FABIO FANO

L'OPERA

3. MUSICA STRUMENTALE E DA CAMERA

Dopo aver dato i primi saggi nella forma di sonata con l'op. 22 per pianoforte e violino e l'op. 34 per pianoforte solo, il Martucci, non più che ventiduenne, sviluppa già quella forma per più vasto complesso strumentale nel Quintetto op. 45. Questo è un bel balzo avanti; non solo il musicista vi si dimostra già sicuro nel trattare il sonoro complesso strumentale di pianoforte e quartetto d'archi, ma vi infonde una luce poetica originale. Per ciò che riguarda la fusione di sonorità tra i vari strumenti, i chiaroscuri di colorito, l'equilibrio dinamico insomma, l'opera può dirsi senz'altro magistrale. Per la sostanza musicale si deve invece fare qualche riserva. In generale, la personalità del Martucci è tra quelle che si sviluppano in modo normale e graduale; è bensi vero ch'essa si matura precocemente, ma con preparazione progressiva pur nella sua rapidità. Come numero d'opera, quindi probabilmente anche nell'ordine progressivo di composizione, il Quintetto sta fra la Tarantella e i primi pezzi pianistici che abbiamo considerato veramente poetici - gli Scherzi op. 53 - se pure fu ritoccato più tardi. E anche come valore artistico, pensiamo che stia fra questi e quella: come valore, diciamo, e non come genere d'ispirazione, per il quale il Quintetto sta tutto a sé, per la prima volta manifestando quel che di velato e sognante tipico dell'anima martucciana, ma manifestandolo in modo ancora un po' indefinito (indefinito nella forma artistica oltre che nel contenuto sentimentale), quasi come figura che appaia in una luce fioca.
Ma esaminiamo l'opera più da vicino. Sono quattro tempi di salda struttura: «Allegro giusto», «Andante con moto», «Scherzo», «Finale». Nel primo notiamo e ammiriamo l'inizio, dove le armonie sommesse e dolcissime degli archi sono sottolineate da tenui ma espressivi incisi del pianoforte; poi, nell'episodio di transizione al secondo terna (episodio che in linguaggio tecnico si usa chiamare «ponte») le parti si invertono: il pianoforte ha funzione di sfondo armonico a base di arpeggi e di disegni svariati, gli archi espongono un nuovo inciso, forse il più importante e insistente del primo tempo. Il tutto in un'atmosfera vaga, e insieme densa di presentimenti suggestivi che sembrano preparare un'affermazione melodica più concreta: la quale infatti giunge col secondo tema, in mi maggiore (la tonalità fondamentale del pezzo è di do maggiore) che però è pid debole per quel suo tono effusivo sì, ma di un popolarismo un po' facile (rispetto al Martucci, s'intende) ancorché abbia una certa ampiezza di linee che si presta poi a sviluppi ricchi di colori e armonie.
Quando si è detto questo, forse si è accennato al pregio ed al difetto generale del Quintetto, che è geniale negli episodi vaghi e delicati, talvolta anche in quelli vigorosi tratti dagli stessi incisi degli altri (per esempio, nel primo tempo, il brano che precede la ripresa) ma cede un po' ove tende a più concreta e complessa sostanza tematica.
L'Andante» comincia anch'esso con un'atmosfera vaga e un senso di attesa che si risolve poi in un canto spiegato del violoncello in do maggiore, svolgentesi e concludentesi con nobiltà. Poi si ha un incalzare di movimento e un crescendo di sonorità, che porta, nel «più mosso» e nel molto meno mosso» a bei momenti drammatici, dopo di che la prima parte si ripete con le varianti tonali di rito perché il pezzo si chiuda sulla tonica.
Lo «Scherzo» è vivo e agile, come un lieve ma fresco zampillo: si distingue dagli altri scherzi martucciani per il ritmo che non è, conforme alla più classica tradizione, di 3/4, ma di 6/8, e anche per la forma piuttosto insolita, senza un vero e proprio «trio», il che nel tempo anteriore si trova solo in rari casi, per es. in qualche «scherzo» mendelssohniano. Anche qui episodi delicati s'alternano ad altri vigorosi, in un sapiente gioco di luci e di ombre: e le armonie e sonorità strumentali sono varie e piene. E anche qui gli incisi e i disegni valgono di phi dei brani cantabili, come si vede sin dal principio, dove il rapido ed efficace niotivo pianistico è seguito da una melodia (sempre di ritmo vivace, ma pur melodia) della viola un po' più squallida. L'episodio per soli archi (salvo poche battute col pianoforte) che precede la chiusa, e dove appunto quella melodia viene ammorbidita e stemperata in un movimento piuttosto lento, e in armonie suggestive, è una parentesi lirica attraente ma alquanto languida. La conclusione invece ci riporta al senso di grazia e di brio dell'inizio.
Il «Finale» è, in complesso, il tempo più debole: diciamo sin d'ora che quest'osservazione vale in genere per le composizioni del Martucci in forma sonata (e, si potrebbe aggiungere, non del Martucci solamente). Del resto anche questo tempo rivela la mano del musicista esperto e si salva dal vieto mediante la vigoria ritmica e la ricchezza degli sviluppi. Alla fine poi quel richiamo all'inizio del primo tempo, benché risponda a un procedimento un po' convenzionale, risolleva lo spirito del pezzo.
