FABIO FANO

L'OPERA

4. COMPOSIZIONI DI LIRICA VOCALE


COMPOSIZIONI DI LIRICA VOCALE

Passando dalla musica strumentale da camera del Martucci a quella che egli compose ad una voce con commento pianistico o orchestrale, non si turba molto l'ordine cronologico. Infatti, sebbene le date di composizione di tali opere sian note solo approssimativamente, sappiamo almeno che furono in buona parte composte nel periodo bolognese, quando abbiarn visto che quelle da camera per strumenti erano ormai sul finire.

Dopo la giovanile poco notevole romanza su poesia di Silvio Pellico Alma gentile e le due sui Sogni di Corrado Ricci, Martucci venne di nuovo a questo genere avendo già raggiunto maturità di stile: le Pagine sparse su poesie di Corrado Ricci formanti l'op. 68 furono pubblicate nel 1888: la Canzone dei ricordi non porta numero d'opera né data di pubblicazione; sappiamo tuttavia che l'Autore vi aveva dato mano sin dal 1886, e, date le proporzioni dell'opera, è a credere che la sua finitura abbia richiesto un certo tempo, specie nella trascrizione orchestrale che non si sa quando sia stata iniziata. Ma, quanto al punto di svolgimento ideale che queste composizioni rispecchiano, bisogna dire che, rispetto a ciò che finora abbiam visto profilarsi in complesso con continuità, qui si va a ritroso, ossia c'è un ritorno al Martucci più crepuscolare; anzi tale accento qui raggiunge un grado quale mai si nota nella sua opera né prima ne dopo. Sono momenti lirici di anima stanca, con malinconia come di foglie appassite, voci di esistenze isolate dal mondo concretamente umano e spirituale, chiuse nei recessi di solitudine sentimentale dove non è altro che vago rammemorare, sfinimento di sogno, languori che fanno pensare un po' al dannunziano Poema paradisiaco. E difficile spiegare come le Pagine sparse s'inseriscano (ché tale è l'ordine di pubblicazione) fra la serie dei pezzi per violino e quella per violoncello: né ci verrebbe la malinconica idea di andare in cerca di motivi biografico-psicologici contrari alla critica rigorosa, quand'anche avessimo una debole traccia -. e non l'abbiamo - che potesse guidarci per quella via.

Certo è che, in esse come nella Canzone dei ricordi, lo spirito del Martucci si è ripiegato su se stesso, in posizioni prima superate. Resta ora a ve-
dere come tale ripiegamento si traduca in arte, se cioè giunga o no a liberarsi nella forma.

Finora abbiamo avuto dinanzi un Martucci puramente strumentale:

il phi generalmente noto, per quel poco che è noto. Il primo nuovo interesse

che ci è dato da questi canti è di farci vedere come egli riesca a risolvere il problema di unire musica e parola. Da questo lato il giudizio non può essere dubbio: la fusione fra i due elementi è perfetta; il Martucci si comporta come un già esperto compositore di lirica vocale. Se non ha dietro di sé un'esperienza propria in queto campo, è come se l'esperienza del passato musicale italiano lo sostenesse. Diciamo passato, perché ai suoi tempi esisteva bensI in Italia quel p0' p0' di musica vocale che sappiamo, ma la parte viva di essa era quasi esclusivamente nel teatro: la lirica da camera era negletta poco meno di quella strumentale. Anche qui dunque, Martucci risveglia un genere da tempo assopito in Italia: e lo risveglia in modo assai originale. Sempre senza modelli fra i musicisti quanto a intime tendenze spirituali, egli si collega particolarmente, in queste romanze, alla poesia crepuscolare dell'ultimo ottocento, e rende perfettamente in musica un analogo contenuto sentimentale. Ma rendere un contenuto sentimentale non è ancora, rigorosamente parlando, liberarlo in arte: resta dunque da rispondere al quesito estetico fondamentale. Ora, la prima impressione che si riceve da queste pagine sparse, foglie cadenti del sentimento, è che vi sia un che di lievemente morboso. Ma tale impressione, se anche non viene in seguito totalmente superata, lo è almeno a tratti, perché la finezza di tocchi armonici, di disegni vocali e pianistici che è in tutte queste pagine, non di rado si trasfigura in una dolcezza che è certamente poesia. Phi precisamente, anzi, si può dire che un soffio poetico spiri dovunque, ma di poesia un po' malata che qua e là si purifica, liberandosi da quel senso di grigia depressione che vi è in generale diffuso. L'Autore mostrò in una occasione di dare la preferenza alla prima romanza del gruppo, e anche a noi essa sembra la migliore. Dice il testo:

Quanti affetti del cor restano ignoti! Quante, gemme d'amor sperde natura!

Si noti come il tono piuttosto tetro del si minore iniziale tenda per un momento a schiarirsi, sulle parole « Quanti dolci sospiri » ecc., in una dolce modulazione al relativo maggiore; e più sotto, dove i versi evocano un passare di stelle in cielo, il disegno melodico diventa apparentemente descrit'tivo - con quel lento scendere di note di ugual valore - ma è in realtà una evocazione puramente musicale, e assai bella:
soffio di calore e sognante spensieratezza giovanile. La penultima: « Ainor, che fai la vita lusinghiera »' attrae specialmente per i vaghi arpeggi del pianoforte avvolgenti il canto: l'ultima « Vorrei teco montare su quel leggiadro colle »' per lo slancio del canto, dove è uninisto di aspirazione alle altezze montanine e di stanca volontà di solitudine. Quest'ultimo senso è, in sostanza, quello che prevale, e che dà unità all'insieme di queste Pagine sparse.

