrittura pianistica; il Capriccio in forma di studio op. 26, non privo d'una certa vaghezza e scorrevolezza; lo Scherzino op. 29, il cui tema ricorda quello del terzo tempo ('Lieta adunata di contadini') della Pastorale di Beethoven: il Canto religioso op. 33 n. 3, che veramente ha poco di religioso nell'ispirazione, e piuttosto sembra render l'impressione di un'anima romantica, anzi crepuscolare, alla vista di una processione accompagnata da coro; la Sonata facile op. 41 n. 1, a un solo tempo, spigliata e ben ritmata; L'Arcolaio, pezzo caratteristico, op. 43 n. 3, vagamente descrittivo (genere questo che il Martucci coltivò spesso in quel primo periodo, ma che poi abbandonò sentendo che non gli era consono); il Pensiero fantastico op. 43, n. 4, leggiero e scherzoso. Altri pezzi, come la romanza Verso sera op. 43 n. 6, sono di sentimentalità più appassita. Le fughe e le fughette sono esercitazioni castigate, le seconde pur anche graziose.
A parte andrebbe considerata la Sonata op. 34, il secondo saggio del Martucci in questa forma (il primo fu la Sonata per violino op. 22), rimasto unico nella sua opera per solo pianoforte. Riuscì cosa decorosa, non senza segni considerevoli di personalità specialmente nel primo e nel secondo tempo («Allegro giusto» e «Scherzo»); ma in complesso è ancora un tentativo, che egli stesso in seguito sconfessava in modo sin troppo duro. E non ripeté l'esperimento, certo perché sentiva che il pianoforte solo non gli bastava per spiegare la sua ispirazione in forma così ampia, restando invece per lui strumento ideale per pezzi lirici generalmente brevi, sognanti o scherzosi che fossero.
Tutte le composizioni suddette ed altre ancora, nonostante la loro limitata importanza musicale, restano pur sempre utili come opere di studio o lettura pianistica. Ma se dovessimo precisare dove l'individualità artistica del Martucci appaia per la prima volta ben netta, sebbene non ancora in pura e piena bellezza, indicheremmo prima un pezzo a due pianoforti, la Fantasia op. 32 (a proposito di pezzi pianistici per due esecutori, sorvoliamo su quei Pensieri sull'opera 'Un ballo in maschera' a quattro mani, op. 8, che giustamente è stato detto peccato di gioventù), e la famosa Tarantella op. 44 n. 6: due pezzi questi ben diversi per forma e per carattere, ma che entrambi mostrano alcune tipiche impronte dell'artista, e rivelano in lui (ancora non più che ventiduenne, si noti!) una ammirevole padronanza formale.
La Fantasia op. 32 è col tempo passata in seconda linea, e non a torto, di fronte alla edizione per due pianoforti del Tema con variazioni op. 58: tuttavia merita ancora attenzione. Si compone di un «Andante» d'introduzione, un altro «Andante» di cautabilità più spiegata e un «Allegro giusto» che è una vera e propria fuga. Le melodie dei due movimenti lenti sono di gusto non troppo elevato, piuttosto melodrammatiche specie nel secondo; alcune frasi hanno tuttavia una dolcezza espansiva dì canto tutta personale e, perciò appunto, meridionale. Del resto, tutto in questa Fantasia è personale, anche le cose meno belle; e assolutamente magistrale è la fusione di armonie e di sonorità fra i due pianoforti: ciò che vale in grado più elevato per la fuga, brano d'ispirazione scherzosa, formato su di un tema che per sé non dice molto ma da cui l'Autore, già perito polifonista, trae la più gustosa varietà di episodi e di combinazioni sonore. Questa fuga si può già dire, nel suo genere, una bella pagina, e mostra in modo perspicuo uno dei lati tipici del temperamento martucciano: quello giocoso, ammiccante, e tuttavia non senza qualche venatura malinconica, qui appena sensibile.
Venendo alla Tarantella, se per essa sarebbe troppo parlar di bellezza in senso estetico assoluto, non si può d'altra parte disconoscere che è sommamente originale e caratteristica. (Non sarà male notare, di passaggio, che personalità e bellezza non fanno tutt'uno: ma trattare a fondo questo problema ci condurrebbe troppo lontano). Qui ancor più è visibile l'impronta meridionale, anzi napoletana: è in fondo un pezzo di colore locale, in cui la melodiosità tipica dell'ambiente comincia a rivivere nell'arte strumentale dopo circa un secolo di silenzio; e rivive non in tono languido, ma in una ridda di ritmi danzanti, con prevalenza di tinte vivaci alternate però con altre più dolci come la seguente:

e nel complesso, con modulazioni varie e spontanee. Certo, di tutte le Tarantelle che conosciamo (ne hanno scritte Chopin, Liszt, Rubinstein ecc., tutte più brillanti che espressive) questa è la più piacevole e originale. Ed è anche notevole che, pur nel carattere folcloristico, la forma ne sia classicheggiante, tanto solida quanto vigorosi sono i ritmi: quasi di un primo tempo di Sonata, con due temi ben distinti e netta tripartizione («esposizione» dei due terni in tonalità diverse, loro «elaborazione» breve ma densa, e «ripresa» coi due temi nella stessa tonalità principale di sol minore).
Entrambi i pezzi testé esaminati, dunque, rivelano già nel Martucci un temperamento romantico, tra il trasognato e il giocoso, fuso con tendenza alle forme classiche: questo va tenuto presente. Ora procediamo oltre: ancora un pezzo di vera poesia pianistica non l'abbiamo incontrato. Lo Studio op. 47 scritto per il metodo Lebert e Stark ci porta su un grado artistico più alto: siamo qui dinanzi ad un Martucci vigoroso, che assimila il problema pianistico dello «studio» a un'esigenza di intensità patetica e insieme virile. Ma forse è un frutto ancora precoce: o forse invece il Martucci ebbe torto di abbandonare per il momento questa via per darsi preferibilmente alle espressioni di malinconia suggestiva. Certo, nella melodia centrale che emerge dal disegno pianistico, c'è già il Martucci autentico, ma ancora con un che di tormentato. Comunque, questo Studio quasi dimenticato è una nobile opera d'arte, vago preannuncio di nuovi orizzonti che si apriranno qua e là nell'ascesa artistica dell'autore, e massimamente nella prima Sinfonia.