Cerchiamo ora di chiarire meglio in che cosa consista, che cosa significhi artisticamente quella sorta di incorporeità tematica che abbiamo rilevato da principio nell'analisi del Quintetto e che impedisce di porre quest'opera tra le maggiori del Nostro. Non si tratta certo di un difetto congenito dell'Autore, ciò che già è dimostrato dalle sue migliori composizioni pianistiche: e neppure esprime un'insufficienza del suo temperamento a effondersi pienamente in queste forme vaste, come presto vedremo. Significa semplicemente che il suo mondo interiore non è ancora del tutto sbocciato; esiste già, come si è detto, con contorni indefiniti, in penombra, non in piena luce: nel colorito d'insieme e in spunti vaghi, non negli elementi pim concreti che sono i temi musicali. La parola «macchia», che servi a certi pensatori per indicare il primo abbozzo d'una ispirazione artistica, si può usare anche per il primo germinare di una personalità, ancor per cosi dire allo stato di crisalide se non di larva. Ma, pur con questa limitazione e tenuto conto delle parti meno riuscite, il Quintetto è già un'opera d'arte, non un tentativo: perché dallo stesso carattere suddetto spira un'aura poetica fine e delicata, come di un inondo irreale in cui su di uno sfondo di crepuscolo appaiano ombre d'individui - ombre musicali, s'intende ora moventisi pianamente, ora, come nello Scherzo, lievemente guizzanti.
Con la Sonata per pianoforte e violonello op. 52 in fa diesis minore, entriamo in un'altro mondo: qui, al posto di vaga indeterminatezza, troviamo una sana vigoria, un fraseggiare ampio e vibrato, sempre però temperato da quell'amore del chiaroscuro che è in tutta l'opera martucciana. Abbiamo detto che questa Sonata era compiuta nel 1880: possiamo ora dire che è la prima composizione che dia la misura della potenza artistica dell'Autore, e per di più in certo modo precorre il suo sviluppo spirituale ulteriore, in quanto tende a uscire dalle penombre trasognate ad un mondo di piena luce: diciamo «tende», perché in fondo la penombra c'è sempre, non però tale da impedire che lo spirito si manifesti ed espanda con un senso di forza degno di esser chiamato - per la sua eccellenza - brahmsiano. E veramente, se ci dicessero che questa sonata (e ciò vale anche per altre composizioni del Martucci di questo periodo) fosse stata composta dieci o più anni dopo di quando in realtà lo fu, noi con tutta facilità ci crederemmo. Anche perché qui Martucci è già assolutamente padrone della forma di sonata; padrone nel senso espressivo, in quanto senza incertezza compone i singoli momenti lirici in un'ampiezza discorsiva e in una complessità di struttura veramente sorprendenti, smentendo sin da qui l'opinione che gli contesta capacità di creazioni di vasto respiro. Non già che, a rigore di termini, un'artista diventi più grande perché componga un'opera di vaste proporzioni: ma il superamento c'è realmente quando implichi un arricchimento di vita spirituale: e d'altra parte vi è un intimo squilibrio quando all'ampiezza di struttura non corrisponda adeguata fusione dei momenti lirici, quando questi restino cioè come slegati e dispersi. Ora, in questa Sonata c'è una sorta di arricchimento anticipato, formale e spirituale, rispetto ai pezzi per solo pianoforte venuti poi; benché anch'essi siano nel loro genere pienamente espressi e se si vuole in certo senso anche più perfetti. E una delle precipue qualità di essa sta nella pienezza di sonorità poetica ottenuta dai due strumenti: già da qui si vede come il Martucci abbia sentita e latta sua la virtù di calda e robusta espressività del violoncello.
Difetti per verità non mancano. Già nel primo tempo («Allegro giusto») quel tratto iniziale un po' enfatico del pianoforte col salto di settima diminuita discendente, pregno di reminiscenze beethoveniane e wagneriane, non convince interamente. Ma poche battute dopo, con l'entrata del violoncello, appare un'ariosa melodia avvolta da armoniose spire pianistiche, di impronta tutta martucciana, primo magnifico sboccio d'una giovane personalità. Poi, un brano di transizione denso di armonie e modulazioni cromatiche, e di un senso chiaroscurale con un'ansiosa ricerca di luce, conduce al secondo tema in re maggiore: una vera apertura di cielo, un tratto di genio, un fiore melodico della più pura essenza.

Né la melodia si ferma qui: la sua stessa ampiezza ci impedisce di riprodurla integralmente. Tale frase, dopo che s'è compiuta nel violoncello, passa al pianoforte, mentre il violoncello continua il suo fraseggio in una specie di controcanto: un «crescendo» conduce a un episodio pieno di slancio e calore ove riappare vagamente l'inciso ritmico iniziale: poi la sonorità gradualmente si smorza e l'esposizione conclude in re maggiore con un più esplicito richiamo all'inciso iniziale capovolto, che ormai nelle tramutazioni ha perso interamente l'enfasi originaria. Lo sviluppo comincia misterioso, poi diviene più concitato e drammatico. Qualche lieve laboriosità armonica non ne turba la complessiva bellezza; e quando riappare nel pianoforte, nel tono abbastanza peregrino di fa maggiore, il secondo tema, tutto s'illumina ma di luce diversa dalla prima volta: cioè come luce vespertina colorata di nuove sfumature nelle armonie pianistiche. Il primo tema invece riporta a galla quella nota un po' enfatica dell'inizio. La ripresa ripete l'esposizione con le solite varianti tonali, e insieme chiarificandola nell'episodio di transizione fra i due temi che generalmente, nelle riprese, è il più scabroso. Poi vi è una poetica chiusa con ritorno al modo minore e con atmosfera stanca e serotina: si finisce perciò in una squisita penombra, con quegli accordi discendenti del pianoforte in moto contrario col violoncello. Peccato che l'accordo finale «fortissimo» sia - così almeno, ci sembra - un po' fuori luogo.