La Canzone dei ricordi nasce dalla stessa attitudine fondamentale di sentimento, ma è animata da un fremito assai più intenso, che la rende meno statica e più ricca di colore e di contrasti, insomma le dà un più coinplesso valore artistico e umano. In origine la composizione fu concepita per canto e pianoforte, ma portava già in sé l'esigenza del commento orchestrale, col quale in verità guadagna moltissimo; perché senza di esso quel fremito,, quelle increspature marine che possono sembrare uno sfondo coloristico ma sono invece la più profonda essenza poetica della Canzone, hanno naturalmente minor rilievo e minor soavità.

Questo poemetto, su versi di Rocco Pagliara esprimenti uno struggimento di nostalgia, un rimpianto di cose lontane e indefinite, una triste voluttà di sogno che sembra non appagarsi mai, è diviso in sette parti a lunghe strofe musicali esteriormente staccate, ma nel fondo inscindibili Come i vari tempi di una sonata. E qui, in verità, la fusione delle parti successive è riuscita al Martucci più perfettamente chenelle composizioni in forma di sonata: ciò non vuoi dire che la Canzone sia sostanzialmente superiore ad esse, ché anzi il suo mondo interiore, come abbiamo implicitamente detto, è n1eno alto: ma è certo che quanto a omogeneità e unità d'ispirazione, alla sintesi del molteplice nell'uno, essa è, tra le opere martucciane di ampie proporzioni, la più finita. E in fondo c'è sempre l'anima della vecchia Napoli - intendiamo quella del tardo ottocento e persino qua e là della canzone napoletana che qui si eleva a vera arte, pur restando nell'ambito di un indefinito romanticismo. Ancora, dunque, musica dialettale; di questo genere anzi la presente composizione è, tra quelle del nostro Autore, il documento più cospicuo.

Delle sette strofe che compongono la Canzone dei ricordi, la prima e l'ultima sono idealmente collegate, una introducendo l'altra concludendo la fondamentale atmosfera di sognante rammemorazione. Tra di esse, le strofe centrali sono come un seguito di immagini diverse ma sorte da uno stesso sogno. La seconda - « Cantava il ruscello la gaia canzone » - è forse il pezzo più perfetto dell'opera, privo assolutamente di quegli sfoghi passionali che in quasi tutti gli altri un poco disturbano; evoca una limpida canzone di ruscello; e i protagonisti musicali, cioè gli agenti sonori coloristici cui l'evocazione è specialmente affidata, sono i violini e viole col loro
- 84 soave tremolare: ma non poco contribuiscono ad essa i dolci tocchi dei flauti e clarinetti e delle arpe e, in realtà, tutto l'insieme orchestrale che, avvolgendo il canto popolareggiante, riesce a trasportare e cullare l'anima in una regione indefinita e arcana, nei recessi del mondo subcosciente e incosciente, misteriosi ma pur già luminosi, in quelli cioè da cui pur germogliano la coscienza e la vita. Si noti il melodioso disegno strumentale che fa come da intercalare e da ritornello e che passa in varie tonalità per posarsi alla fine del pezzo su quella di tonica:

Esempio 10
Né si deve credere che il canto abbia parte secondaria: si notino anzi, nel mezzo della strofa, quelle soavi frasi « Oh la pace fedel de la foresta! Oh il soave mistero! » sempre fra il sussurrare dei flauti e dei clarinetti.

Il n. iii è, nel testo poetico come nella musica, una serie di stornelli intercalati da un refrain sulle parole « Cosi dicea la dolce serenata - cosi dicea la serenata mesta »: refrain la cui melodia è forse la cosa più poetica di tutta questa parte, dove è pure caratteristico il commento orchestrale imitante la chitarra. Verso la fine guasta un po' un crescendo lamentoso. In questo genere d'ispirazione tutta indefinitezze e sfumature delicate, l'incanto svanisce al sopraggiungere di accenti passionali troppo spinti.

Ciò non s'incontra in quella specie di barcarola che forma la strofe seguente, dove tutto invece è mormorato e ondulato. Dice il testo:

Sul mar la navicella, vaga éonchiglia nera fuggia, leggera e snella, per la tranquilla sera, ecc.

Ed effettivamente, se nella strofe II la musica è come un canto di ruscello, qui invece è simile a superficie marina con fondo di bonaccia e qua e là increspature (anche qui, protagonisti gli archi, i flauti e i clarinetti) sempre contenute in limiti discreti. La melodia può sembrare elementare ma in fondo è appropriata al tutto, e integra bene l'armonioso discorso orchestrale. Come nel 11. II, si finisce in un incanto di ondeggiamento cullante. Più che mai forse in queste due strofe vive l'anima della vecchia Napoli.

Nella strofe V i mormorati arpeggi delle arpe e i tremoli degli archi

bassi sboccano in aperta passione in una frase del canto sostenuta da tutta