Sorvoliamo ora, al solito, sui pezzi meno significativi ancorché ponderosi come la 2ª Polacca op. 48; e fra le tre Romanze op. 49, dai titoli Desio, Quante memorie!, Ansia!, noteremo solo la seconda e la terza, dove per la prima volta appare isolata la nota lirica martucciana, non proprio pura ma già con tratti originali e con sentimentalità decorosa. Quante memorie! attrae l'attenzione più che altro per certi preannunci di spunti del famoso Notturno op. 70 n. 1, nella stessa tonalità di sol bemolle maggiore; Ansia! è più nota e molto migliore, per la sua affettuosa espansività e la bella pienezza armonica e contrappuntistica della parte centrale. Tuttavia c'è qui ancora un sentore di romanticismo sfiorito che trapela dagli stessi titoli, il genere dei quali si mostrerà presto dissentaneo dal vero MIartucci, che non ne farà più uso.
La Novella op. 50 e la Fantasia op. 51 denotano, specialmente la seconda, una tendenza a forme più ampie: ma né l'una né l'altra sono, a nostro avviso, espressioni artistiche assolute. La Fantasia, assai nota nell'ambiente pianistico, è certo considerevole e va vicino alla mèta; magistrale nella forma e dignitosa nell'ispirazione, ha tuttavia un che di pesante e di grigio, in quell'insieme di movimenti diversi che non giungono a un'espressione concludente. Tende al drammatico, ma la drammaticità vera non è raggiunta. Il difetto è specialmente nelle parti cantabili, di un patetico che dà nell'ampolloso. Più felice, per quanto un po' lungo, è l'Allegro centrale in tempo 2/4 di una limpida giocosità saltellante, tipicamente martucciana. Se fosse stato concepito come pezzo a sé (e anche così com'è lo si potrebbe isolare) forse il risultato estetico sarebbe stato migliore. D'altra parte, tra mezzo ad episodi piuttosto grevi risalta con un bel luccicore. Insomma anche qui in complesso si rivela la difficoltà del Martucci a concepire, per pianoforte solo, pezzi d'ampia forma.
Veniamo ora ai tre Scherzi op. 53. Qui veramente ci par di sentire un soffio nuovo. Sono le prime composizioni del Martucci di questa forma, sebbene il titolo non appaia per la prima volta. Né lo Scherzo op. 23, né lo Scherzino op. 29 avevano nulla a che vedere con la forma tradizionale di «scherzo»: il primo è un pezzo brillante quasi a moto perpetuo, il secondo un breve divertimento. Qui invece abbiamo tre pezzi nella classica forma ternaria: Scherzo -Trio - Scherzo da capo con o senza «coda» e nel pure classico ritmo ternario. Ricordiamo però che uno Scherzo di questo tipo c'è già nella Sonata op. 34, e, estendendo per un momento lo sguardo al campo limitrofo della musica da camera, troviamo che nella Sonata per piano e violoncello op. 52 ce n'è uno che anche come carattere è assai vicino a questi dell'op. 53. In questo periodo della sua creazione, dunque, Martucci si è ben appropriata questa forma e, usatala dapprima come parte di quella più ampia di Sonata, l'ha poi facilmente isolata, e in tre pezzi a sé, ha mirabilmente adattato lo stesso schema ad ispirazioni assai diverse. In realtà, per varie ragioni che ci si chiariranno man mano che procediamo nel nostro studio, lo Scherzo è tra le forme più consone alla natura artistica del Martucci.
Vediamo ora più da vicino queste tre composizioni, tutte piuttosto brevi, le prime due quasi piccole; ma, nei loro limiti, di forma ricca, levigata, rifinitissima. In che cosa propriamente consiste quel soffio nuovo che ci è sembrato avvertire in esse? L'espressione è scherzosa e leggiadra, i disegni pianistici arabescati: ma, sotto questo leggiero tessuto a ricami, sentite una pur vaga e trasognata malinconia: sentite cioè in una forma più concreta e più pura quello che già si preannunciava a tratti nella Tarantella e nella Fantasia per due pianoforti, cioè come una reviviscenza di musicalità meridionale nello stile strumentale ottocentesco. Abbiamo detto in forma più concreta e più pura: soprattutto più pura. Ciò che là era più che altro (specie nella Tarantella) capricciosa languidezza, diviene qui giocosità malinconica, più misurata e raccolta. E come un abbandonarsi dello spirito all'onda suggestiva delle immagini che si traducono con agile spontaneità in disegni melodici e armonie e ritmi vari. Questo abbandono, che già si avverte nella prima parte di ciascuno Scherzo, diviene più aperto nella parte centrale o Trio. Si ascoltino le prime note del Trio del secondo Scherzo: armonie indefinite che poi risolvono in una serie di accordi logicamente collegati (la logica armonica specialmente da qui innanzi sarà in Martucci sempre mirabile, ineccepibile): di un'armoniosità assolutamente personale, che è uno dei tratti più tipici del nostro musicista.
I primi due Scherzi, uno in la maggiore, l'altro in mi maggiore, sono bensì diversi nel carattere dei temi e dei disegni pianistici, ma tuttavia parenti per la semplicità di struttura, per la tenuità espressiva (tenuità consistente però) e per un che di indefinibile che è nella tinta generale. Il terzo, in re bemolle maggiore, è invce più vigoroso e complesso, di armonie ricche e moderne, pur restando nel fondamentale ambiente espressivo che abbiamo cercato di spiegare.

Anche qui, dopo la prima parte scherzosa e vivace, abbiamo un Trio la cui reale tonalità è di sol bemolle maggiore (sebbene il numero delle alterazioni di chiave poste dall'autore indichi ancora quella di re bemolle), di armoniosità sognante e suggestiva; e l'atmosfera questa volta è ottenuta mediante una catena di semplicissimi accordi a tre e due suoni.

E in tutti e tre gli Scherzi, dei quali i primi due chiudono con una breve coda, il terzo con la semplice ripetizione della prima parte, il tocco finale è vagamente malinconico. Non vogliamo con questo dire che il tono malinconico sovrasti a quello scherzoso, ma si fonde con esso o addirittura ad esso dà vita. Insomma qui si può già parlare di poesia, perché l'armonia di sentimento e di forma è raggiunta. E se teniamo presente che l'op. 52 è la Sonata per pianoforte e violoncello, che era certo già composta nel 1880, possiamo stabilire che il primo fresco germoglio del Martucci compositore cade in quel periodo, quando cioè egli era intorno ai ventiquattro anni.