Segue lo Scherzo, pur esso d'ispirazione viva, meno complessa e profonda che nel primo tempo ma in compenso senza la pur minima diseguaglianza. Qui è già senz'altro il Martucci degli Scherzi per pianoforte op. 53. Egli risolve dunque felicemente il problema stilistico insito al genere di sonata componendo, dopo il primo tempo, pezzi - tolto il finale - di forma consona al suo temperamento, che tratta con uguale sapienza anche isolatamente. Resta il problema di concepire i singoli tempi in armoniosa unità tra loro: e anche questo gli riesce in complesso mirabilmente, sia nella presente composizione che in quelle di analoga forma che vedremo in seguito. Qui, l'unità è raggiunta più che altro per contrasto; dopo la complessità meditativa e lirica del primo tempo, lo «Scherzo» è come una pausa riposante, di una soave giocosità che rientra in quella espressione che abbiamo detto metaforicamente dialettale. Dopo il primo motivo saltellante, l'arte del compositore si effonde in giochi vari che si succedono con perfetta coerenza, quasi sempre basati sul motivo stesso, che vien poi ripetuto legato e a piena voce dal violoncello nella conclusione. L'arpeggio finale di tonica del pianoforte - prima del Trio - si ferma sulla terza: conclusione assai cara al Martucci, e caratteristica nel suo stile per la sognante dolcezza. Il Trio è pure graziosissinio, con lunghi pedali a mo' di musetto ossia piva napoletana; ed ha singolare rassomiglianza ritmica con quello dello Scherzo per pianoforte op. 53 n. 1: una certa parentela espressiva c'è anzi tra i due Scherzi nel loro complesso. Alla fine del Trio il pianoforte fa sentire, legate e con armonia di settima diminuita, le prime note dello Scherzo, che poi si ripete semplicemente senza coda. La bellezza di questo tempo nel suo insieme sta, al solito, in quel fondo di vaga «rêverie» che è nella giocosità stessa; e che musicalmente è reso soprattutto da armonie ricche e geniali.
Il meglio di questa Sonata è nei due tempi già visti. Il terzo è un Intermezzo breve, in tempo di Andantino flebile, d'ispirazione melodica piuttosto comune; la cosa più felice di esso è quell'arpeggio conclusivo del pianoforte che preannuncia sottovoce e in movimento lento quello che sarà poi il vigoroso e vivace primo tema del Finale. Il qual Finale, se non è all'altezza dei primi due tempi, è però assai più in su del terzo, e in certo modo si ricollega al primo per la complessa struttura e l'espressione concentrata, qui ancor più concitata e drammatica. Manca quella profondità che è nelle parti migliori del primo tempo; viceversa vi si nota accentuato il difetto visibile solo qua e là in quello, cioè una certa involuzione di armonie e di sviluppi. Anche qui vi sono due temi fondamentali (la forma sta tra quella tripartita di primo tempo e quella di Rondò alternante refrain ed episodi intermedi): il primo è robusto, il secondo dolce e ampiamente melodioso, non senza qualche parentela col corrispondente del primo tempo (anche la tonalità è la stessa) ma senza la luce sovrumana di quello. Nel complesso questo finale ha una bella vigoria, e adempie, per cosi dire, alla funzione architettonica di dare alla Sonata un secondo sostegno laterale robusto di contro ai brani intermedi più lievi, come nella facciata di un artistico edificio; oltre che ribadisce l'unità d'insieme della composizione concludendola nella stessa atmosfera poetica dell'inizio.