L'attitudine interiore che prevale in questa prima fioritura, specialmente nei pezzi per solo pianoforte, è quella di un'anima assorta in una dolcezza inconsapevole, in una specie di innocente incoscienza, quasi un dormiveglia dello spirito: anima quindi ancor isolata dall'urto reale delle cose, che vive una vita tutta di immaginazione e di sogno, dove nondimeno è un fondo doloroso. Questa stessa corda sentiremo risonare nei pezzi che incontreremo continuando nella nostra disamina, e dove le pagine di viva arte si fanno man mano più frequenti, se pur alternate ad altre di gusto retrospettivo (vedi lo Studio caratteristico op. 54, poco felice come tutto ciò a cui il Martucci ha posto l'indicazione di «caratteristico»): l'artista ha ormai trovato il suo mondo e, quel che è più, lo fa vibrare in aspetti e sfumature di mirabile varietà. Sorvoliamo anche su pezzi decorosi come il Minuetto e la Gavotta op. 55 n. i e 2 e il Capriccio op. 57 n. 1, ed eccoci alla Serenata op. 57 n. 2, ove è come un vago stornellare di un menestrello con l'anima di un Pierrot napoletano. Un canto sommesso si distende dolcemente su di un accompagnamento arieggiante gli arpeggi di una discreta chitarra, il tutto in una linea morbida e sinuosa e con un perfetto svolgimento armonico, quand'anche il mondo interiore in cui quest'ispirazione vive sia di un'umanità quasi elementare. Nel notissimo Tema con variazioni op. 58, l'ispirazione fondamentale è più che mai trasognata e quasi elegiaca; nelle variazioni entra anche la nota giocosa, sempre di quella giocosità a fondo mesto che abbiamo notato negli Scherzi; ma alla line l'espressione si irrobustisce e la forma assurge a insospettata ampiezza ove l'equilibrio può dirsi, questa volta, raggiunto. Vi sono, è vero, variazioni più e meno profonde; c'è poi quella poco felice digressione tra sentimentale e ampollosa che è la nona variazione «alla Chopin», con una melodia diversa dal tema, ma poggiante su un basso che fa sentire le note del tema stesso intercalate da arpeggi: uno di quegli artifizi formali di cui il Martucci si è talora un po' troppo compiaciuto, su cui tuttavia non vi sarebbe a ridire quando fossero sostenuti - e quindi in realtà annullati come artifizi - da un'ispirazione pura, ciò che in questo caso non è. («Arte che tutto fa, nulla discopre», egli amava ripetere, ma questo è uno degli esempi ove essa invece discopre troppo). Ma nonostante queste diseguaglianze, il pezzo nell'insieme è vivo, per quella intimità di sogno la cui essenza musicalmente è data soprattutto dalla dolcezza e varietà di armonie, così ricche di modulazioni spontanee, e dalle morbide sonorità pianistiche fluenti a guisa di arpa. Notate ad esempio nella terza variazione la soavità con cui quei disegni cromatici discendenti si posano con un senso di dolce stanchezza sulle armonie cadenzali, alla fine dei due periodi di otto battute onde, a somiglianza del tema, la variazione è formata; e notate la profonda, sognante armoniosità che è nella quinta variazione, cosi nuova e diversa rispetto al tema e pur ad esso congiunta nell'intima essenza, come nello spirito classico delle variazioni. Il pezzo ha due finali diversi, l'uno o l'altro da scegliere a piacere: il primo è una fuga libera (sebbene non ne porti il titolo) assai sviluppata, il secondo un «Allegro molto» di carattere brillante eseguendo il quale - avverte l'autore - la VIII variazione va omessa, e la VI eseguita dopo la VII. Il gusto corrente preferisce la seconda forma; e l'autore stesso ha contribuito a creare questa preferenza, giacché nella trascrizione a due pianoforti del pezzo (che in complesso è assai felice e in alcune parti assai più ricca, almeno come sonorità, dell'originale) ha senz'altro eliminato la fuga e adottato le varianti annesse di cui sopra. (Forse che l'abbia ritenuta, contrariamente a quella dell'op. 32, disadatta ad essere disposta per due tastiere? Effettivamente l'adattamento non sarebbe stato semplice né naturale). Non solo: ma in una seconda lezione per pianoforte solo - che è quella inclusa nella serie dei 20 pezzi curati da Alessandro Longo - ha pure soppresso la prima forma del finale e introdotto alcune altre varianti di minor entità come i disegni brillanti aggiunti alla quarta variazione, sempre derivanti dalla trascrizione a due pianoforti.
Per quel che riguarda il finale, siamo d'avviso che l'autore e il gusto corrente abbiano alterato la genuina ispirazione del pezzo: che cioè la prima forma sia incomparabilmente superiore alla seconda. Quest'ultima, in sostanza, non è molto più che una conclusione d'effetto brillante, che tocca anzi l'enfasi nella estrema apparizione del primo tema con ritmo aumentato, di una sonorità ridondante specialmente a due pianoforti, con quel pedale di dominante a tremolo: mentre invece il finale originario a mo' di fuga è cosa che ben può dirsi magistrale; il sentimento elegiaco del tema vi si tramuta prorompendo in una vigorosa affermazione di vitalità che si sostiene senza cedere fino all'ultima battuta. È uno dei pochi esempi nell'opera pianistica di Martucci dove quello che abbiam definito dormiveglia spirituale si apra ad una limpida visione di luce mattinale. Si noti, nello sviluppo, l'inesausta ricchezza degli episodi, dove il tema di fuga si trasforma fino a divenire quasi irriconoscibile nelle diminuzioni; passaggi rapidissimi che però non si riducono mai a puro virtuosismo e non interrompono l'unità dell'insieme, suggellata da un'ultima trionfale ripresa del tema stesso. Farebbero bene i pianisti a riprendere il pezzo in questa prima forma; certo l'impresa è ardua, ma i risultati artistici la compenserebbero.
Fra i pezzi più perfetti di Martucci è certamente la Giga op. 61 n. 3, un tempo abbastanza diffusa anche nella trascrizione orchestrale dell'autore stesso, ora dimenticata o almeno trascurata anche dai pianisti sebbene sia di uno stile pianistico di rara eccellenza. Qui l'ispirazione è tutta scherzosa e chiusa in una forma scarlattiana. E senza dubbio, oltre allo schema bipartito con doppio ritornello e ai rapporti tonali tradizionali tra principio e fine delle due parti (I tonica - dominante, II tonalità x - tonica), qualche cosa dello spirito di Domenico Scarlatti rivive, e non solo in questo pezzo, nel musicista napoletano del secondo ottocento: pure non v'è ombra di reminiscenza nel senso comune e meno che mai di imitazione. Lo spirito è rinnovato: e in questa saltellante giocosità trapela sempre il fondo sognante, che anche qui però si apre ad una vitalità sana e ad un sorriso che par quasi umoristico ma è affatto ingenuo.
L'essenza musicale di questo gioiello consiste di vari elementi perfettamente fusi fra di loro: la viva genialità del tema, di una freschezza sorgiva:

classicismo di forma, di contrappunti, di disegni pianistici, ma nulla di più moderno di questo classicismo; sfavillio di immagini, armonie luminose e pur soffuse come di un velo di penombra; ritmo da cima a fondo pulsante di vita. Per questo aspetto dell'ispirazione del Martucci il pianoforte è lo strumento ideale: e come il suo gioco pianistico nello stile brillante (intesa la parola «cum grano salis») era insuperabile, così esso rivive trasfuso in alcune sue personalissime creazioni: ma nessuna del genere gli è riuscita perfetta come questa. Pure, come vedremo in seguito, egli adattò questo stile anche all'orchestra, oltre che ai complessi strumentali da camera in cui il pianoforte ha sempre parte essenziale.
Con la Barcarola op. 64 n. 3 si ritorna all'ispirazione elegiaca (altre Barcarole aveva egli già scritto, ma poco rimarchevoli, e dopo non ne scrisse altre). E anche questo tra i pezzi più belli di Martucci, ed è tra i meno noti, o addirittura ignoti. Il sogno qui assume un tono più doloroso, in alcuni momenti anche tragico. La forma è nettamente ternaria e si assimila assai bene all'ispirazione. Un canto spiegato in mi bemolle maggiore, di armonie calde e piene, comincia sommessamente ma si espande poi con sonorità più aperta e, posatosi sulla tonalità di dominante, raggiunge gli accenti della passione più intensa - passione sempre di anima che sogna tormentosamente, e solo si placa nell'armonia della forma:

Nella parte centrale l'atmosfera si fa addirittura fosca; assume carattere alquanto descrittivo, evocando come una notturna tempestosa navigazione, di contro alle due parti estreme che danno l'immagine ritmica di acque superficialmente placide. Ma questo non è che l'aspetto pittoresco di un contrasto puramente interiore, musicale, benché nello sfondo si sentano veramente il cielo e la marina napoletani. La drammaticità, dapprima sorda e compressa in quelle scale del basso che ci richiamano il Liszt della seconda Leggenda (S. Francesco di Paola che cammina sulle onde) e in quelle minacciose armonie sospese di do e fa minore, cresce fino allo scoppio, per placarsi poi quasi improvvisamente mediante tremoli modulanti che riconducono alla tonalità e alla melodia iniziale. Questa poi torna a svolgersi esattamente come nella prima parte, ma restando tutta nella tonalità di mi bemolle; il pericolo di convenzionalismo insito in simili riprese è superato in forza della spontaneità e semplicità della variante armonica; anzi, questa rinnovata espansione tutta nel tono inziale quasi accresce l'intensità del canto e insieme ne raddolcisce il tono doloroso, per spegnersi poi in un soffio dopo l'ultimo singulto di accordi di undicesima e tredicesima su pedale di tonica.
Chi mai, di fronte a questa pura bellezza di canto e di armonia, a questa fusione di toni morbidi e caldi come in una pittura, a questa eccellenza d'arte insomma, può ancora ostinarsi a negare al Martucci personalità musicale, a non vedere in lui altro che un imitatore dei grandi tedeschi, quasi un mancato Brahms italiano o al più un cantore di piccole cose?
C'è bisogno di chiarimenti o di dimostrazioni per far sentire che qui vibra una profonda anima di musicista, e di musicista creatore?
Ed eccoci ora al notissimo Notturno in sol bemolle maggiore op. 70 n. 1, che molti uditori credono originariamente composto per orchestra, e invece è per pianoforte, trascritto poi per orchestra dall'autore stesso. Bello, certamente; ma non degno della quasi esclusiva attenzione e simpatia ad esso accordata da esecutori e per conseguenza dal pubblico, specie alla sua forma orchestrale: o meglio, non degni altri pezzi di venire ad esso posposti. Anzi, se si vuol esser rigorosi (il Martucci è artista tale da non temere il rigore della critica: anzi lui stesso, se vivesse ancora, ne sarebbe grato) bisogna dire che qui non c'è la purezza musicale dell'ultima Barcarola e, in genere diverso, della Giga e degli Scherzi. C'è, nella linea melodica, qualcosa di alquanto manierato, come una lieve affettazione sentimentale, il che però non toglie che ii fondo sia poetico, e che a tratti sia raggiunta l'espressione musicale perfetta, come in quella specie di secondo tema in mi bemolle maggiore (a battuta 18, ripetuto poi con varianti anche verso la fine dei pezzo) e in tutto ii brano di chiusura dove la malinconia fondamentale si compone in serena armonia di forma.
In complesso si comprende come l'autore abbia sentito il bisogno di strumentare questo pezzo, perché alcuni spunti hanno, per dir cosi, in sé stessi il germe del colorito orchestrale; e si può convenire col gusto corrente, che nella trascrizione ii pezzo ha guadagnato: non tanto, però, da dover far dimenticare l'originale pianistico, come sembra quasi che sia avvenuto. (Ora poi ci è stato detto che vi è anche la trascrizione per fisarmonica: chiediamo venia per questa parentesi che non vuoi esser spiritosa, ma profondamente amara). In conclusione, diremo che la speciale popolarità del Notturno si spiega con la sua virtù comunicativa, più immediata di quella di altre pagine martucciane: e che, fatte le suddette riserve, si tratta pur sempre di una popolarità di buona lega.