Il Trio per pianoforte, violino e violoncello op. 59 in do maggiore, certo già compiuto nel 1882, è fra le composizioni da camera del Martucci quella che più ha avuto diffusione. Ciò è dovuto probabilmente alla particolare scorrevolezza e comunicabilità dei temi, oltre che al notevole rilievo dato agli effetti dei singoli strumenti, effetti non meramente virtuosistici ma soprattutto coloristici o, come ora si usa dire, «timbrici». Certo, questo Trio è opera personalissima, di quelle che dànno come l'impronta tipica di un artista, quando anche non ne esprimano la spiritualità più alta. Quanto al genere d'ispirazione, qui abbiamo, rispetto alla Sonata per cello, un ritorno al gusto dell'indefinito; indefinito che però non si manifesta in contorni sfumati dei temi come nel Quintetto, ma é tutto nell'intrinseco. I temi, anzi, sono bene individuati e talora sin troppo rilevati o spiegati. Persino il primo tema del 1º tempo, pur così tipicamente martucciano, non manca forse di una certa ampollosità; ma è solo questione di poche battute: le frasi conseguenti dello stesso tema, che è assai lungo, già sono più pure: e poi, col brano di transizione o «ponte», l'ispirazione si interiorizza e nobilita sempre più, creando episodi assai poetici. L'onda armoniosa degli arpeggi pianistici è di per sé pregna di intimità suggestiva; e ad essa si sovrappone un dialogo tra violino e violoncello, tutto dolcezza sognante e affettuosa, dove i due strumenti svolgono melodie indipendenti ma così intimamente compenetrate, che parlar di contrappunto parrebbe quasi improprietà: eppure che cosa significa in fondo contrappunto, se non armonica fusione di due o più canti ben distinti, non importa se simili o differenti fra di loro? Questa duplice onda melodiosa dura ininterrotta sino al termine dell'esposizione, con sonorità variabile sino al forte ma senza crescendo di concitazione, ché l'espressione resta sempre in sostanza sullo stesso piano di velata dolcezza e nell'ambiente di penombra spirituale, ancor come al di qua della vita reale - il che però non significa debolezza di senso d'umanità o egoistica ricerca di paradisi sensuali o sentimentali, ché anzi già nel sogno del Martucci (questo è uno dei caratteri più notevoli della sua arte) spira un senso di schietta e intima bontà. Ma certo che a questa parte del Trio si potrebbero applicare due versi della Canzone dei ricordi:

e l'anima era vinta
da un'infinito oblio...

soggiungendo che questo è un oblio pieno di tristezza.
Nella parte ulteriore di questo primo tempo è da notare come il Martucci abbia genialmente e liberamente plasmato il tradizionale mutamento di rapporti tonali nella «ripresa» o «riesposizione»: infatti, invece di rimanere - come di prammatica sulla tonica per mezzo di qualche nuova modulazione o semplicemente di un qualche passaggio o sutura, egli pone qui il brano di transizione sulla tonalità di la bemolle maggiore, mediante una modulazione veramente dolcissima e di luce tutta nuova rispetto a quella corrispondente della prima parte - che andava normalmente da do a sol maggiore -: e nella stessa tonalità rimane tutto l'episodio del secondo tema, portato dunque solo di un semitono più in su che nell'esposizione, e pure già per questo (ma soprattutto ancora in virtù della suddetta modulazione) in un'atmosfera più diafana e suggestiva. La tonalità di do maggiore ritorna solo nella breve chiusa, dove sommesse armonie dapprima sorreggono un delicato richiamo a un episodio della parte di mezzo del tempo, poi discendono dolcemente, mentre nel pianoforte ritorna il disegno di terzine in tremolo che è all'inizio. Rispetto a detta parte intermedia, ossia all'elaborazione tematica, che abbiam lasciato per ultima, si deve dire senz'altro che essa è la più debole, proprio per la nuova idea melodica in mi bemolle maggiore che vi appare, in sé stessa ampollosa e per di più sovrapposta al primo tema aumentato nei valori, con procedimento alquanto artificioso, caso non unico nel Martucci (e già l'abbiamo visto nella variazione «alla Chopin» dell'op. 58); né l'atmosfera è purificata dai brani successivi dove i due temi sono ritmicamente alterati in vario modo, con un crescendo concitato ma farraginoso e non meno farraginoso sovrapporsi di modulazioni. L'enfasi rimane anche nella ripresa del primo tema in «fortissimo». Solo alla sua cadenza risolutiva, appena prima della modulazione in la bemolle maggiore, si torna a respirare la pura aria martucciana.
Nello Scherzo ritroviamo il brio che non manca quasi mai al Martucci in questo genere. La forma è, al solito, regolarissima. Il pezzo è specialmente notevole per vitalità ritmica, ricchezza armonica e sapienza di chiaroscuri, con qua e là come un ammiccare di cenni scherzosi fra i tre strumenti sempre armoniosamente fusi. Il «Trio» in «maggiore» è di una dolcezza cullante e arcana; il sapore di «piva» napoletana è ancor più sensibile che nel Trio dello Scherzo della Sonata per cello. Su di un lungo pedale del pianoforte i due strumenti ad arco con sordina svolgono un contrappunto doppio cioè invertibile e invertito all'ottava: poi il pianoforte partecipa anch'esso al discorso melodico e contrappuntistico. L'ispirazione indefinita qui si ricollega alle parti più poetiche del primo tempo. Più bella ancora è, dopo la ripresa integrale della prima parte, la coda in «maggiore» dove l'autore coglie genialmente il punto di fusione fra le due parti del tempo (scherzo vero e proprio e trio) e ne fa una sintesi breve ma riboccante di luminosa poesia, vivace e intima ad un tempo.
Gli altri due tempi sono minori. Non che manchino di originalità; ma è originalità meno nobile, meno poetica. Cosi, nell'Andante, la melodia del violoncello, nonostante l'ampio fraseggiare, non ha la semplicità toccante dei più puri cantabili martucciani, il che nuoce a tutto il tempo, del resto sempre ben costruito. Il Finale è a nostro avviso preferibile all'Andante; pieno di brio e di energia, ricchissimo di vena melodica e di frizzanti episodi giocosi; il tutto magistralmente elaborato e per poco non trasfigurato in poesia. Verso la chiusa son passati in rassegna i temi principali dei tre tempi precedenti, con procedimento alquanto convenzionale, modellato sul finale della 9ª Sinfonia di Beethoven. E la chiusa impetuosa contribuisce forse notevolmente alla popolarità di tutto il Trio, opera in complesso ben degna di questa popolarità. Cosi fossero della stessa levatura tutte le opere che si esaltano come popolari!
Il secondo ed ultimo Trio, in mi bemolle maggiore, op. 62, è opera di piena maturità. Sebbene esso sia stato composto poco dopo il primo l'autografo porta la data del 1883 - idealmente è a notevole distanza da quello e, nel complesso, superiore. Eppure non viene quasi mai eseguito nella stessa Italia, il che prova quanta strada abbia da fare il gusto musicale per arrivare ad una certa sicurezza di discernimento.
Quell'amore quasi esclusivo dell'indefinito, delle sonorità evanescenti, che notavamo nel Quintetto e, con diverso carattere, nel primo Trio, e che talora anche pregiudicava alla limpidezza dell'espressione poetica, è qui nettamente superato; un gusto di indefinito qua e là rimane, ma infrenato e composto in un concepimento artistico più severo e insieme più vario. Se stiamo ai numeri d'opera (qui unico punto di riferimento cronologico possibile) cosa c'è di mezzo, di composizioni di primo concepimento, fra i due Trii? Soltanto pezzi pianistici: sei pezzi op. 60 col titolo di Foglie sparse, poco interessanti; e i tre pezzi dell'op. 61, di cui soltanto la Giga è veramente geniale, anzi un capolavoro. Ora, appunto la Giga può indicare il passaggio a un'aura musicale più luminosa, dopo il ripiegamento nell'indefinitezza che si nota nelle composizioni posteriori alla Sonata per cello. Questa maggior chiarezza di tinte non toglie però che si manifesti sempre un'anima sognante (sognante in senso stretto della parola, giacché, da un punto di vista più ampio, tutta l'arte è sogno): infatti, tale anima si manifesta già nel primo tempo del secondo Trio, la cui melodia principale, sia per la tonalità che per il ritmo temano e per l'atmosfera d'insieme, richiama quella del Tema con variazioni op. 58. Tuttavia sentiamo chiaramente che il sogno ha assunto altra concretezza e idealità, diremmo quasi che è divenuto cosciente, come la malinconia è più sana e l'espressione più concisa e più maschia anche nelle parti velate e misteriose.
Il primo tema è esposto per intero dal solo pianoforte:


E questo è perfetto: perfetto come discorsività melodica, come armonia e - ciò che include tutto - come purezza espressiva. Una tale intensità e altezza di lirismo il Martucci non aveva ancora raggiunto se non nella Sonata per cello, dove però essa non si svelava, come qui, sin dalla prima battuta. Questa frase già in sé dovrebbe valere a convincere i dubbiosi o riluttanti che Martucci era un grande artista. Ma la sua bellezza non si esaurisce qui: gli archi la ripetono sostenuti dal pianoforte che, integrandola con un controcanto, ne aumenta ancora la ricchezza armonica e la luminosità sonora. Nel brano di transizione o «ponte» l'espressione si fa più misteriosa avvolgendosi in cromatismi sinuosi e vari disegni sempre intessuti su elementi del tema, con quella fitta cesellatura formale caratteristica dell'autore ma che qui non reca alcun segno di artificio. E con la seconda idea tematica si torna ad una luce più chiara, ad un lirismo che si collega a quello della prima, continuandone l'effusione in modo più sfogato e appassionato, se anche la purezza originaria non si mantiene sino in fondo - giacché la melodia qui si svolge troppo a lungo con un crescendo la cui conclusione è forse un po' magniloquente e non scevra di reminiscenze brahmsiane: lievi mende che non turbano la bellezza d'insieme.
Da notarsi che il secondo tema deriva dal basso del primo, mentre i disegni pianistici sono intessuti sulla melodia dello stesso:


(si confronti con l'esempio precedente). Ma qui, se vi è abilissima elaborazione, non v'è adito all'appunto di compiacimento virtuosistico, tanto la fusione è spontanea e espressiva: anzi, vi è solo da ammirare come la tecnica faccia tutt'uno con l'ispirazione.
Nella parte centrale del tempo i due temi sono dapprima avvolti in una penombra, in un velo di mestizia meditativa: questa prima fase dell'elaborazione è bellissima, ricca di poetiche modulazioni sfumate da un colorito vago a uno più caldo, quest'ultimo rappresentato dalla tonalità di re bemolle maggiore ove la melodia e l'armonia si riposano per un tratto. Segue un «Animato» ove l'elaborazione diviene alquanto artificiosa, sebbene sempre maestrevole: e ancor qui fa capolino l'influenza di Brahms. Tuttavia anche dove l'ombra di qualche grande sembra qualche momento offuscare la personalità del Nostro, questa non manca di reagire e di farsi luce in qualche tratto armonico o pianistico o comunque in qualcosa di indefinibile ma inconfondibile. La «ripresa» è, al solito, regolare: ad essa segue un vago episodio di coda con un ondulare mormorato di seste e fitti ma temperati cromatisini, che prelude al ritorno finale dei due terni in ritmo aumentato che ne sottolinea particolarmente l'intensità espressiva. Magnifico primo tempo, in complesso: il più armonico di tutto il Trio, osservazione questa che, come ormai si è visto, si applica a gran parte delle composizioni di Martucci in forma di sonata: e che del resto, nel campo della musica da camera con pianoforte, vale, non di rado anche per i grandi tedeschi, non escluso Beethoven.