Il secondo Notturno dell'op. 70, in fa diesis minore, è pure di notevole valore espressivo, ma ha avuto assai minor fortuna dell'altro, e non dei tutto a torto, perché la genialità vi è meno viva. Tuttavia esso non è da trascurarsi; è di carattere più meditativo e concentrato, come la sua tonalità stessa, e non senza un certo grigiore; anche in esso poi c'è nella melodia un che di lievemente affettato, quasi troppo rifinito nei contorni (in realtà non è che l'autore abbia ecceduto nel ritoccare e rifinire: il difetto sta nell'ispirazione stessa che nasce imperfettamente, come sentimento non del tutto purificato). Si notino però certe belle aperture d'orizzonte, come quella modulazione in re maggiore a battuta 24, e più ancora quella in fa diesis maggiore, sulla stessa frase melodica, nelle battute finali. Questi due Notturni chiudono la serie (astrazion fatta da una Romanza facile che vien dopo, poco notevole e senza numero d'opera, forse un pezzo giovanile) dei sei fascicoli formanti come il corpo fondamentale delle opere pianistiche martucciane, e contenenti, oltre a quelle qui indicate come le più geniali, altre decorose e originali come il Tempo di gavotta op. 55 n. 2, di ricca e moderna armonia e dai disegni. pianistici di un forbito neoclassicismo; il Capriccio op. 57 n. 1, il Preludio op. 61 n. 1, fluido e lievemente chopiniano; la Toccata op. 61 n. 2; il Moto perpetuo op. 63, ben altrimenti ricco che le solite composizioni di questo titolo, non esclusa quella di un Weber; il dolce Momento musicale op. 64 n. 1, trascritto poi dall'autore per orchestra d'archi; lo Scherzo op. 64 n. 2, saltellante e senza venature malinconiche. Tutte composizioni più che pregevoli, utilissime come studio per pianisti e compositori, opere - diremo usando una terminologia moderna rispondente ad una delle distinzioni complementari dell'estetica del Croce - di finissima letteratura pianistica, ma non, salvo il Momento musicale, di poesia: e qui è la poesia che ci interessa.
Abbiamo detto che quello sin qui esaminato è il complesso fondamentale delle opere pianistiche martucciane: e questo non per il banale motivo che esso sia raccolto in una sola pubblicazione, ma perché costituisce ciò che con termine convenzionale si potrebbe dire la prima «maniera» pianistica dell'Autore. Notiamo, per avere un punto di riferimento cronologico, che il secondo Notturno dell'op. 70 fu composto nel 1891: ossia, dal Martucci trentacinquenne. Nelle composizioni successive, apparse in fascicoli sciolti, le prime delle quali nascono nello stesso periodo di gestazione della prima Sinfonia, si sente subito uno stile alquanto diverso, pur essendo naturalmente della stessa individualità artistica: un che di ancor più elaborato e tornito, e una tendenza a maniere più moderne, sebbene gli spunti melodici siano spesso ingenui e prevalga ancora la romantica e neoclassica forma tripartita, talvolta sostituita da una forma strofica ove un primo periodo melodico s'alterna continuamente con un altro, entrambi con varianti, non però nella vera forma di variazioni. (Non mancano poi esempi ove si ritorni a una semplicità che ha dell'elementare, come la Serenata op. 78 n. 1: ma sono eccezioni, ove pur non manca qualche lieve tocco di contorni forbiti).
Se però si hanno presenti le altre opere dell'Autore nate in questo periodo, e segnatamente le due Sinfonie nelle quali ormai converge la sua attività creativa, il segreto o la chiave di questo nuovo stile è presto scoperto, e la sua importanza appare ridotta: l'importanza, diciamo, astrattamente formale, giacché quella più intrinseca dobbiamo derivarla come sempre dal valore artistico dei singoli pezzi: e pur questo valore, in generale, ci sembra limitato. Perché non troviamo più qui la spontaneità d'ispirazione dei pezzi precedenti, ma piuttosto una rielaborazione di vari elementi stilistici tratti da quelli, specialmente quei caratteristici forbitissimi disegni pianistici, saltellanti e con ricche armonie e ritmi vari, arricchiti di nuove combinazioni e movenze, non senza una certa compiacenza formale; insomma, emerge il già altrove notato aspetto neoscarlattiano di Martucci, ma in modo più stilizzato. In questa rifusione c'è tuttavia anche la preparazione dello stile veramente più ampio che si svilupperà appunto nelle due Sinfonie, sostenuto là da un nuovo stupendo soffio di ispirazione.
Complessivamente dunque, questo secondo gruppo di pezzi pianistici ha, nello sviluppo della personalità di Martucci, importanza e carattere di transizione. Sono sempre prodotti di un musicista aristocratico, interessanti pianisticamente, eleganti e graziosi formalmente, ma non molto geniali né profondi. Eccezioni però non mancano. Menzioneremo anzitutto il Notturno op. 76 n. 2 in si maggiore: ispirazione breve, ma schietta e profonda, con un che di evanescente e insieme doloroso: crepuscolo spirituale che non è più di alba ma di tramonto (si noti che la strofa melodica due volte ripetuta sembra entrambe le volte cercare invano nella cadenza finale una vera e propria conclusione tonale; e in realtà, sebbene un accordo di tonica suggelli il pezzo, la melodia in sé rimane sospesa lasciando una triste impressione di indefinito). E menzioneremo ancora i due pezzi dell'op. 77: Capriccio e Toccata, complessivamente i più importanti di questo secondo periodo stilistico. (Come data, siamo tra la prima e la seconda Sinfonia, e più vicini alla prima, cioè al 1895). Nel Capriccio ritroviamo il Martucci delle armonie sognanti. Il tema è bello: peccato forse che venga ripetuto troppe volte in varianti che non aggiungono molto alla sua virtù espressiva; e la strofa intermedia, pur essa ripetuta, tende al passionale ma ha nel fondo una reminiscenza schumanniana. La Toccata invece ha struttura assai più solida: la sua singolarità consiste in questo, che il tema principale, che dapprima sembra di essenza scherzosa, tra burlesca e umoristica, e musicalmente di attrattiva soprattutto ritmica, si ripresenta poi - dopo uno sviluppo apparentemente tormentato ma in realtà chiaro, tutto una fitta rete di arabeschi pianistici originalissimi - come un canto spiegato, alla sottodominante del tono principale, svelando così un'insospettata virtualità espressiva. Né la rivelazione si ferma qui: ché dopo, lo stesso tema, in un nuovo aspetto più vicino a quello primitivo, prorompe in un fortissimo, potente affermazione di vitalità, che inizia la ripresa della prima parte con varianti tonali (il pezzo è tripartito, con la parte centrale a mo' di sviluppo e non di episodio indipendente) suggellata da una breve energica chiusa. Opera veramente magistrale, di originalità assoluta, di concezione pianistica vasta, quasi sinfonica. Si sente che la prima Sinfonia è già stata compiuta.
Fra gli altri pezzi la Serenata e Gavotta op. 73 sono vaghe e popolareggianti; la seconda ripete in fondo le movenze ritmiche ed espressive dell'op. 55 n. 2, sebbene la materia tematica sia nuova. Dei tre pezzi dell'op. 76, a parte il Notturno di cui si è già parlato, la Novelletta e lo Scherzo sono soltanto forbiti ed eleganti, e lo stesso si dica dei tre dell'op. 79; di quelli dell'op. 78, i primi due sono decisamente deboli, il terzo (Capriccio) più grazioso e ricco dei soliti arabeschi. Dei due Capricci op. 80, di più ampie proporzioni, il primo ha ricchezza di disegni ancora maggiore del solito, ma che in sostanza non rivelano gran che di nuovo; il secondo ricorda nella mossa iniziale la Fantasia op. 51, ma nel confronto forse ci perde. Del resto ormai è superfluo il dirlo - si tratta sempre di opere decorose e osservabili. La Novelletta op. 82 n. 2 è più bella per orchestra.

Giunti ora al termine di questo sguardo alle opere pianistichedi Martucci, possiamo fermarci un momento e vedere di trarne qualche idea sull'essenza dell'arte martucciana in generale. Che dette opere rivelino un'autentica personalità musicale, ci sembra che ogni spirito non prevenuto debba riconoscere; che tale personalità non si fermi allo stato virtuale in cui essa è visibile sin dal gruppo di composizioni più giovanili, ma si manifesti in varie opere di vera poesia pianistica, è quello che abbiamo cercato di mostrare. Naturalmente però ogni artista, per quanto personale, ha dei modelli nelle opere dei grandi che l'hanno preceduto, sente più o meno l'influenza dell'uno o dell'altro anche senza subirla e si associa, per dir così, piuttosto a una che ad altra tendenza del proprio tempo, secondo le qualità del suo temperamento.
Non dimentichiamo, beninteso, che un tale raggruppamento degli artisti di un dato periodo secondo date tendenze non è che empirico e approssimativo; tuttavia dobbiamo farne uso, nei limiti in cui possa servire a meglio definire il temperamento di un artista. Così ad esempio, nel caso del Martucci, si direbbe evidentemente cosa assurda se si accostasse la sua opera al cosiddetto simbolismo francese, musicalmente impersonato in Claudio Debussy e suoi seguaci. Escluso a priori questo rapporto, non è difficile trovare quello giusto. Abbiamo visto che nelle opere di prima giovinezza il nostro autore non fu alieno dagli atteggiamenti dominanti nel gusto pianistico italiano del tempo: come però anche in quelli portasse un tocco più distinto e più sobrio, come infine avendo affinata la propria coscienza artistica abbandonasse presto quella via per un'altra ben più consona al suo vero io (staremmo per dire kantianamente, «l'io trascendentale» dell'artista). Per individuare meglio questo nuovo orientamento alla luce delle correnti musicali europee, non sarà inutile guardare allo schema formale prevalente: che è, come si è visto, quello tripartito, non generalmente alla maniera ampia di un primo tempo di sonata, ma del piccolo pezzo lirico caro ai romantici e a quello che si potrebbe chiamare un grande romantico classicista, cioè Brahms.
A proposito di quest'ultimo, parrà strano che lo abbiamo così qualificato, dal momento che in generale lo si considera come l'ultimo classico in contrapposto ai romantici puri (Schubert, Mendelssohn, Schumann, Chopin) e ancor più ai neoromantici (Berlioz, Liszt, Wagner). Non possiamo ora trattare un problema tanto dibattuto come quello sulla legittimità e il significato dell'antitesi «classico-romantico»: ma, per tenere la questione su un terreno più semplice e accessibile, ci sembra evidente che il Brahms dei pezzi pianistici («intermezzi», «capricci», «rapsodie») sia eminentemente un lirico, che però è alieno da quei riferimenti a un mondo poetico e fantastico onde invece è piena l'opera pianistica del grandissimo romantico suo antecessore, Robert Schumann, e che ama soprattutto il tipo del pezzo breve infuso di un'intimità nuova, più ripiegata nel soggetto che tesa in slanci passionali, ma pur sempre romantica, se per romanticismo s'intende grosso modo l'espressione di un sentimento individuale intensamente andante. Romanticismo, quello di Brahms, per lo più tormentato, che arriva talora fino alla «rêverie» più spasmodica (ma sempre liberantesi in una forma perfetta), altre volte invece si rasserena in forme scherzose o viene superato da un senso di straordinaria energia spirituale e quadratura ritmica che lo avvicina, di là dai pretti romantici, a Beethoven, si da farlo apparire quasi in una luce di antiromanticismo: questo è, a nostro avviso, lo spirito del Brahms pianistico.
Ora, la tendenza di Martucci è in parte assai simile. Il quadretto poetico-pittorico alla Schumann non fa per lui; tanto meno la combinazione di più quadretti in una lunga collana, o la vasta ispirazione fantastica. Più che mai estranea gli è la tendenza programmatica innovatrice di un Liszt. Da Liszt può avere accolto qualche elemento di tecnica pianistica (meno però che da Chopin), ma neppur l'ombra del senso coloristico, né di quella tendenza al bozzetto o poema pianistico che prelude al poema sinfonico, né della forma più o meno ciclica. Quanto egli abbia conosciuto delle nuove correnti impressionistiche, già abbastanza innanzi nel periodo della sua maturità, è difficile dire: certo è che egli continuò a comporre come se quelle non esistessero. Qualche ardimento armonico della sua ultima maniera (di ardimenti armonici, e di buona lega, se ne possono trovare molti nella sua opera) fa pensare allo Strauss, ma anche di quest'ultimo in realtà egli non sentì affatto l'influenza formale: e in complesso fu da lui lontano anche nel mondo interiore.