Lo Scherzo colpisce alla prima per il suo colorito misterioso che poi erompe in uno scatto di irruenza drammatica. Ma per apprezzare questo tempo nel suo vero carattere bisogna appunto dissipare l'equivoco che nasce dalla prima impressione: perché in fondo questa drammaticità si rivela non essenziale, mentre ciò che qui come in tutti gli Scherzi martucciani è genuino, è lo spirito vivace e giocoso, e insieme soffuso di malinconia or adombrata or manifesta. L'aspetto malinconico prevale decisamente nel «Trio», dove ritroviamo la nostalgica melodiosità dialettale, con quelle seste degli archi dapprima trasognate poi piul passionali e intensamente anelanti, poi di nuovo avvolte in atmosfera indefinita ove si perdono: mentre il pianoforte dapprima le sostiene con un semplice «pedale» nella singolare forma di note semplici legate a salti d'ottava discendente, poi partecipa al discorso melodico degli archi e infine lo avvolge di più fitta trama di seste, senza mai interrompere il «pedale» pur variante di posizione e di tonalità: il tutto con un colorito armonico e strumentale vagamente suggestivo. In complesso il «Trio» ci sembra la parte più perfetta dello Scherzo, ma anche il resto è ammirevole per vigoria d'insieme e per episodi assai vaghi di saltellante leggerezza.
L'Adagio ci riconduce alle sfere di un elevato lirismo, con la sua melodia calda, nobile, di ampio respiro, di intensità crescente che raggiunge il massimo nella modulazione a mi maggiore (da la bemolle maggiore che è la tonalità principale) dove un brano di essa è ripreso dal violoncello per passare poi nel violino in mi bemolle maggiore. Terminata la pura esposizione della melodia, l'aria s'intorbida, con armonie tortuose che conducono lungi dalla limpidezza iniziale con uno di quei crescendi martucciani di fattura nobile sempre, ma alquanto forzata e pletorica, con deformazioni del tema e massicci passaggi pianistici tra brahmsiani e chopiniani. Per fortuna al crescendo segue il diminuendo, che sbocca in un'oasi di pace poetica ove gli archi riprendono la melodia iniziale mentre il pianoforte la contrae in un disegno d'accompagnamento, con modulazioni calde, specie quella in si bemolle maggiore ove il violoncello canta con bell'abbandono. Dopo quest'oasi abbiamo altre parti un po' faticose e tormentate, finché si torna alla melodiosità iniziale, ma senza ispirazioni veramente nuove.
Il Finale vivace e scorrevole non ha gli squilibri dell'Adagio, ma non ne ha neanche le bellezze. Per attingere ancora alla terminologia estetica del Croce, diremo che simili finali si possono considerare come buone «parti strutturali» che servono a integrare un insieme ove altrimenti le stesse ispirazioni più belle rimarrebbero tronche. E nel complesso questo Trio lascia l'impressione di una mirabile unità.

Ora ci troviamo dinanzi a una serie di tre pezzi, più che dimenticati, ignorati dalla grande maggioranza dei musicisti e dei critici: quelli per violino e pianoforte op. 67. Molto male che siano cosi trascurati, perché i primi due sono veri gioielli. Abbiamo qui un nuovo aspetto dell'ispirazione martucciana: una discorsività che può dirsi narrativa - anche nella musica senza parole può esservi il tono narrativo - un soave favoleggiare, un mirabile dialogare perpetuo fra i due strumenti: caratteri che danno a questi pezzi un posto assolutamente a sé nell'insieme dell'opera del Maestro. La loro forma, come pure quella del terzo, è nettamente tripartita, ma quasi non la si avverte tanto le parti si succedono spontaneamente.
Il primo pezzo, Andantino in mi maggiore, è il più limpido tra i due gioielli, con quelle scale discendenti che scorrono come acqua di ruscello: il tutto è ancora avvolto da un velo di sogno, ma il velo sembra farsi sempre più tenue, la luce più limpida nello spirito dell'artista, con l'andare degli anni e lo sviluppo dell'attività creativa. Il ritorno della melodia iniziale dopo la parte centrale (che qui, a differenza degli altri due pezzi, non è formata da un nuovo episodio melodico ma da uno sviluppo del precedente), con armonie ancor più piene che però ne lasciano intatta la scorrevolezza e trasparenza, è di per sé un capolavoro.