Insomma egli si trovò a suo agio in una linea formale che si potrebbe dire chopiniano-brahmsiana, e ad essa rimase fermo con mirabile coerenza: diciamo mirabile non già per far consistere prosaicamente il merito di un artista nella fedeltà ad un indirizzo: ma perché egli comprese qual fosse la propria via con un intuito autocritico che non è di tutti gli artisti, e la seguì senza lasciarsi attrarre dal gusto di novità, da tentazioni di pericolose avventure che lo avrebbero portato fuori strada.

Quella tendenza a ricomporre la musicalità romantica in linee severe generava anche talora un'esigenza di rompere la cerchia delle piccole forme per riuscire ad espressioni più complesse e più vaste. Questi sconfinamenti, di rado felici nei pezzi per pianoforte solo, trovarono terreno più adatto in quel genere di musica da camera ove il pianoforte è sempre il principale sostegno; il che vedremo meglio a suo luogo. E anche questo lo avvicina a Brahms. Ma allora, ci si obietterà, con tutto ciò che abbiam detto per mostrare l'originalità di Martucci, ecco che ora le nostre analisi ci conducono proprio a quella opinione che avevamo scartata come un luogo comune: che cioè Martucci sia un brahmsiano, il che in sostanza significa un imitatore di Brahms! No, signori: occorre ben distinguere. Altro è essere, genericamente parlando, di indirizzo formale e in certo senso anche spirituale affine a quello di un'altro o di più altri artisti, e altro essere, in quanto alla espressione artistica, nella scia di quelli. Infatti, per chi guardi un poco uddentro, il temperamento di Martucci è nettamente distinto, per molti lati anche lontano da quello di Brahms: il suo stile, come l'armonia, il carattere dei temi ecc., è assolutamente proprio e individuato. Reminiscenze e qua e là imitazioni si potranno trovare nella musica da camera e nelle Sinfonie, ma solo nei punti meno riusciti. E che cosa si può immaginare di meno brahmsiano della Giga, degli Scherzi, delle Barcarole per pianoforte? Né vi è in fondo alcunché di chopiniano, se tale non si vuoi chiamare l'andatura ritmica dell'ultima Barcarola o alcuni passi della sinistra nella stessa: pure coincidenze tecniche e nient'altro. Qualche vaga affinità di sentimento con Chopin si potrà trovare nel famoso Notturno, ma anche qui non oltre la superficie. E quando per caso a Martucci accada veramente di prendere atteggiamenti chopiniani, ne vien fuori quella manierata pagina nel Tema con variazioni che per poco non guasta l'effetto complessivo del pezzo.
Se si vuoi avere, per dir cosi, la chiave dell'essenza della musica martucciana, la sua ambientazione storica e locale, è vano cercarla presso i grandi compositori d'oltr'alpe: bisogna rimanere in Italia. Con questo, Dio ci guardi dal ricadere in una teoria nazionalista. Non esitiamo ad affermare che, se un musicista per circostanze speciali si trova a respirare fin dalla fanciullezza o da un altro qualsiasi momento della sua vita il clima artistico e spirituale di un altro paese da quello suo di origine, fino quasi a naturalizzarsi artisticamente in esso, e riesce pur così a fare opera geniale, in ciò lion v'è dal lato estetico nulla a ridire. E ciò può valere, crediamo, per qualsiasi arte. Nel campo della musica simili casi non sono frequenti, ma tuttavia non mancano: basti citare quello del fiorentino Lulli che crea la prima vera opera in musica di Francia; e anche quello dell'altro fiorentino Cherubini, italiano solo a mezzo o a meno di mezzo: e tuttavia entrambi artisti di primo ordine. Ma per Martucci, di tale trasmigrazione spirituale nomi c'è neppur l'ombra. Gà abbiamo parlato della sua vena di canto meridionale; e questa non è che un'indicazione generica che potrebbe anche portare a false interpretazioni, a fare cioè del Martucci una sorta di rapsodo della canzonetta napoletana elegantemente rivestita. Ma la verità è che l'intima anima meridionale non si esprime affatto nella canzonetta napoletana che, salvo qualche eccezione - e parliamo s'intende di quella del secolo scorso o al più degli inizi di questo, quando ancora non era caduta in basso come poi fino ai nostri giorni - è manifestazione di ancor greggia popolarità, non canto popolare nel puro senso; ma bensì in alcuni artisti autentici, come Salvatore di Giacomo in poesia e, appunto, Giuseppe Martucci in musica.
E certamente, se è legittimo un accostamento fra due artisti di arte diversa (e perché non lo sarebbe? non è ormai da tutti riconosciuto che l'arte in fondo è una sola? eppure da tali accostamenti si rifugge come fossero un controsenso) questo ci sembra proprio il caso. C'è infatti, a ben guardare, una reale affinità di sentimenti fra il Martucci di certe pagine liriche pianistche - e più ancora, vedremo, di quelle vocali - e il poeta dialettale napoletano. Anche in musica può esistere in sostanza un'espressione dialettale, naturalmente in senso particolare: quando cioè il canto sia scaturito dalla natura, dall'ambiente, insomma dall'anima popolare di una data regione o città, senza per questo restringersi al colore locale materialisticamente inteso, ma anzi (c'è bisogno di ripeterlo?) toccando le corde dell'universa anima. Così, per dare qualche esempio, è nell'intimo senso dialettale il Pergolesi dell'aria Tre giorni son che Nina, e forse, più o meno, tutto il Pergolesi (non napoletano di nascita, ma nello spirito sì): e cosi pure il Paisiello di Nina pazza per amore e il Cimarosa di certe arie (talora anche su testo dialettale), e non poche cose dei due Scarlatti. Venendo al nostro oggetto, dialettale si può dire il Martucci delle Serenate, e anche qua e là quello degli Scherzi, della Giga ecc. (per non parlare della Tarantella dove il «dialetto» musicale è, come s'è visto, più greggio).
Oltre che al di Giacomo, per ragioni analoghe ma per sfumature diverse il Martucci può venire anche accostato al Verga, sebbene la sua musica non abbia nulla di veristico e di narrativo; per quanto cioè c'è nello stesso Verga di favoloso, di sognante e dolorosamente nostalgico.