Il secondo pezzo è di un colorito un po' più cupo. Dopo una prima fase del violino che ricorda vagamente lo Schumann del delizioso Vogel als Prophet, il linguaggio diviene anche qui decisamente personale, semischerzoso ma a fondo triste e di soave discorsività. Non manca qualche richiamo, forse involontario, alla melodia a terze discendenti dell'Andantino: il che non fa che rendere più tangibile l'intima unità che lega i pezzi di questa serie, sebbene essi non siano indissolubili. Nella parte centrale la bella nuova melodia in la bemolle maggiore (la tonalità generale del pezzo è sol diesis minore) è di più ampio e luminoso sfogo lirico; poi, dopo un recitativo di transizione del violino un po' enfatico (l'unica menda del pezzo) si ripete la prima parte, con in più una «coda» bellissima che accentua il colorito mesto del pezzo, suggellandolo con un richiamo allo spunto schumanniano dell'inizio. Il terzo pezzo è il meno felice: un Allegro appassionato che chiude la serie in modo decoroso ma non tocca la vera bellezza. La tripartizione è ancor più netta che negli altri due. La prima parte e la sua ripresa nella terza hanno un fare cantabile alquanto baldanzoso e un po' troppo (sia detto cosi in ischerzo) alla napoletana, ma nondimeno gradevole. L'episodio centrale è più sobrio e finemente elaborato. La melodia di esso viene ripetuta dopo la ripresa e come incanalata nel disegno d'accompagnamento della prima e terza parte con procedimento simile a quello della chiusa della Fantaisie - Impromptu di Chopin: e con ciò il pezzo dolcemente finisce.

Tutt'altro carattere hanno i tre pezzi per violoncello e pianoforte op.69, anzi si può dire che essi formano l'antitesi vivente di quelli per violino. Là è tutto limpidezza scorrevole e soffusa di malinconia; qui domina un'espressione tormentosa, un ardore struggente eppur meditativo e concentrato, una grande complessità armonica e contrappuntistica con prevalenza di cromatismi: tutto un insieme che più che ogni altra opera del Martucci risente dell'influenza di Wagner, senza che per questo venga meno la personalità dell'Autore, il quale aveva per questi pezzi una speciale predilezione. La forma è anche qui sempre tripartita, ma nella parte di ripresa vi sono varianti maggiori del solito. Il lavoro tematico è più che mai profondo, minuzioso, irto, se si vuole anche un po' eccessivo: e ciò costituisce un difetto che i pezzi per violino non hanno, compensato però da un'ispirazione che, nelle pagine di più piena espressione, scava in profondità ancor maggiori. In complesso questo gruppo rappresenta nell'opera martucciana un altro aspetto singolare, di cui ragione non ultima è la calda sonorità e potenzialità espressiva del violoncello che, come già si è detto, Martucci senti particolarmnente, e qui sviluppò fino all'estremo, anche talora fino all'esasperato. È pur degno di considerazione, nel nostro musicista, questo apparire quasi in ogni opera o gruppo di opere in figura nuova (nuova non solo come deve esserlo ogni opera d'arte, ma come tendenza in senso più generico, quasi come diversa faccia d'un prisma luminoso): ed è un'altra prova della ricchezza ancora insospettata della sua arte.
Anche in questa serie di pezzi i più belli sono i primi due. Nel primo, Moderato in mi minore, la melodia del violoncello comincia con un salto di sesta ascendente un po' tristaneggiante, ma poi sbocca in una discorsività originale e di ampio respiro, dapprima di espressione tormentata e piuttosto cupa, poi rischiarantesi in una bella modulazione in sol maggiore, poi di colorito alterno. Lo sviluppo della melodia è lunghissimo, come un intrecciarsi di curve a spirale che sembrano non più finire, e sempre avvolto da dense armonie ed arpeggi e disegni vari del pianoforte. Se anche qua e là vi può essere qualche cosa di involuto, è menda non essenziale, e ben scusabile in tanta dovizia di ispirazione. La parte centrale, in do maggiore, comincia con colorito più sereno, ed è bellissima. Il disegno pianistico in terzine è una trasformazione della melodia d'inizio. Qui il pianoforte ha parte predominante: il violoncello commenta con suoni lunghi e contro-canti nella regione grave. Ma poi man mano l'espressione diviene di nuovo tormentosa e, dopo qualche alternativa di ansietà e rischiaramento, raggiunge l'esasperazione poco prima della ripresa; in questo punto solamente, il wagnerismo opprime lo spirito dell'artista e ne appesantisce l'espansione lirica. Ma la ripresa riconduce ben presto alla schietta dolcezza iniziale, arricchita dall'episodio finale in mi maggiore dove lo sviluppo corrispondente della prima parte è dimenticato e il violoncello si effonde liberamente (pur sempre sullo spunto tematico fondamentale) in una melodiosità pa-stosa e calda e chiude in un senso di bellezza serenante, col solito tipico disegno dell'accordo maggiore che si ferma sulla terza.