Ma tra i musicisti del suo tempo egli rimane, per siffatte caratteristiche, unico: se mai bisogna risalire, per trovare qualche affinità di temperamenti, ai musicisti dell'antica scuola napoletana nominati sopra: ma naturalmente c'è uno sbalzo di stile e di forme di uno o due secoli.
Tuttavia questi riferimenti ad uno spirito regionale non bastano a caratterizzare l'opera del Martucci: bisogna inquadrarla in un movimento più vasto, cioè nel generale movimento spirituale di fine ottocento in Europa e specialmente in Italia: e a questo scopo gioverà ancora sconfinare dal campo della musica in quello della letteratura. L'insistere troppo sui rapporti fra un artista e le tendenze della sua epoca sembrerà contrario ai principi dell'estetica moderna, ma in fondo lo stesso Croce, nei primi saggi pubblicati dopo l'Estetica, e anche molto più tardi nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, tiene ben conto, nei giusti limiti, di quei rapporti. E ciò che egli dice delle vicende della poesia italiana dopo la fioritura eroica, umanitaria e religiosa del periodo propriamente romantico, vale, con le debite differenze, anche nel campo nostro.
Che cosa succede, in musica come in letteratura e, in generale, nello spirito, a quello slancio di fede, a quella fiammata di idealità che ora si affermava con un gioioso senso di vittoria sulle potenze del male, ora invece disperava, ma sempre serbando implicitamente un candido attaccamento ai più puri valori della vita? Esauritosi lo slancio attivo col raggiungimento di fini contingenti, con momenti di ebrezza d'amore veramente universale, e con successive disillusioni, ne segue naturalmente un senso di stanchezza spirituale, un ripiegamento dello spirito in sé stesso con tendenza alla fantasticheria, al rifugio in mondi irreali ma di irrealtà diversa da quella dei romantici anche più sognatori; giacché essi si foggiavano sempre, pur nel sogno, forme concrete e raggianti di luce e di forza, mentre invece ora si tende a indeterminatezza e penombra: malinconia d'indefinito seguita all'ansia dell'infinito. È quindi una specie di romanticismo più stanco, ipersensitivo, che però, quasi per inconsapevole esigenza di compensazione, aspira spesso a contorni netti, a forme classicheggianti, e che per di più spiritualmente non è sempre pago di sé stesso e tende a superarsi passando a sfere più luminose.
Questo, dal più al meno, è un fenomeno che si vede in tutta Europa; ma in Italia in modo particolare, per il significato che ebbero per l'anima di questa nazione le vicende d'intorno al 1870, gli entusiasmi anteriori, e il senso di disillusa stanchezza succeduto temporaneamente a quella data. Ora ci sembra evidente che la musica di Martucci tragga l'ispirazione iniziale da tale tendenza, come diversamente si può dire della poesia del Pascoli, del D'Annunzio, del Di Giacomo e di altri. In qual modo particolare essa la esprima, si potrà meglio individuarlo tornando per un momento a raffrontarla con quella di due artisti stranieri che esprimono, per cosi dire, i due estremi della tendenza stessa: Debussy e Brahms. Il Martucci spiritualmente sta come in un punto intermedio fra la vaga sensitività d'indefinito del primo e l'energica ansia di superamento del secondo, benché, come si è detto, nella forma musicale e nel sentimento sia dal primo infinitamente lontano.
E ciò che egli ha forse di più singolare è questo: che il suo abbandono sognante trova la migliore espressione in forme di classica finitezza, di contorni nettissimi, con armonie dense e ricche di contrappunti e, non di rado, anche di polifonia vera e propria. Nei pezzi pianistici più riusciti, Martucci è veramente, per così dire, un classico moderno; ha il senso perfetto delle proporzioni, della misura (non inteso materialisticamente come studio di evitare il troppo lungo o troppo corto, ma come spontanea astensione' dal superfluo). Lo stesso equilibrio è nell'armonia, dove è perfetta fusione di diatonico e cromatico: diatonismo perspicuo senza affettazione di semplicità primitive, cromatismo ricco e moderno senza morbosi contorcimenti.
Ma questo aver chiuso un'ispirazione, che in senso buono può dirsi di romanticismo crepuscolare, in forme classiche e classicheggianti, non giustificherebbe per Martucci l'appellativo di neoclassico, che indica sempre una maniera, una tendenza scolastica, nostalgia del passato che è anche un po' insufficienza creativa. In fondo la ricerca di contorni netti, di intarsi: musicali, rispondeva a uno dei lati tipici dello spirito martucciano: a quell'amore dell'esattezza fino all'estremo, che si manifestava sommamente nel suo gioco pianistico e con carattere non pedantesco, ma estetico, come supremo gusto di chiarezza e di armonia.
Le caratteristiche che sin qui abbiam cercato di lumeggiare hanno indotto alcuni critici, anche benevoli, a definire il Martucci un musicista della piccola pagina lirica, e quindi a considerare le composizioni pianistiche come il meglio della sua opera. Ora questa opinione non ci soddisfa punto. È ben vero che quelle composizioni basterebbero di per sé stesse a rivelare un artista di primo ordine: ma il bisogno di sconfinare dal breve pezzo lirico alle forme più complesse di musica da camera e sinfoniche non è già un vano sforzo verso la grandiosità formale, ma un'intima esigenza, tipica dei romantici classicisti come Brahms e Martucci (diversa cioè dal procedimento dei romantici anteriori che ampliavano non di rado il loro lirismo nella forma di sonata e anche in altre liberamente e fantasticamente complesse e, checché se ne dica, riuscivano anche là a stupende espressioni d'arte), aspirazione cioè a superare il sogno lirico in un'affermazione di sanità, di forza, di consapevole armonia spirituale, che se in Brahms si manifesta talvolta anche nei pezzi pianistici, sfocia poi naturalmente in altre forme di più vaste proporzioni e sonorità, dove tuttavia il fondamentale ansito lirico permane. In questo continuo oscillare fra il tenero tormentoso lirismo e la potenza granitica, nella ricerca di equilibrio tra i due elementi, sta forse il segreto dell'arte del Brahms, che si sa bene quali capolavori ne abbia tratti. Vedremo ora, in Martucci, una simile tendenza a quali risultati artistici porti.