Il secondo pezzo, Andante in si bemolle maggiore, forse merita la palma fra i tre: ma non si può scegliere decisamente fra il primo e questo. L'Autore lo trascrisse più tardi per orchestra (con assolo del primo violoncello se non proprio con violoncello solista): e ciò può forse indicare che egli lo ebbe come preferito tra i preferiti. Comunque, è certo una delle sue ispirazioni più profonde. Esprime ancora un'attitudine sognante, ma di un sogno di particolare intensità emotiva, che tende cioè a uscire dalla solitudine fantasiosa per aprirsi ad uno slancio d'affetto verso l'umanità vivente, ma tuttavia sembra non trovare sfogo appagante, e ripiegarsi alla fine in una soave ma angosciosa stanchezza. Nella forma tripartita, la prima parte è la più limpida, affatto scevra dalle tortuosità qua e là notate nella parte corrispondente del primo pezzo; se mai qui la melodia del violoncello, pur essa di assai ampio sviluppo, pecca verso la fine di eccessivo sfogo, che stride alquanto con la vereconda espressione dell'insieme (verecondia che è condizione di ogni poesia autentica); ma ciò è solo cosa di un momento. La parte centrale è più involuta, con quei disegni di terzine del pianoforte che formano una fittissima trama, all'inizio assai vaga e delicata, poi man mano più complicata e di armonie un po' affatturate che poi nella terza parte formano nel violoncello un contrappunto alla melodia principale, passata al pianoforte; processo di giustapposizione usato dal Martucci anche altrove, qui magistralmente riuscito, senza cioè che la sua arduità comprometta la spontaneità dell'ispirazione. La melodia, qui alquanto abbreviata, finisce in una sospirosa cadenza dove il cello ribadisce a più riprese quella conclusione sulla terza che abbiamo visto anche nel primo pezzo come coronamento dell'ultimo accordo, ma che qui è parte integrante della melodia. E in entrambi i casi, come pure altrove, tale genere di chiusa caro all'autore ha un che di veramente catartico. Il terzo pezzo anche di questa serie è meno felice, sebbene nella sua baldanzosa e ad un tempo drammatica irruenza chiuda la triade in modo travolgente. Nella parte centrale i tormentosi cromatismi sembra che raggiungano il massimo, ma invece sono superati in densità dalla chiusa del pezzo, chiusa di involuta passionalità, che prolunga più del solito l'episodio di ripresa, e dove il wagnerismo prende il sopravvento.

Stando agli autografi, la triade di pezzi per violino e pianoforte fu composta, almeno in parte, nel 1880, quella per violoncello e pianoforte nel 1888. Poco più che trentenne, dunque, il Martucci aveva si può dir concluso la sua sostanziale attività di compositore di musica da camera. Dopo, scrisse ancora le due romanze per violoncello con accompagnamento di pianoforte op. 72: ma sono composizioni secondarie. La prima non è che un adattamento strumentale del duetto: «Perché tristo è questo cuore» dall'Oratono Samuel: adattamento dove l'espressione, già di per sé un po' comune, dell'originale per canto, perde ancora d'interesse. La seconda è più riuscita, ma neppur essa si leva a vera genialità, sebbene riveli, nella semplicità e coerenza discorsiva, la mano del maestro. Che questi due pezzi chiudano in declino la serie delle composizioni da camera martucciane, non ha alcuna importanza. L'essenziale è che in questo campo il Martucci ci ha rivelato, oltre alla vena lirica che già si era manifestata nei pezzi pianistici, una complessa spiritualità, e ampie facoltà architettoniche. (L'aggettivo non ci spaventa, applicato alla musica, per la stessa ragione per cui non abbiamo esitato a paragonare il Martucci al Di Giacomo: ossia perché tra le varie arti vi sono misteriosi richiami o, per dirla baudelairianamente, «corrispondenze»). Nell'appunto di disarmonia che altri ha mosso alle sue opere di vasto disegno, vi può esser di vero solo questo, che in esse i difetti sono un po' maggiori che nelle più belle composizioni pianistiche: ed effettivamente, non abbiamo trovato qui, salvo gli Scherzi e parte dei pezzi per violino (i quali ultimi del resto sono estranei agli ampi sviluppi della forma di Sonata), dei pezzi perfettamente limpidi come ad esempio l'ultima Barcarola o la Giga per pianoforte. Ma in parte ciò deriva dalla natura stessa di tali forme, dove l'ampiezza rende più difficile la perfezione; e d'altronde, se le imperfezioni sono in esse più sensibili che quelle di altri compositori di natura essenzialmente epica e monumentale, ciò non toglie che il Martucci vi sveli una più ricca umanità, un lirismo più robusto e insieme più cordiale che nei pezzi pianistici, pur serbando sempre quel velo di sognante tristezza che gli è proprio, e che diviene talvolta anche acuto dolore o, nei casi meno felici, esasperazione un po' torbida. Insomma in questo artista dal difficile sviluppo, e anche in molti altri, bisogna aver presente che spesso la perfezione è in ragione inversa dalla complessità o profondità dell'ispirazione: e la critica non può senz'altro pronunciarsi in pro dell'uno o dell'altro peso sulla bilancia, perché in realtà ciascuno di essi è di diversa natura ed esige diversa valutazione: nell'un caso puramente estetica, nell'altro più generalmente spirituale, riguardante cioè «l'arte come totalità».
E in quest'ultimo senso bisogna secondo noi dare la palma, fra le opere fin qui considerate, alla Sonata per cello e al secondo Trio, perché è in esse che crediamo di scorgere la sua parola musicale più alta. I pezzi per violino sono più perfettamente limpidi, ma più tenui: quelli per violoncello più complessi, ma più tormentati. Questa, beninteso, non è che una differenza di grado; e non è qui il luogo di risvegliare la questione sulla possibilità o meno della graduazione fra le opere d'arte: contentiamoci di accettare il criterio comune, empirico quanto si vuole, ma in definitiva adottato da tutti. E questo ci basta per stabilire che, se il Martucci si fosse fermato al pezzo lirico isolato, avrebbe forse realizzato una maggiore perfezione, sarebbe insomma riuscito nel complesso della sua opera meno disuguale, ma anche meno grande. Quella sua irrequietudine rivela che egli era un'anima essenzialmente anelante, e non andante a vuoto. Vedremo nelle altre opere come si sia ulteriormente svolto questo processo spirituale.